L’identità della GIOCONDA e la
psicologia degli storici dell’arte
Numerosi documenti, risultato di una ricerca condotta presso
L’Archivio di Stato di Firenze da Giuseppe Pallanti, consentono di fugare ogni
dubbio sull’esistenza e sull’identità della giovane donna che posò per il più
celebre dipinto di tutti i tempi. La ridda di ipotesi, le opinioni autorevoli,
le pretese dimostrazioni inconfutabili, spesso sostenute da argomentazioni
suggestive degne della miglior retorica ma prive di qualsiasi fondamento di
prova, cedono il passo alla verità storica scritta sulle carte del tempo.
Ascoltando Pallanti, che ha raccolto i risultati di questo
meritorio lavoro in un volume dal titolo “Monna Lisa, mulier ingenua”, mi è
ritornato in mente quanto ha scritto della Gioconda uno dei massimi
esperti di Leonardo da Vinci in un recente libro: “La Gioconda, si sa,
ha fatto versare i proverbiali fiumi di inchiostro. E’ un quadro vittima di
troppa erudizione, troppa filologia, troppa filosofia, troppa psicologia,
troppa insofferenza e, tutto sommato, troppa incomprensione”[1].
Personalmente ho sempre ritenuto che, in assenza di prove
del contrario, non vi fossero motivi plausibili per dubitare del racconto del
Vasari[2],
così che quando ho sentito che i documenti dell’Archivio di Stato ne
comprovavano la veridicità, ho provato la gioia di chi si sente risarcire per
un immotivato torto a lungo subito.
Ma, quale era l’opinione di chi scrive “troppa
incomprensione”? Francamente non la ricordavo. Per cui, con l’entusiastica perfidia
che anima il vincitore di una contesa dialettica quando, detentore di una
ragione divenuta evidenza può misurare l’entità dell’errore altrui, sono andata
a cercare e verificare scorrendo le righe del libro citato. Ed
ecco cosa ho trovato: “Oggi è ormai certo che non si tratta della Monna Lisa
del racconto del Vasari”[3].
Davvero “troppa incomprensione”! Anche da parte di chi la
riconosce negli altri ma non in se stesso.
Come avrà notato chi legge, ho omesso il nome di questo
studioso. Non l’ ho fatto per buon
gusto accademico, ma perché non volevo personalizzare l’errore che lo accomuna
ai membri di una sconfinata schiera equamente distribuita in tutto il mondo, e
poter citare il suo protervo ed erroneo “Oggi è ormai certo”, come esemplare di
una opinione diffusa presso gli storici dell’arte.
Si potrà più facilmente perdonare il mio apparentemente
sadico infierire, se si tiene conto del fatto che al riguardo -esattamente dal
1983, anno del “Laboratorio su Leonardo”- per aver sostenuto quanto oggi
ciascuno può riscontrare de visu, sono stata oggetto di giudizi
trancianti e critiche severe che nel tempo, al crescere della mia età, si son
mutati in sguardi compassionevoli, sorrisi di superiorità e motti di scherno.
Solo un’incompetente, culturalmente ingenua, se non addirittura rozza, avrebbe
potuto credere che la Gioconda non fosse un viso ideale. Per molti
“Soloni” della storia dell’arte rinascimentale non esisteva nessuna donna che
avesse mai posato per quel dipinto.
Che la maestria di Leonardo avesse idealizzato quel ritratto
con l’amorevole impiego del suo “ostinato rigore”, al punto di renderlo
realizzazione esemplare dei suoi principi pittorici, può capirlo anche un
bambino. Che non avesse impiegato la copia dal vero come punto di partenza, è
cosa ben diversa.
