FARMACI E MECCANISMI NELLA TERAPIA DEL DOLORE 

 

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Il gruppo di studio sulla farmacologia del dolore, afferente al lavoro sulla biochimica e fisiopatologia del dolore di “Brain Mind & Life Italia”, mette a disposizione dei collaboratori esterni e dei visitatori del sito questa breve introduzione sulle basi classiche della farmacologia del dolore, allo scopo di fornire dati e concetti utili per introdursi ai complessi problemi che il gruppo strutturale sul dolore presenterà nei seminari del prossimo autunno.

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PREMESSA

 

La prima distinzione necessaria per studiare le molecole antagoniste dei processi dolorifici è fra analgesici ed antidolorifici.

Si tratta di una ripartizione in due grandi categorie concettuali in fisiologia, prima ancora che in farmacologia. Gli analgesici, infatti, agiscono prevalentemente con un meccanismo d’azione centrale sulle aree recettoriali encefaliche; gli antidolorifici o antialgici agiscono in prevalenza sulle reazioni che si producono nella sede del dolore.

La terminologia usata in passato non ha più ragione di essere impiegata perché fondata su ipotesi rivelatesi erronee, ma è utile conoscerla perché in taluni ambiti culturali e in ambito legale è ancora conservata, spesso generando disorientamento in chi non abbia una specifica preparazione.

Negli USA e in tutti i paesi di lingua inglese si era affermata l’infelice definizione di “analgesici narcotici” per i farmaci ad azione centrale, sebbene nessuna di queste molecole avesse mostrato alle dosi sperimentali e terapeutiche proprietà narcotiche, ossia anestetiche generali. Un altro aggettivo associato al termine analgesico è “stupefacente”. Ma questo attributo, che non indica alcuna proprietà biochimica, farmacologica o clinica, è vago e inesatto anche per descrivere i potenziali effetti psicotropi di alcuni membri di questa classe di farmaci.

In Italia alcune scuole di farmacologia avevano introdotto e diffuso la definizione “antidolorifici corticali” per gli analgesici. Ma l’espressione si è rivelata inesatta perché la ricerca ha dimostrato che la massima parte degli analgesici (oppiacei) non ha la corteccia per elettiva sede di azione, ma agisce su recettori situati nel lobo limbico, nei nuclei dello striato, nel talamo, nell’ipotalamo, nel mesencefalo e nel midollo spinale.

Ancora, nel nostro Paese, si era affermata la definizione di “antialgici meso-diencefalici o antinevralgici” per indicare gli antidolorifici (che sono anche antinfiammatori ed antipiretici) ad azione periferica. Tuttavia, l’ipotesi di questa sede di azione elettiva si è rivelata erronea. Attualmente è noto che la maggior parte degli antidolorifici agisce inibendo l’enzima cicloossigenasi nella via di biosintesi acido arachidonico  prostaglandine  (prostacicline/tromboxano). 

Le due categorie, degli analgesici e degli antidolorifici, naturalmente non esauriscono la gamma dei farmaci che si adoperano in clinica nella terapia del dolore, basti pensare ai triptani di ultima generazione nella cura delle cefalee o agli innumerevoli composti che si impiegano nel dolore neuropatico. Tuttavia, la scelta di limitare il nostro studio alle molecole che rientrano concettualmente in questi due gruppi, oltre a ricalcare una scelta frequente nella manualistica medica internazionale, si è rivelata opportuna per conferire quella omogeneità e sinteticità necessaria allo spirito ed ai tempi del nostro lavoro.

 

 

ANALGESICI

 

La quasi totalità degli analgesici adoperati in terapia medica rientra nel gruppo degli analgesici oppiacei, ovvero molecole morfino-simili per struttura chimica. I farmaci non oppioidi hanno maggiore interesse per la ricerca e solo pochi si adoperano in terapia, fra questi ricordiamo il Nefopam (5-metil-fenil-3-4-5-6-tetraidro-2-5-benzoxacina).

 

Analgesici Oppiacei: cenni storici, origine e chimica. Il papavero da cui si ricava l’oppio, Papaver somniferum, è originario dell’Asia Minore. Gli effetti euforizzanti di alcune parti della pianta erano noti fin dalla civiltà sumerica (4000 a.C.). Esistono descrizioni dettagliate del suo impiego nella civiltà egiziana, greca e romana. Teofrast Bombast von Hohenheim (1493-1541), più noto con il nome italianizzato di Paracelso, che egli stesso si diede, conosceva bene l’oppio, con il quale preparò, per primo, una tintura terapeutica contenente alcool, zafferano e zuccheri, conosciuta con il nome di laudano. La preparazione originale fu successivamente semplificata ed il suo impiego si diffuse grazie al medico neurologo Sydenham.

