GIUSEPPE PERRELLA ILLUSTRA LA TEORIA DI GERALD EDELMAN

 

 

(DECIMA PARTE)

 

 

Nei pensieri e nelle conversazioni della vita quotidiana facciamo ordinariamente riferimento a concetti quali amore, salute, lavoro, preoccupazione, vacanze, benessere, impegni, e così via, e magari in alcune circostanze sviluppiamo riflessioni sulla base di astrazioni di grado più elevato, come lo spazio e il tempo nelle teorie filosofiche. In tutti questi casi, il concetto può essere riportato al valore semantico di una parola, come nelle definizioni dei dizionari, oppure reso con locuzioni e descrizioni che illustrano, mediante strumenti culturali, i collegamenti cognitivi che si vogliono intendere. In altre parole, la nostra esperienza dei concetti è intimamente legata al significato veicolato dalla lingua nella quale prendono forma quei processi che chiamiamo pensieri coscienti.

Questo aspetto costituisce un limite notevole alla possibilità di concepire “concetti senza parole”, postulandone l’esistenza in epoche filogeneticamente precedenti la comparsa del linguaggio verbale e ritenendo che nella nostra mente possano avere il ruolo di precursori o strutture portanti dei concetti linguistici. In effetti, il problema è intimamente connesso con la maniera in cui la nostra cognizione gestisce il significato sulla base della complessa ed organizzata eredità culturale trasmessa mediante l’insegnamento scolastico, le relazioni interpersonali e le varie fonti di informazione presenti nella nostra vita quotidiana. Di fatto, il significato è costantemente esperito come valore simbolico di un segno grafico o di un’altra rappresentazione: numeri, formule, lettere, sigle, marchi, stemmi, bandiere, icone del computer, hanno senso nella nostra mente in base ad un’operazione di significazione cristallizzata in una memoria associativa ed attualizzata dal riconoscimento. Un processo fondato sulla mediazione simbolica di una rappresentazione trasmissibile, ossia quanto accade nell’elaborazione basata su un linguaggio.

Concepire al di fuori dei simboli, in particolare prescindendo dalla lingua verbale, è veramente difficile, e un esempio di questa difficoltà ci viene dato dai modelli di organizzazione della conoscenza nella mente umana, concepiti dagli studiosi della cognizione. Celebre è la gerarchia tassonomica dei tipi proposta da Quillian nel 1968: un albero concettuale che, partendo da “cosa vivente” (living thing), si snoda lungo linee che indicano la categoria di appartenenza (ISA) e si ramifica fino a giungere ai colori delle foglie degli alberi, dei petali dei fiori, delle piume degli uccelli e della superficie del corpo dei pesci. Ogni nodo, dal quale si dipartono le due sottoclassi, è definito da un nome e i passaggi concettuali sono affidati ai verbi: “è”, “ha”, “può” (is, has, can).

Un tale schema non è altro che una rete di proposizioni verbali ordinate secondo la logica dell’uso impiegata dal nostro pensiero, che potrebbe essere accettato come organizzazione cerebrale della conoscenza solo se supponessimo che i processi neurali impliciti ricalchino la logica linguistica esplicita basata sull’apprendimento culturale. Rumelhart, nel 1990, con il suo modello connessionista della memoria semantica supera questa ingenuità interpretativa e propone uno schema dei processi di base che possono dar luogo ad una tassonomia come quella di Quillian, ma non riesce a fare a meno di serie di dischetti vuoti come simboli dei processi, e di parole come “ relazione” (peraltro declinata allo stesso modo in ISA, is, has, can), “rappresentazione”, “nascosta”, “attributo”[1].

Il problema, in realtà, non consiste nella semplice affermazione dell’esistenza di concetti pre-linguistici, ma nella rifondazione biologica della mente, che presuppone una filogenesi e un’ontogenesi delle facoltà mentali simile a quella di tutte le altre funzioni dell’organismo: così come per intelligenza e coscienza, termini nati per indicare facoltà esclusivamente umane e poi estesi a funzioni equivalenti del cervello animale, il significato di concetto deve essere riconcepito in una prospettiva neurobiologica.