Una mia amica pittrice e restauratrice, specializzata nel
sistema quattrocentista ad olio, molti anni fa mi aveva spiegato, pennelli alla
mano prima ed esempi nelle visite ai musei poi, come e perché si può
riconoscere un ritratto vero da un viso che il pittore realizza solo
sulla scorta della propria esperienza e della propria fantasia. Questo aveva
contribuito a convincermi che “La Gioconda” fosse stata disegnata ed impostata,
secondo la tecnica leonardiana della “grisaille”, imitando le fattezze di una
precisa fisionomia. La coloritura eseguita con la tecnica della velatura
avrebbe poi consentito al Genio di Vinci innumerevoli ritorni e rifiniture per
rendere sempre più perfetto, soffuso ed “ideale”, ogni gioco di luce ed ogni
passaggio di tinta. Proprio le rifiniture basate sullo sfumato, che
hanno impresso al massimo grado il sigillo dello stile inimitabile del maestro,
possono aver sviato degli occhi più attenti alla letteratura critica che
all’osservazione diretta del dipinto.
Ho sempre ritenuto che il grado di risoluzione del modellato
del viso fosse tale, e la sua configurazione fosse così particolare, da non
poter essere frutto di fantasia o di assemblaggio di parti studiate in passato
da volti diversi.
Nel 1980 Silvana Levi Orban, in una descrizione romantica e
poetica della Gioconda[4],
spiega perché non le sembra possibile che sia il ritratto di una persona reale:
“…ci è difficile credere che essa sia davvero il ritratto di qualcuno, tanto
“assomiglia” a Leonardo, al suo ideale di bellezza, ai suoi canoni di rapporto
tra luce e ombra, tra figura e paesaggio naturale.” Si tratta di un’opinione,
quasi un desiderio, che posso comprendere: il valore artistico è tale che
trascende quello del mero ritratto. Ma ho citato questo passo perché contiene
un altro abusato luogo comune: La Gioconda è Leonardo.
In senso metaforico e nella comune deriva del
concetto di origine psicoanalitica dell’identificazione del soggetto con
l’oggetto della propria opera, il senso è condivisibile e quasi, direi, banale.
Di ogni artista, ma perfino di ogni autore di qualcosa, si può dire per
similarità o per paradosso che si identifichi con il proprio prodotto. Non
meraviglia che lo si dica di Leonardo per Monna Lisa. Il problema è che per
molto tempo un nutrito gruppo di studiosi pare abbia confuso la metafora
con l’analogia. In altre parole sono state scritte migliaia di pagine
sulla Gioconda come autoritratto!
Le insensatezze interpretative, su cui si potrebbero
scrivere intere biblioteche, hanno raggiunto il culmine quando si è creata una
corrente di storici dell’arte che ha preso a sostenere che la Gioconda
fosse un uomo e a speculare o, meglio, a vaneggiare su questo argomento. Il modello
sarebbe stato un fanciullo. Facile arguire che in questo caso, meno che mai, si
sia tenuto conto del dipinto. O, per meglio dire, lo si sia guardato con occhi
intelligenti. Le proporzioni piccole e delicate della parte inferiore del viso
di Monna Lisa non sarebbero compatibili con un volto maschile, nemmeno quello
di un bambino di età inferiore ai dieci anni, senza contare che in quel caso le
labbra non avrebbero avuto quelle dimensioni.
E’ più che un semplice sospetto che il dato storico
dell’accusa di sodomia rivolta a Leonardo abbia influito sulla mente di
queste persone, colpendo la loro fantasia. Anche se, come si legge in ogni
trattazione della vita del Genio toscano, anche la più sintetica e rabberciata,
l’accusa fu ritenuta falsa e Leonardo scagionato. D’altra parte, è noto che nel
Medioevo e nel Rinascimento l’accusa di sodomia era frequente strumento
di attacco ed offesa, spesso impiegata contro avversari politici o rivali
professionali, perché in un sistema inquisitorio, in cui l’onere della prova
era a carico dell’accusato, quella calunnia risultava molto efficace nel diffamare
e difficile da confutare mediante prove.
A mia volta potrei speculare -e vaneggiare- sulla psicologia
di chi vuol vedere a tutti i costi un uomo o un giovane gay in una
delicata fanciulla, e di chi vuole iscrivere, contro ogni evidenza, Leonardo da
Vinci -e/o il suo mito- nel club degli omosessuali famosi, anche se le tracce
documentali del suo orientamento sessuale indicano tutte l’eterosessualità.