L’isolamento della morfina dall’oppio si deve ad un apprendista farmacista prussiano di nome Frederich Sertüner (1783-1841) che, mediante dosaggio biologico nel cane, ne stabilì le proprietà sedative e sonnifere alle dosi da lui testate. Proprio per l’efficacia ipnotica, il giovane aveva imposto alla sostanza il nome morfina, da Morfeo, il dio del sonno. Le sue prime comunicazioni redatte nel 1803, quando aveva vent’anni, furono respinte dagli editori o ignorate se pubblicate. Per provare la propria scoperta Sertüner decise di sperimentare su se stesso e su tre volontari, suoi amici, la preparazione purificata. La somministrazione di tre dosi di 30 mg in 45 minuti causò vomito, vasodilatazione cutanea ed una sindrome cerebrale che oggi definiremmo  coma di primo grado. Il lavoro fu pubblicato soltanto nel 1817, e si sa che attrasse l’attenzione dell’eminente chimico francese Gay-Lussac, influenzando Pelletier e Caventou. In quello stesso periodo furono isolati numerosi altri principi attivi di origine vegetale.

La proprietà dell’oppio di dare farmacodipendenza ha lasciato nella storia dei popoli tracce indelebili della sua pericolosità che, se conosciute ed opportunamente valutate, avrebbero potuto ridurre, se non evitare, le conseguenze negative dell’estesa diffusione del traffico e del consumo di sostanze d’abuso nel mondo contemporaneo. Dal 1700, intorno alla metà del secolo, Inglesi, Olandesi e Portoghesi stabilirono un fiorentissimo traffico di oppio con la Cina dove si era enormemente diffuso il fenomeno dell’abuso, mentre l’impiego dei derivati del papavero come medicamento aveva trovato ostacoli nei medici, formati su antiche tradizioni e superstizioni, e al più disposti a consigliarne l’uso in una sola, discutibile, indicazione: la dissenteria. La tossicodipendenza da oppio divenne così drammatica in Cina alla fine dell’800, da minare il tessuto sociale del paese per la perdita delle energie produttive legate alle risorse umane. Il governo cinese, per arginare la disgregazione della società, promulgò leggi molto severe che proibivano l’importazione dell’oppio e ne penalizzavano il consumo. Tali leggi scatenarono una guerra durata tre anni e terminata con il Trattato di Nankino (1842) che diede all’Inghilterra Hong Kong, aprì cinque porti ai trafficanti inglesi ed autorizzò il commercio dell’oppio.

I gravi danni della tossicodipendenza per la salute dei singoli e le conseguenze sociali legate alla rapida ed estesa diffusione dell’abuso, furono probabilmente sottovalutati in Occidente, presumendo una relativa immunità da parte di popoli più saldamente vincolati a valori di responsabilità familiare e sociale, tutelati dalle istituzioni statuali e religiose. Invece accadde che l’oppio e la morfina, sempre più spesso prescritti ed impiegati, andarono diffondendosi anche in Europa e in America come sostanze di abuso presso i gruppi sociali più agiati. L’abuso, che avveniva mediante assunzione orale, negli Stati Uniti aveva raggiunto proporzioni rilevanti quando, nel 1920, una nuova legislazione in materia ridusse efficacemente e drasticamente il fenomeno.

Nei decenni successivi, con la gestione del traffico da parte di organizzazioni criminali internazionali, con la coltivazione del Papaver somniferum come risorsa economica fondamentale per alcuni Stati nazionali[1], con l’intreccio del commercio di droghe con altre attività illecite come il traffico di armi, con la preparazione della diacetil-morfina (eroina) come sostanza iniettabile, il profilo del fenomeno è cambiato radicalmente fino ad assumere la connotazione e le caratteristiche ben note della realtà attuale. 

 

Gli analgesici naturali presenti nell’oppio, ossia la codeina, la morfina e la tebaina, appartengono agli alcaloidi a struttura fenantrenica e si ricavano dal lattice del Papaver somniferum. Alcuni giorni dopo la caduta dei petali, si incide superficialmente la capsula ancora immatura e succulenta. A distanza di circa un giorno, un lattice gommoso si addensa lungo le incisioni in quantità sufficiente per poter essere raschiato, raccolto in pani e lavorato. A questo materiale, che può contenere fino al 25% di alcaloidi, si dà convenzionalmente il nome di oppio[2]. Gli altri costituenti sono proteine strutturali, proteine enzimatiche (ossidasi, proteasi), mucillagine, gomma, cere, resina (2-10%) ed acqua (9-25%). Gli alcaloidi, che costituiscono i principi attivi, si trovano in massima parte legati ad acidi organici, soprattutto all’acido meconico, ma anche -in piccola quantità- ad acido solforico, lattico, acetico, succinico, citrico e malico. Il suo contenuto di morfina varia, in genere, dal 9 al 14 %, ed è portato al 10% nelle preparazioni standardizzate (la Farmacopea Ufficiale prescrive un oppio contenente il 10% di morfina quando sia essiccato a 60° C).

