ICTUS E RELAZIONI SOCIALI

 

 

Sulla home page del nostro sito si legge: “Terza causa di morte al mondo, la malattia cerebrovascolare acuta in Italia fa registrare 500 nuove diagnosi al giorno e 186.000 in un anno, con la minima prevalenza nelle regioni del centro con migliore qualità della vita (5,7%) e la massima in quelle meridionali (7,3%)”. Una buona qualità della vita è, dunque, un noto fattore di protezione dall’ictus e, generalmente, è valutata dagli epidemiologi sulla base di standard sociologici e di fattori quali stress, alimentazione ed esercizio fisico. Ma nell’esperienza soggettiva, che influenza risposte cerebrali come la neurogenesi e la modulazione psiconeuroimmunitaria, un ruolo particolare spetta alle relazioni interpersonali, da quelle più intime con il maggiore impatto affettivo a quelle mediate da ruoli sociali che nutrono i sentimenti di identità e di autostima. Sull’efficacia preventiva e curativa dell’appartenenza a gruppi sociali sono tornati di recente Jolanda Jetten, Catherine Haslam, S. Alexander Haslam e Nyla R. Branscombe, che da tempo studiano gli effetti psicologici e terapeutici di gruppi e reti di relazioni basate su ruoli definiti e scopi comuni (Jetten J., Haslam C., Haslam S. A., Branscombe N. R., The Social Cure. Scientific American MIND 20 (5), 26-33, 2009).

Lo studio principale, fra quelli che hanno dimostrato in anni recenti l’importanza delle relazioni sociali nella prevenzione dell’ictus, è stato condotto nel 2005 da un gruppo guidato da Bernadette Boden-Albala, docente di neurologia e scienze medico-sociali alla Columbia University. Seguendo per 5 anni dopo l’episodio cerebrovascolare acuto 655 pazienti, gli autori del lavoro hanno calcolato che durante quel periodo coloro che avevano condotto una vita isolata in termini sociali, avevano una probabilità quasi doppia di andare incontro ad un secondo ictus rispetto ai pazienti che avevano relazioni sociali significative. L’analisi dei dati mostrava che la separazione da persone con le quali i pazienti spendevano una parte importante della propria vita di relazione, aveva un peso molto maggiore di altri fattori di rischio, quali una patologia arteriosa coronarica o l’inattività fisica, ciascuno dei quali accresceva la probabilità di un nuovo accidente vascolare acuto del 30%.

L’efficacia di relazioni affettive intime come quelle delle coppie di coniugi è nota da decenni, ma solo da poco tempo è stata valutata l’importanza dei rapporti sociali e, in particolare, dell’effetto di stimolo psichico costituito dal vissuto derivante da interazioni basate su identità sociali legate ad un ruolo. Jolanda Jetten, Caterine ed Alexander Haslam[1] hanno ipotizzato l’utilità di avere più identità sociali. Intuitivamente, interpretare ruoli diversi in contesti sociali differenti costituisce una condizione che presenta alcuni potenziali vantaggi:

1) si dispone di una varietà di modi diversi per le esperienze di relazione;

2) non si dipende da una sola fonte di stimoli relazionali per il nutrimento psichico derivante dai rapporti umani;

3) si possono compensare le eventuali frustrazioni originate dall’interazione con i membri di un singolo gruppo sociale.

L’ipotesi dell’efficacia dell’appartenenza a più gruppi sociali è stata messa alla prova in uno studio che i tre ricercatori della Columbia University hanno condotto nel 2008 in collaborazione con Holmes, Williams e Iyer, psicologi dell’Università di Exeter in Inghilterra, esperti in psicologia clinica e sociale.

Sono stati esaminati e seguiti nel tempo 53 pazienti che, all’inizio dello studio, erano stati colpiti di recente da patologia cerebrovascolare acuta. E’ emerso che la soddisfazione per le proprie condizioni di vita era molto maggiore in coloro che, prima dell’ictus, avevano fatto parte di più gruppi sociali[2]. Un’analisi approfondita di questo risultato ha dimostrato che coloro che avevano partecipato alle attività di molti gruppi, avevano potuto disporre di una rete di supporto psicologico molto estesa e varia e, per questo, notevolmente efficace. Gli effetti positivi di tale sostegno si sono apprezzati particolarmente nel caso dei pazienti con le perdite cognitive più invalidanti che, in genere, rendono difficile la conservazione di rapporti sociali normali.

Se gli effetti benefici del rapportarsi a contesti relazionali multipli sembrano ormai acclarati, si avverte, però, la tendenza di molti psicologi sociali di oltreoceano a dare importanza al numero di gruppi ai quali si appartiene, trascurando la valutazione della qualità dei rapporti istaurati e, dunque, dell’intensità degli stimoli cognitivi, affettivi ed emotivi. Noi riteniamo che, se avere più possibilità e non dipendere in termini psicoadattativi da pochi investimenti è, in generale e a maggior ragione in questo caso, utile e potenzialmente efficace, ciò non deve far trascurare gli aspetti qualitativi delle relazioni, inclusi gli effetti che producono le azioni compiute da una persona in seno ad un gruppo[3].

In conclusione, possiamo dire che anche per i pazienti che hanno subito un ictus vale una considerazione più generale del neurologo e saggista Oliver Sacks: nel valutare la qualità della vita di un paziente, la gravità della malattia conta tanto quanto la sua capacità di mantenere un senso coerente di se stesso.

 

Giovanni Rossi

BM&L-Ottobre 2009

www.brainmindlife.org

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Di questi AA sarà presto disponibile The Social Cure: Identity, Health and Well-being. Psychology Press. Si veda anche il fascicolo speciale intitolato “Social Identity, Health and Well-being” di Applied Psychology: An International Review 58, 1-192, 2009, curato da questi AA con Tom Postmes.

[2] Citato in Jetten J., Haslam C., Haslam S. A., Branscombe N. R., The Social Cure. Scientific American MIND 20 (5), 26-33, 2009.

 

[3] Si pensi a due casi reali ed opposti. Il primo riguarda un anziano uomo politico proveniente da un paesino del Sud Italia -quasi disabitato per l’emigrazione dovuta a mancanza di lavoro- il quale era membro di tutte le principali associazioni del paese, ma da queste non aveva grandi stimoli e solo rarissime occasioni di incontro. Il secondo, quello di un anchor man televisivo statunitense che, dopo l’ictus, grazie al solo gruppo di colleghi della rete televisiva aveva le giornate intere impegnate in incontri presso gli studi dell’emittente, in collegamenti, nelle risposte ad innumerevoli telefonate e messaggi di solidarietà e simpatia.