A questo proposito mi piace ricordare che nel 1490, recatosi
a Pavia in compagnia dell’architetto e ingegnere Francesco di Giorgio Martini,
Leonardo prese a frequentare una celebre casa di tolleranza della città e, poi,
attratto dalla disposizione delle stanze, ne disegnò la pianta come modello di
“lupanare”. Questo disegno si trova sulla pagina di un suo manoscritto noto da
tempo, ma di recente è stata identificata anche un’altra pianta di questa casa
di donne di facili costumi: si tratta del postribolo da lui schizzato nel 1505
su un foglio del Codice Arundel[5],
dove, presso uno dei locali che ha rappresentato, Leonardo scrive: “Le putte”.[6]
In un altro foglio di questo manoscritto Leonardo,
verosimilmente scrivendo di sue esperienze, annota: “L’omo ha desiderio
d’intendere se la femmina è cedibile alla dimandata lussuria, e intendendo di
si, e come ella ha desiderio dell’omo, elli la richiede e mette in opera il suo
desiderio, e intender no’l po’ se non confessa, e confessando fotte”[7].
Ma veniamo, finalmente, ad una sintesi di quanto si ricava
dai documenti ritrovati da Pallanti.
Monna Lisa Gherardini nacque a Firenze, in Via Maggio, nel
1479, un anno dopo la Congiura dei Pazzi quando Leonardo, ventisettenne,
secondo l’Anonimo Gaddiano lavorava per Lorenzo de’ Medici. La famiglia
Gherardini era originaria del Chianti dove aveva numerosi poderi che si estendevano
presso i maggiori centri di quell’area, fra cui Greve, Panzano, San Donato in
Poggio, Castellina, fino al versante senese del Chianti. Le descrizioni catastali ritrovate all’Archivio di Stato di
Firenze attestano per la famiglia il titolo di proprietà o il contratto di
affitto di vari poderi in queste località.
Fra i numerosi documenti stipulati a vario titolo dai
Gherardini, assume notevole importanza l’atto di costituzione della dote,
datato 5 marzo 1495. Il padre di Monna Lisa, Anton Maria di Noldo Gherardini,
conferisce in dote alla figlia il podere di San Silvestro -tuttora esistente-
all’atto di andare in moglie, in seconde nozze, a Francesco Del Giocondo.
I Del Giocondo erano una ricca famiglia fiorentina e
Francesco era considerato un “setaiolo” di alto rango, fornitore della Signoria
Medicea. Come si vede, i documenti corrispondono perfettamente al racconto
vasariano. Francesco Del Giocondo, da cui l’appellativo di Gioconda conferito alla moglie, firma degli atti
anche da consorte di madonna o monna Lisa, ad esempio l’Atto di
Restituzione all’Ospedale Santa Maria Nuova, dopo l’affitto, dei poderi di Ca’
di Pesa, Carobbio, San Leonardo e Pruneto, toponimi che ritroviamo ancor oggi
nei pressi di Panzano in Chianti.
Improvvisamente le nebbie del mistero che la letteratura
storico-artistica aveva creato intorno al personaggio della Gioconda
sembrano diradare fino a scomparire: è possibile risalire ai luoghi ed alle
persone che frequentava, al tipo di vita che conduceva, agli avvenimenti di cui
è stata testimone, senza alcuna difficoltà.
Monna Lisa Gherardini Del Giocondo viveva fra Firenze e le
località del Chianti, dove aveva la maggior parte dei parenti e poteva godere
delle bellezze naturali e della tranquillità che ancora caratterizzano quei luoghi.
