Claudio Badano, La possibilità e il senso, Armando Editore, Roma 2008 |
Gli oggetti impossibili della
filosofia
E'
uscito recentemente, pubblicato da Armando Editore, un importante saggio
scritto da Claudio Badano, docente di Filosofia e Storia presso il Liceo Scientifico
“Viesseux” di Imperia e membro della Scuola di Alta Formazione “Michele De
Tommaso” di Imperia, che fa capo al prestigioso Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici.
Il
lavoro è frutto di una lunga riflessione maturata a seguito di alcuni soggiorni
dell'Autore a Berlino, intorno agli anni Novanta.
Dico
subito che un pregio dell'opera, oggi ben raro in lavori intellettuali e di
produzione scientifica sì impegnativi - principalmente di quelli concepiti e
pubblicati in ambito accademico - è nel fatto che la chiarezza dell'esposizione
corrisponde pienamente alla densità concettuale e alla profondità
argomentativa. E' questa qualità, probabilmente, che rende stimolante la
lettura del saggio anche ad un lettore che non abbia specifiche competenze nell'ambito
di elezione.
La
congiunzione dei due termini che formano il titolo suggerisce il contenuto
dell'interrogazione sviluppata. La possibilità è quella data dalla capacità del
pensiero e del linguaggio di rappresentare e nominare anche cose che non ci
sono nella realtà fisica; il senso, invece, è l’ambito delimitato dai criteri di legittimità
stabiliti dal pensiero logico-razionale. Il saggio considera alcuni nodi di
questa problematica, così come vengono delineandosi nell’opera dei tre autori
presi in esame: Husserl, Wittgenstein e il molto meno conosciuto Meinong.
Le
domande affrontate sono molteplici: che cosa effettivamente intendiamo quando
diciamo che qualcosa è possibile; che tipo di atto mentale è quello con cui
pensiamo a qualcosa di non-esistente; a quale specie appartiene l’enunciato il
cui oggetto è dato da un evento non verificatosi, a cui cioè non corrisponde
alcun stato di cose; fino a che ambito si estende il principio di
non-contraddizione; com’è ipotizzabile un mondo in cui non valgano i nostri
attuali criteri di senso. Domande che alle spalle hanno una storia che di fatto
coincide con quella della filosofia stessa, e che il saggio ripropone
attraverso un articolato excursus che va dal pensiero eleatico alla scuola
Palatina dell'Età carolingia, dalla Sofistica a Kant, per approdare alle
filosofie del Novecento. In altri termini, dall'assunzione del principio di non
contraddizione nel pensiero occidentale ai diversi filoni di pensiero che lo
hanno posto in discussione.
Una
interrogazione avvincente: se le parole sono l’espressione adeguata delle cose,
come dobbiamo considerare i nomi di entità immaginarie: che tipo di cose
denotano termini di questo tipo? Di che natura sono i referenti di questi
segni? Queste domande vengono ad intrecciarsi sullo sfondo di quelle prime tesi
“classiche” e si ripropongono periodicamente nei quesiti che costellano lo
sviluppo storico della riflessione filosofica. Ad esse si connette la domanda
sul dove, ontologicamente, vadano collocate le entità non-esistenti, che noi
designano con nomi ed a cui va pertanto riconosciuta una qualche forma di
essere. Questo è appunto il quesito che la nozione meinonghiana di “oggetti
impossibili” contribuisce a far tornare alla ribalta. Meinong era partito da
indagini psicologiche, che lo vedono fondatore del laboratorio di psicologia
sperimentale di Graz e capostipite di un intero filone di ricerca, che annovera
numerosi studiosi, noto come la “scuola di Graz”.