La difficoltà nell’impostare la discussione di questa parte della teoria è ben presente ad Edelman che è solito porre in esergo una citazione da Wittgenstein: “Concetto è un concetto vago”.

I concetti, infatti, sono difficili da definire e la loro reale esistenza come entità distinte delle quali si possa studiare la base neurale, può essere solo indirettamente inferita dai dati sperimentali. Se il sistema nervoso centrale di un animale da esperimento è in grado di compiere astrazioni e generalizzazioni possiamo solo evincerlo dal comportamento, riconoscendo il possesso di queste facoltà dal superamento di prove che non sarebbe possibile eseguire senza astrarre o generalizzare. A questo, Edelman aggiunge il problema della tendenza a pensare in chiave linguistica: “Inoltre, si è tentati continuamente di considerare i concetti come una proprietà del linguaggio. Ma non è così: si può infatti sostenere con buone ragioni che animali privi di vere capacità linguistiche, come gli scimpanzé, hanno concetti e che i concetti vengono acquisiti prima del linguaggio”[2].

L’attribuzione di un senso più ampio al termine “concetto”, secondo un significato che ormai è diffusamente impiegato nelle neuroscienze cognitive, preoccupava l’autore della TSGN soprattutto nel decennio immediatamente seguente la prima enunciazione della teoria, quando era generalmente diffusa l’associazione pressoché esclusiva con il pensiero verbale umano. Ne Il Presente Ricordato si legge: “Il termine è stato usato spesso come applicabile rigorosamente a situazioni in cui si possa parlare di verità e di falsità[3]. Di contro, io lo userò qui in riferimento a funzioni separate dal linguaggio, oltre che in connessione con la capacità linguistica, consentendo che sia il contesto a guidare la discriminazione. Io penso che questa soluzione sia preferibile all’introduzione di un neologismo come «preconcetto»[4] per il presente uso non linguistico”[5].

Attualmente fra i ricercatori di ambito neurobiologico si è diffusa la tendenza ad assimilare alla concettualizzazione ogni operazione che consenta ad un animale di riconoscere, ad esempio, un oggetto o una circostanza non in base alla semplice similarità, ma per il possesso di requisiti che connotano una classe. In tal modo risulterebbero concettuali anche le operazioni di riconoscimento percettivo dei piccioni precedentemente menzionate e quelle di molti altri animali filogeneticamente lontani da noi. Non la pensa così Edelman, che in proposito ha idee ben precise.

 

[continua]

 

Il testo, ripartito in parti pubblicate settimanalmente, è una sintesi della trascrizione della registrazione della relazione del professor Perrella che è autore anche delle note, salvo dove è diversamente specificato. Il professor Rossi ha provveduto ai tagli necessari a rendere il testo più snello ed adatto alla lettura da parte di studenti e studiosi non specialisti.

 

Giovanni Rossi  

BM&L-Marzo 2010

www.brainmindlife.org

 

 

[Tipologia del testo: RELAZIONE ORALE TRASCRITTA]

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] McClelland J. L., et al., Semantic Cognition: Its Nature, Its Development, and Its Neural Basis, in Michael S. Gazzaniga (editor in chief), The Cognitive Neurosciences., pp.1049-1051, The MIT Press, Cambridge, Mass., 2009.

[2] Edelman G. M., Il Presente Ricordato. Una teoria biologica della coscienza, p. 173, Rizzoli, Milano 1991.

[3] Evidente l’influenza della lettura di Wittgenstein.

[4] In inglese la parola preconcept non esiste e, dunque, è realmente un neologismo; la parola “preconcetto”, scelta poco felicemente da Libero Sosio per la traduzione italiana qui citata, nella nostra lingua esiste ed equivale pressappoco a “pregiudizio”.

[5] Edelman G. M., Il Presente Ricordato, cit., pp. 143-144.