A Firenze, dopo il matrimonio, aveva dimora in Via della Stufa, una strada che
si affaccia sulla Basilica medicea di San Lorenzo, proprio nel cuore del
quartiere da cui storicamente originava la famiglia dei Medici, che vi aveva
costituito la roccaforte del suo consenso popolare. E’ importante, per
comprendere i rapporti che potevano intercorrere fra le famiglie che vi
abitavano, tener conto che tutta l’area, che include il Mercato Centrale e la
Basilica, non va molto oltre le dimensioni di un attuale parco residenziale e
che le torri, “scapitozzate” nel Medioevo, erano sempre più divenute case di
famiglia, addossate l’una all’altra, spesso abitate da più generazioni e da
collaterali. Visitando quell’area, dove la maggior parte degli edifici sono
conservati, ancora oggi è possibile rendersi conto dell’estrema prossimità che
si determinava fra gli abitanti, anche negli spazi pubblici che, con piccole
fontane, non vanno oltre le dimensioni di una modesta cornice intorno
all’edificio della chiesa di San Lorenzo.
Vale la pena soffermarsi brevemente su questa costruzione,
perché fondata da Sant’Ambrogio nel 393 d.C., secondo la tradizione, era
divenuta nel tempo la parrocchia dei Medici per la vicinanza con il loro
palazzo in Via Larga (attuale via Cavour). In realtà, fino alla
ristrutturazione nell’XI secolo, l’edificio non era altro che una piccola
chiesa e di questa sua modesta origine aveva conservato i caratteri fino a
quando, nel 1421 fu avviata la costruzione della basilica e, nel 1425, fu
affidato il progetto a Filippo Brunelleschi. Nel 1442 Cosimo de’ Medici, detto
il Vecchio, stanziò un capitale di 40.000 fiorini per costruire la cappella
maggiore che rimarrà di proprietà della famiglia. Lo sviluppo e la decorazione
della basilica, su cui i Medici esercitavano diritto di patronato, era insieme
consolidamento del potere nel rapporto con le gerarchie ecclesiali, a cui
direttamente si donavano patrimoni d’arte, e rafforzamento del legame con i
cittadini che consideravano una propria “casa spirituale” quel tempio
frequentato quotidianamente[8].
Cosimo dei Medici, detto Pater Patriae, viene qui
sepolto nella cripta, come si legge sulla grande lapide realizzata su disegno
del Verrocchio, maestro di Leonardo[9].
E’ comprensibile che Lorenzo il Magnifico tendesse a spostare
il centro della vita culturale e religiosa in San Lorenzo da Santa Maria del
Fiore dove, durante la congiura dei Pazzi, era stato assassinato il fratello
Giuliano ed egli stesso era scampato alla morte rimanendo ferito. Leonardo da
Vinci in quegli anni lavorò per Lorenzo, che si circondò dei migliori artisti
della città.
Quando Lisa Gherardini sposa Francesco del Giocondo, Lorenzo
de’ Medici è già morto ed il sistema di alleanze cittadine si è incrinato
minando la stabilità che aveva dato vita serena e prospera agli artisti.
Leonardo è a Milano, dove è divenuto ingegnere ducale ed ha appena cominciato a
lavorare al Cenacolo. Il padre di Leonardo, ser Piero di Antonio
da Vinci, che era il notaio più importante di Firenze, si prodigava per
procurare committenti per il figlio nella sua città, cosa che ne avrebbe
consentito il ritorno. Sono stati ritrovati documenti che attestano che i Del
Giocondo erano clienti del prestigioso notaio.
Quindi, si è supposto che in quel periodo Ser Piero abbia
ottenuto una commissione da Francesco Del Giocondo per conto del figlio. Perché
questa supposizione si rivelasse fondata sarebbe stato necessario che fra il
1499 (anno in cui Leonardo lascia Milano) ed il 1506 (anno in cui vi ritorna,
anche se per breve tempo) il Genio vinciano fosse a Firenze. E tanto è
attestato dai documenti.
Infatti, risulta che nel 1500 Leonardo ritorna a Firenze e,
successivamente, prende alloggio presso il convento dei Servi di Maria
Santissima Annunziata, dove i Del Giocondo avevano la Cappella di famiglia e
madonna Lisa si recava a pregare.