Sin
dall'antichità, “oggetti impossibili” hanno abitato a vario titolo il pensiero
(dalle figure mitologiche al 'monte d'oro'). Di “oggetti impossibili” si parla
anche nella psicologia moderna e, più in particolare, nel studi della teoria della percezione concernenti le
illusioni ottiche. Il più famoso di tutti è probabilmente il triangolo di
Penrose:
|
Se
in psicologia si inizierà a parlare di questi oggetti negli anni ’50, Alexius
Meinong, almeno cinquant’anni prima, ne introduce la nozione e lo studio in
filosofia.
Che
cosa sono gli oggetti impossibili meinonghiani? Nel chiamare in causa il più
noto di essi, il “quadrato rotondo”, risulta evidente che esso è un tipo di
oggetto inaccettabile in base al principio aristotelico di non-contraddizione.
Ma basta questo a farci escludere che il quadrato rotondo non c’è? La
situazione a cui siamo di fronte è analoga a quella degli oggetti impossibili
della percezione. Il quadrato rotondo non è un niente, almeno nella misura in
cui di esso stiamo appunto occupandoci. E come gli oggetti impossibili della
percezione li possiamo vedere disegnati, così gli oggetti impossibili della
logica li possiamo nominare ed ospitare nel nostro discorso, facendone oggetto
di predicazione: del quadrato rotondo, ad esempio, diciamo che è rotondo. Se
facciamo questa operazione grammaticale, dobbiamo allora dire che il quadrato
rotondo è “qualcosa”, non un niente. Esso possiede dunque in qualche modo la
natura di ciò che è un “ente” o, in termini scolastico-medioevali, di un
“aliquid”, di una “res”. Ma come definire la natura di questo qualcosa?
Meinong risolve il problema proponendo la nozione di Gegenstand (“oggetto”).
La specificità di questa nozione sta nel fatto che per configurarsi come
“oggetto”, un ente non necessita né di una esistenza materiale, né di una
sussistenza ideale e neppure di una consistenza logica: il Gegenstand può
quindi comprendere anche gli oggetti contraddittori, quelli che non possono in
alcun modo essere. Il problema ontologico generale che gli oggetti impossibili
in senso filosofico configurano è quello che, in forma più elementare, possiamo
esprime nella domanda: oggetti di questo tipo ci sono o non ci sono? Possiamo
attribuir loro un essere, oppure no? Quando diciamo “ci sono”, facciamo
riferimento ad un essere il cui concetto richiede di essere chiarito. Ciò che
in primo luogo appare evidente è che gli oggetti in questione non ci sono nella
realtà fisica del mondo che ci circonda: noi non li incontreremo mai nel mondo
là fuori, non facendo parte dell’
'arredo del mondo'. Inoltre, questi
oggetti non solo non ci sono in questo senso, ma neppure potrebbero esservi,
essendo essi logicamente contraddittori. Ma, in un altro senso, questi oggetti
ci sono: lo dimostra già il fatto - ci avverte Badano - che essi
riescono ad impegnare speculazioni come quella di cui stiamo parlando. Inoltre,
oltre che a farne l’oggetto del nostro discorso, anche li vediamo: lì sul
foglio ove son disegnati, sullo schermo sul quale vengono proiettati. Se quindi
non son dotati di una realtà fisica, gli oggetti impossibili godono comunque di
una qualche forma di essere. In filosofia, quando si parla di essere, se ne
parla secondo due possibili accezioni generali. Una è quella dell’essere
materiale, per la quale esserci equivale ad esistere: una cosa che c’è, in
questo senso, è una cosa che è di fronte a noi in carne ed ossa. L’altra
accezione è quella dell’essere ideale - l’essere di cui sono dotate le idee, i
concetti, ecc. - e per indicare la quale si impiega la nozione di
“sussistenza”: di una cosa che ha essere ideale si dice, appunto, che sussiste.
