SLA, LA MALATTIA DI NUVOLI, WELBY E COSCIONI

 

 

La decisione dell’ex-arbitro algherese Giovanni Nuvoli di fare ricorso all’eutanasia, ha riproposto all’attenzione del grande pubblico i problemi etici legati all’assistenza degli ammalati terminali, e all’attenzione dei soci di BM&L la gravità della sclerosi laterale amiotrofica, la malattia che ha portato a morte Piergiorgio Welby e Luca Coscioni.

Noto agli sportivi per la sua attività di arbitro, Giovanni Nuvoli, 53 anni, da sette sofferente della malattia neurodegenerativa, lo scorso 25 aprile, dopo oltre un anno di ricovero all’Ospedale Santissima Annunziata di Sassari, è tornato a casa ed ha convocato i giornalisti per comunicare alla stampa di aver trovato un medico disposto ad assisterlo nell’anticipare il momento estremo. La notizia ha sollecitato un incontro del gruppo strutturale sulle malattie neurodegenerative di BM&L-Italia, che si è aperto con una relazione di Giovanni Rossi il quale, riferendosi a Nuvoli, Welby e Coscioni, ha evidenziato le particolarità che fanno discostare questi tre casi dalla descrizione nosografica classica ed ha poi proseguito focalizzando l’attenzione sulla differenza, spesso trascurata nelle trattazioni divulgative e nelle comunicazioni mediatiche, fra i casi familiari e quelli sporadici. La distinzione è fondamentale per almeno un motivo: i recenti progressi della ricerca riguardano solo le forme ereditarie, ma la stragrande maggioranza dei casi è costituita dalle forme sporadiche ad eziologia ignota.

Giovanni Rossi ha fatto notare che Piergiorgio Welby (1945-2006), figlio di un calciatore della Roma, manifestò i primi sintomi all’età di 16 anni, presentando due elementi in contrasto con l’andamento medio rilevato in clinica: l’esordio, che ha il suo picco tra la quinta e la sesta decade di vita, e la durata, che nelle stime delle più autorevoli trattazioni non supera i cinque anni. Pur se raro -come ha rilevato il professore Rossi- non si tratta di un caso unico per decorso.

Un altro aspetto affrontato, è stato quello della suggestiva maggiore incidenza della malattia nelle persone che praticano attività sportive, ed è stato ricordato che Luca Coscioni, ricercatore universitario, era stato un atleta dilettante e questa sua esperienza gli aveva suggerito il titolo metaforico del libro che scrisse a sostegno della libertà di ricerca scientifica (Luca Coscioni, Il Maratoneta, Stampa Alternativa 2004).

L’incontro è proseguito con la relazione di Diane Richmond che qui di seguito riportiamo in estrema sintesi.

La sclerosi laterale amiotrofica (SLA nell’acronimo italiano e ALS in quello inglese), descritta per la prima volta dal neurologo francese Jean-Martin Charcot nel 1869, è la forma più comune di malattia del motoneurone dell’età adulta, che insorge in un’epoca che va dalla quarta alla sesta decade di vita (il range secondo gli epidemiologi dell’ALS Association è 40-70 anni, ma una percentuale non irrilevante insorge prima dei trent’anni e alcune rare varianti ereditarie prima dei 20), in genere portando a morte nel giro di 2-5 anni dalla comparsa di sintomi quali debolezza ingravescente degli arti, atrofia muscolare e spasticità. L’atrofia e la paralisi muscolare sono la conseguenza della degenerazione dei motoneuroni del midollo spinale e del tronco encefalico, la cui distruzione priva di tono, trofismo e riflessi i muscoli, compromettendo progressivamente le facoltà motorie degli arti, la fonoarticolazione e la respirazione. La spasticità, che complica ed aggrava il quadro, è conseguenza della perdita dei neuroni motori della corteccia cerebrale. Infatti, il processo patologico interessa sia i motoneuroni superiori, sia quelli inferiori del sistema nervoso centrale, evolvendo attraverso una serie di stadi che influenzano la dimensione, la forma, il contenuto, il metabolismo e la fisiologia di queste cellule.

Una delle prime osservazioni di patologia cellulare, che orientarono gli studi verso alterazioni del trasporto assonico, fu il rilievo di un rigonfiamento del segmento prossimale dell’assone, associato a neurofilamenti male orientati. Le anomalie cellulari e molecolari attualmente note sono numerose ed includono cromatolisi, inclusioni ed aggregati proteici spesso ubiquitinati (Ince, 2000). Nelle fasi seguenti i neuroni possono andare incontro ad atrofia e si rendono evidenti segni legati alla degenerazione walleriana degli assoni; con l’avanzare del processo patologico si riscontrano elementi caratteristici dell’apoptosi (Martin et al., 2005).

Negli ultimi stadi della malattia si riduce il numero dei motoneuroni nelle formazioni grigie del midollo spinale, nei nuclei del tronco encefalico e nella corteccia motoria, con conseguente assottigliamento dei fasci corticospinali.

L’eccito-tossicità è stata studiata come causa del danno nella SLA: il 60-70% dei casi non familiari (a loro volta 90-95% del totale) presenta una riduzione del 30-95% del trasportatore astrogliale del glutammato EAAT2 (detto anche GLT-1) nella corteccia motoria e nel midollo spinale (Cleveland e Rothstein, 2001). La riduzione di attività di questa importante proteina trasportatrice aumenta la concentrazione extracellulare di glutammato e, conseguentemente, la probabilità di una sua azione tossica mediata dal legame con i recettori extrasinaptici (Note e Notizie 14-04-07 La vita e la morte dipendono dalla sede degli NMDA attivati).

