INSONNIA FATALE: DALLA SCOPERTA AI PRIONI

 

 

Nel 1973 una donna della provincia di Treviso manifestò un’impossibilità ad addormentarsi pur essendo stremata, con conseguenti sintomi psichici gravi ed un calo ponderale progressivo ed ingravescente. Per la sua età, 48 anni, si ipotizzò una demenza presenile, considerando l’insonnia effetto e non causa della condizione patologica. Psichicamente e fisicamente distrutta dall’impossibilità di riposare e ricostituire gli equilibri fisiologici di tutto l’organismo, la signora trevigiana era ridotta ad un peso di appena trenta chili quando, all’incirca un anno dopo, morì. Dopo cinque anni, la sorella cinquantaquattrenne andò incontro alla stessa sorte, ma in questo caso il medico internista che seguiva la famiglia, Ignazio Roiter, chiese la consulenza di un neuropatologo svizzero per tentare di formulare una diagnosi post-mortem mediante lo studio autoptico del cervello. L’esame anatomopatologico deluse la speranza di formulare una diagnosi, ma fornì un indizio che, in seguito, si rivelò significativo: una piccola lesione del talamo.

A distanza di dieci anni esatti dalla prima registrazione clinica di questa gravissima forma di insonnia, ossia nel 1983, fu colpito anche il fratello delle due donne. In questo caso, l’osservazione di Roiter pose al centro del quadro clinico l’impossibilità di dormire che, oltre ad aver determinato lo sviluppo di una sindrome ansioso-depressiva, aveva causato episodi di sonnambulismo, stati di torpore diurno e uno scompenso neurovegetativo con aumento della pressione sanguigna, sudorazione profusa e tendenza all’iperfagia.

Roiter, grazie agli archivi parrocchiali, poté ricostruire una genealogia della famiglia e riscontrare che numerosi membri erano morti per cause attribuite a malattie psichiatriche o neurologiche, quali demenza, alcoolismo o encefalite. Convinto che all’origine della fisiopatologia che aveva portato a morte le due donne e minacciava la vita del loro fratello vi fosse la deprivazione di sonno, Ignazio Roiter si rivolse ad uno dei massimi esperti italiani del settore, Elio Lugaresi, il quale decise di ricoverare il paziente nel suo reparto dell’Università di Bologna per studiarlo mediante elettroencefalografia. Il risultato fu inequivocabile: i tracciati mostravano una costante attività elettrica di veglia interrotta da brevi fasi di sonno REM (sonno associato a rapidi movimenti oculari e sogni vividi), e la completa assenza dei caratteristici periodi di sonno ad onde lente.

Purtroppo, quel piccolo progresso nella comprensione delle cause della patologia, non poté tradursi in una misura terapeutica che scongiurasse l’esito fatale.

Per lo studio istologico, Lugaresi sottopose l’encefalo del paziente alla valutazione di Pierluigi Gambetti, un suo ex-collaboratore divenuto patologo dell’Università di Cincinnati, nell’Ohio.

Anche in questo caso fu accertata una lesione del talamo in assenza di altri elementi di rilievo.

L’importanza della lesione talamica fu confermata nel tempo dagli studi condotti sulla famiglia affetta, e portò Lugaresi alla formulazione di una semplice interpretazione patogenetica dei sintomi: la lesione avrebbe provocato una disconnessione del talamo dall’ipotalamo.

Infatti, il talamo, stazione fondamentale delle vie reticolari che attivano la corteccia secondo i ritmi sonno-veglia, è normalmente collegato con l’ipotalamo, importante nel controllo delle funzioni neurovegetative e nel promuovere il sonno; pertanto la disconnessione farebbe mancare i segnali di stop al flusso di stimoli eccitatori diretti dal talamo alla corteccia.      

 

Con questa introduzione storica di Giovanni Rossi, si è aperto un incontro di approfondimento sull’insonnia familiare fatale (FFI), tenutosi a Napoli lo scorso martedì 3 aprile, ed originato dalle richieste di alcuni partecipanti al gruppo di studio che ha preparato l’aggiornamento sul tema “Sonno e Memoria”. All’excursus del professor Rossi sulle origini della FFI, ha fatto seguito la relazione di Diane Richmond che ha preso le mosse dal riconoscimento da parte della comunità scientifica internazionale della sindrome descritta dal gruppo di Elio Lugaresi nel 1986, per giungere fino alle prospettive attuali.

Diane Richmond, illustrando gli aspetti elettroencefalografici, ha rilevato che la malattia consiste proprio nell’incapacità delle strutture encefaliche di generare il sonno ad onde lente, ed ha fatto notare che fin dai primi anni di studio della FFI, i medici dell’Università di Bologna avevano notato similitudini elettroencefalografiche con la malattia di Creutzfeldt-Jacobs, ossia l’equivalente umano dell’encefalopatia spongiforme bovina causata da prioni.

Negli anni in cui Stanley Prusiner conduceva gli studi sulla proteina prionica che lo portarono al Nobel nel 1997, Pierluigi Gambetti ipotizzò che l’insonnia descritta da Roiter nella famiglia di Treviso fosse una malattia da prioni e, per poterlo verificare sperimentalmente, chiese a Prusiner gli anticorpi necessari. Il patologo dell’Università di Cincinnati eseguì, poi, una serie di esperimenti in cui dimostrò che materiale proveniente dal cervello dei pazienti deceduti per l’insonnia ereditaria trasmetteva la malattia nei topi, analogamente a quanto era stato dimostrato per l’encefalopatia di Creutzfeldt-Jacobs.

Oggi si conoscono 27 famiglie in tutto il mondo affette dalla malattia, e il gene responsabile può essere individuato mediante un test diagnostico.

Al finanziamento della ricerca su questa patologia contribuisce un’associazione di familiari di persone affette da insonnia fatale e malattie da prioni (www.afiff.org) e, anche se le prospettive di cura sono remote, è facile prevedere che lo studio della FFI consentirà di acquisire altri elementi sulla fisiologia del sonno e sulle malattie da prioni.

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-Aprile 2007

www.brainmindlife.org