Gli oggetti ideali come i valori, gli ideali, ecc. non li possiamo certamente
toccare, ma non possiamo dire che non ci siano, dato che essi determinano
decisamente la nostra vita. Ora, gli oggetti impossibili non sono dotati del
primo modo di essere, ma neppure del secondo, perché condizione della
sussistenza ideale è il criterio della consistenza logica: per sussistere un
oggetto deve, cioè, non violare il principio di non-contraddizione. Russell e
Carnap - due dei più importanti esponenti della filosofia analitica, coevi di
Meinong - avevano sostenuto due distinte tesi 'realiste', per cui le entità
immaginarie od impossibili, così come le nozioni metafisiche, eccedono le
possibilità del senso, sono prive di significato e le loro proposizioni risultano
foriere di false verità. Meinong, invece, si pone il problema di estendere a
questi oggetti il raggio di considerazione della filosofia e, dunque, quello di
dove collocare questi oggetti ai quali abbiamo pur conferire lo statuto di
essere “qualcosa”. Egli introduce qui un’altra delle sue nozioni originali: Il
“fuori-essere”. Si tratta di una dimensione che sta al di là dell’essere in
senso classico – cioè dell’essere che comprende i due modi della esistenza
materiale e della sussistenza ideale – e che abbraccia anche ciò che non può
essere, l’impossibile. Correggendo l’interrogativo amletico “essere o
non-essere?”, potremmo dire che il “fuori essere” comprende l’essere ed
il non-essere, in quanto dimensione onnicomprensiva tale da abbracciare anche
quella che è la loro opposizione contraddittoria. Quello che si può certamente
dire, in senso generale, è che essa è una nozione di natura topologica: quello
che essa indica è, cioè, un “luogo” la cui logica prescinde dallo spazio
geometrico-tridimensionale”, definito dalle coordinate geometriche euclidee.
Merita ricordare, solo per accenno, che la riflessione topologica è un profilo
che va affermandosi nella filosofia contemporanea, non più ancorata alla classica tematica del “fondamento” propria
della tradizione metafisica. Anche in questo senso, Meinong si rivela come un
pensatore assolutamente originale, come un precursore. Con la sua “teoria degli
oggetti”, la possibilità diviene una sorta di transito verso l'impossibile.
A
questo punto, Badano sviluppa la sua riflessione prendendo in considerazione i
due autori indicati nel titolo, Husserl e Wittgenstein, che - esplicitamente o
meno - hanno recepito o si sono comunque confrontati con la lezione
meinonghiana e che si qualificano quindi come protagonisti di altri due
percorsi esemplari nello sviluppo della tematica relativa al senso/non-senso.
Tematica di importanza cruciale: “la teoria della relatività - si osserva nella
Introduzione al saggio - , impostasi nella moderna rappresentazione
fisica dell’universo, è emersa e si è potuta affermare solo in virtù di una
pre-condizione logica: quella fornita dall’indagine sulle geometrie
non-euclidee che, già a partire dal ‘700, ha seguito la via dell’elaborazione
teorica di sistemi geometrici che prescindessero dalla convalida intuitiva, che
prescindessero cioè dal riferimento al mondo fisico reale”. La riflessione
inaugurata da Meinong fa qualcosa di analogo in filosofia: non arrestandosi al
divieto imposto dal principio di non-contraddizione, spiana la strada affinché
l’elaborazione filosofica possa spingersi verso terreni inesplorati, liberi e
svincolati dai lacci del senso comune e della verifica intuitivo-sensibile.
Come ci dice Badano, “La filosofia contemporanea è costellata da indagini e
tentativi di individuare luoghi topologici che risalgano alle spalle
dell’essere. Quello che dobbiamo ricordare è che di questa indagine Meinong è
stato un [...] pioniere”.
“La
possibilità e il senso” è il primo volume di una trilogia che ha per tema il
pensiero della possibilità nella filosofia europea della prima metà del '900:
l'uscita del secondo, sulla possibilità nella storia, che indagherà, in
particolare il pensiero del grande (e da me amato) Walter Benjamin, è
annunciata per la prossima primavera. Visto il valore del saggio ripreso qui
per sommi capi, attendiamo davvero con ansia questa nuova pubblicazione.
Pasquale Indulgenza