Sono stati descritti tre possibili processi di morte dei motoneuroni:

1) apoptosi o morte cellulare programmata,

2) necrosi associata a rigonfiamento e perdita di integrità della membrana,

3) autofagia per degradazione lisosomiale degli organuli cellulari danneggiati.

Nette distinzioni morfologiche fra questi processi non sono agevoli e spesso appaiono impossibili, sicché è stato suggerito che si possa determinare un continuum fra diverse catene di reazioni, con parziale sovrapposizione, in particolare fra necrosi ed apoptosi. Molti studi hanno evidenziato che l’apoptosi gioca un ruolo importante, ma in una forma diversa da quella più comunemente nota (Martin et al., 2005; Sathasivam et al., 2001; Guegan et al., 2001  Martin et al., 2000; Nijawan et al., 2000).

Molti progressi sono stati compiuti nella conoscenza eziologica delle forme ereditarie, individuando specifici mutanti per almeno quattro forme: ALS1, associata a SOD1 (Bruijn et al., 2004; Bruijn et al., 1998; Bowling et al., 1995; Borchelt et al., 1994; Rosen et al., 1993), ALS2 alla alsina (Yamanaka et al., 2003; Hadano et al., 2001; Yang et al., 2001), ALS4 alla senataxina (Chen et al., 2004; Moreira et al., 2004), e un’ultima forma è stata messa in relazione con una mutazione nel gene per una subunità della dinactina (Valee et al., 2004; Puls et al., 2003).

Tuttavia questi progressi, sia pure nella prospettiva di terapie geniche e prevenzione genetica, hanno una portata molto limitata perché le forme familiari nel loro complesso rappresentano, nei vari studi epidemiologici, una percentuale oscillante fra il 5 e il 10% del totale. In altre parole, il 90-95% degli ammalati di SLA è affetto dalla forma sporadica la cui eziologia rimane ignota.

Alla relazione della professoressa Richmond ha fatto seguito l’intervento di Roberto Colonna, che ha ripreso alcuni dei temi trattati dal professor Rossi sviluppando, fra le ipotesi eziologiche delle forme acquisite, quella relativa a fattori connessi con le pratiche sportive. Le righe che seguono sono un breve estratto dell’intervento.

Dalla diagnosi che, nel 1939, indusse al ritiro dalle gare il campione di baseball Lou Gehrig, sono molti coloro che hanno ipotizzato un ruolo almeno concausale di fattori quali stress e traumi legati alla pratica sportiva; alcuni hanno attribuito un’ipotetica responsabilità all’azione tossica di sostanze assunte a scopo di doping, sostenendo che l’eventuale dimostrazione di una simile tesi avrebbe consentito di spiegare i numerosi casi registrati nel mondo dello spettacolo fra persone dedite all’uso di sostanze psicotrope.

Fra i campioni dello sport affetti da SLA, oltre Lou Gehrig, tradizionalmente si citano il pugile Ezzard Charles, il giocatore di pallacanestro George Yardley, il giocatore di football americano Glenn Montgomery, il giocatore di golf Jeff Julian, l’assistente nello stesso sport Bruce Edwards e il calciatore inglese Jimmy Johnstone. A questi segue spesso una lista che tristemente si aggiorna e varia da paese a paese.

E’ stato a lungo oggetto di disputa se la malattia avesse realmente un’incidenza maggiore negli atleti di alcune discipline o se l’attività sportiva come fattore di rischio fosse solo apparente. Agli esordi del dibattito, quando la malattia era diagnosticata molto raramente, si osservò che sportivi, attori, musicisti ed altre categorie economicamente privilegiate, avevano maggiori possibilità di rivolgersi a neurologi in grado di porre questa diagnosi e, pertanto, la minore incidenza in altri gruppi sociali poteva essere la conseguenza di un mancato rilievo.

La controversia sembrò risolta quando alcuni studi epidemiologici dimostrarono che non vi era una maggiore incidenza della malattia in coloro che praticavano alcune discipline sportive rispetto alla popolazione generale. Tuttavia, se nel novero dei soggetti a rischio si includevano dilettanti e persone le cui attività lavorative non sono classificate come discipline sportive ma di queste riproducono alcuni aspetti, come nel caso di stuntmen, ballerini, giocolieri e arbitri, il numero degli affetti da SLA risultava superiore alla media della popolazione generale.

Il dubbio, dunque, permane e probabilmente sarà risolto del tutto quando si conoscerà con precisione l’eziopatogenesi di tutte le forme.

Roberto Colonna ha anche discusso il problema dell’aumento dei casi diagnosticati che ha portato negli USA ad una prevalenza di 2-3 per 100.000 abitanti: non sembra si possa attribuire al solo affinamento diagnostico e non si hanno elementi per poter indicare cause ambientali o comportamentali attualmente determinanti un aumento in cifra assoluta rispetto al passato. Dunque, si profila concretamente un rischio: un numero crescente di malattie motoneuroniche secondarie rimangono misconosciute ed i pazienti possono erroneamente essere diagnosticati di SLA per mancato approfondimento diagnostico.

La diagnosi differenziale, infatti, deve essere posta nei confronti di ben sette categorie patologiche in grado di determinare lesione secondaria dei sistemi di neuroni motori.

L’incontro si è chiuso con una breve rassegna della letteratura recente sulle prospettive terapeutiche proposta da Ludovica Poggi.

 

Per l’indicazione completa delle referenze bibliografiche citate nel testo scrivere a soci@brainmidlife.org. L’autrice della nota ringrazia Diane Richmond e Roberto Colonna.

 

Isabella Floriani

BM&L-Maggio 2007

www.brainmindlife.org