Da parte di alcuni erano stati sollevati dubbi sulla
presenza dell’artista a Firenze in quegli anni, enfatizzando l’importanza
dell’entrata al servizio di Cesare Borgia, avvenuta nel 1502, come architetto
ed ingegnere generale, cosa che comportava il recarsi in Romagna dove il
Valentino si era creato un regno. Si deve notare, però, che questa attività non
può essere durata molto, visto che l’anno successivo Cesare Borgia muore. Ma,
soprattutto, sono stati ritrovati i documenti dell’Annunziata che attestano che
Leonardo visse presso quel convento dal 1501 al 1503. E proprio nel 1503,
secondo Vasari, esegue la Gioconda.
L’ultimo documento di rilievo che riguarda Lisa Gherardini è
il testamento di Francesco Del Giocondo, datato 1538, in cui lascia ogni suo
avere alla moglie che definisce “mulier ingenua”[10];
espressione che, come abbiamo visto, compare nel titolo del libro che rende
conto della ricerca.
Un altro interessante contributo che viene dagli studi di
Pallanti è quello relativo all’indagine sull’epoca in cui si è cominciato a
dubitare del racconto di Vasari: non vi è traccia delle strane e infondate tesi
che ho precedentemente menzionato, fino all’agosto del 1911, ossia quando il
dipinto fu rubato dal Louvre.
Monna Lisa non solo è veramente esistita, ma la sua vita è
testimonianza di una vicenda emblematica nell’evoluzione e nello sviluppo del
tessuto sociale della regione che Cosimo volle unificare come patria culturale
e politica. Provenendo da una famiglia di piccola nobiltà rurale, col suo
matrimonio ne cambia radicalmente i destini, rendendola partecipe della vita
sociale e culturale della borghesia e della nobiltà fiorentina.
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L’autrice
ringrazia Filippo Rucellai per i suggerimenti e le correzioni apportate
al manoscritto.
[1] Carlo Pedretti (a cura di) Leonardo – arte e scienza,
pag. 70, Giunti, Firenze 2000.
[2] E’ un atteggiamento che ho assunto e difeso anche nello
studio che conducevamo su Pontormo lo scorso anno. Per il racconto, si veda:
Vasari, La vita dei più eccellenti pittori, scultori et architettori –
nelle redazioni del 1550 e 1568 (Torrentino, Firenze) riedito in 6 volumi da
Sansoni-Spes, Firenze 1967-1984.
[3] Op. Cit., p. 72.
[4] Silvana Levi Orban Leonardo da Vinci, Edizioni
Futuro, Verona 1980.
[5] Ora custodito presso la British Library di Londra.
[6] Si veda l’Edizione Nazionale dei Manoscritti e dei Disegni
di Leonardo da Vinci della Giunti in cui sono riprodotti in facsimile i fogli
del Codice Arundel e tutti gli altri manoscritti e disegni di Leonardo, e Carlo
Pedretti (a cura di), op. Cit., pag. 8 (Il Genio in presa diretta, di Carlo
Pedretti).
[7] Carlo Pedretti (a cura di), op. Cit., pag. 8.
[8] Per i dati storici sulla basilica di San Lorenzo, si veda: San Lorenzo. I
documenti e i tesori nascosti, pp. 41 e seguenti, Marsilio, Venezia 1993; San
Lorenzo 393-1993. - L’architettura. Le vicende della fabbrica (a cura di
Gabriele Morolli e Pietro Ruschi), pp. 53 e seguenti, Alinea, Firenze 1993.
[9] Piero Adorno, Andrea del Verrocchio e la tomba di Cosimo
il Vecchio, in Antichità Viva, XXVIII, pp. 44-48, 1989. Il
maestro di Leonardo, che ebbe fra i suoi allievi anche Botticelli e Pietro
Perugino, si chiamava Andrea di Cione, detto “Il Verrocchio” o “del Verrocchio”
dal soprannome del suo maestro orafo.
[10] L’aggettivo “ingenuus” nell’accezione latina ciceroniana si
impiegava sia nel senso di nobile, onesto, liberale, fine, sia nel senso
di leale, schietto, franco, generoso.