L’estratto totale di oppio prende il nome di papavereto e contiene numerose molecole attive, fra cui papaverina, narcotina, codeina e ben il 50% di morfina.

Gli alcaloidi presenti nell’oppio sono divisi in due classi chimiche:

 

1. derivati benzil-isochinolinici

2. derivati fenantrenici.

 

1.                  Gli alcaloidi benzilisochinolinici non sono analgesici, né presentano attività psicotrope definite. Le due molecole più importanti sono la papaverina e la noscapina[3]. La papaverina è un farmaco inibente la muscolatura liscia -per cui si adopera come miolitico- ed agisce come vasodilatatore. La noscapina, invece, viene impiegata come antitussigeno.

 

2.                  Gli alcaloidi fenantrenici (morfina, codeina, tebaina[4]) sono per lo più dei potenti analgesici. Il principale problema per l’uso farmacologico di queste molecole è dato dal fatto che il potenziale analgesico è, generalmente, direttamente proporzionale a quello tossicomanigeno. Infatti, la morfina che è il più potente analgesico ha anche le maggiori proprietà farmacomanigene e la codeina, che è il più debole analgesico, non desta preoccupazione per la genesi di condotte di abuso.

 

Oppiacei naturali, di semisintesi e sintetici: chimica. I composti oppiacei vengono ordinariamente ripartiti in tre categorie: 1) alcaloidi naturali, 2) molecole ottenute per semi-sintesi, 3) molecole di sintesi, prodotte ex-novo in laboratorio. I principali esempi sono indicati nell’elenco seguente.

 

Alcaloidi fenantrenici naturali

Morfina

Codeina

Tebaina

 

Molecole semi-sintetiche

Eroina

 

Molecole sintetiche

Difenil-metanici: Metadone, Propossifene, Destromoramide.

Fenil-piperidinici: Meperidina, Difenossilato, Fentanile.

Morfinani: Levorfanolo, Butorfanolo

 

Nelle trattazioni farmacologiche a queste tre categorie se ne aggiunge una quarta, quella degli antagonisti[5], per il loro rilievo teorico da un punto di vista faramacodinamico (sede recettoriale dell’azione, meccanismo d’azione) e l’utilità clinica nel trattamento delle tossicodipendenze.

 

Antagonisti

Antagonisti puri: Naloxone, Naltrexone.

Prevalentemente antagonisti: Nalorfina, Levallorfano.

Prevalentemente agonisti: Pentazocina, Buprenorfina, Nalbufina, Ciclazocina.

 

 

Lo studio degli alcaloidi analgesici derivati dall’oppio ha portato alla realizzazione di nuove molecole per sostituzione di radicali chimici nei composti naturali o per completa sintesi ex-novo in laboratorio.

Gli alcaloidi analgesici sono detti fenantrenici per il gruppo triciclico che caratterizza la loro molecola. Si può scrivere una formula generale di base (si veda Tabella I, fuori testo) sulla quale si inseriscono quattro radicali come varianti (R1, R2, R3, R4). Le sostituzioni determinanti sono quelle in R1 ed R2. Nella morfina i gruppi idrossilici sono presenti sia in R1 (gruppo fenolico) sia in R2 (gruppo alcoolico). 

La metil-morfina o codeina  presenta un metiletere o gruppo metossilico in R1. Tutti i derivati metilmorfinici sono classificati come derivati della codeina sebbene alcuni, come l’ossicodone, possano essere farmacologicamente più attivi della codeina. Se l’ossidrile fenolico resta libero, i composti sono classificati come derivati della morfina. L’ossidrile alcoolico in R2  può essere ossidato a cheto-gruppo con susseguente saturazione del doppio legame tra C7 e C8. Tali derivati sono denominati morfoni o codoni. Un gruppo idrossilico può essere inserito in R3 con formazione di idrossimorfone o idrossicodone.

L’eroina o diacetil-morfina è idrolizzata a morfina nel cervello e nel fegato, tuttavia l’entità e il rilievo fisiofarmacologico di questa azione enzimatica richiedono ulteriori approfondimenti.

Gli alcaloidi dell’oppio e tutti i composti affini si impiegano come sali idrosolubili.

 

Meccanismo d’azione degli analgesici oppiacei. I recettori. Gli analgesici oppioidi od oppiacei costituiscono il prototipo dei farmaci che agiscono sui meccanismi centrali del dolore legandosi a recettori i cui ligandi naturali sarebbero costituiti da peptidi encefalici denominati encefaline, endorfine e dinorfine[6].

Uno dei meccanismi ritenuti più probabili nell’azione farmacologica degli analgesici consiste in un processo dimostrato per l’azione fisiologica delle encefaline: queste molecole andrebbero a legarsi a recettori presenti su terminali presinaptici di neuroni liberanti neurotrasmettitori, la cui azione eccitatoria sui recettori di un terzo neurone medierebbe l’effetto dolorifico. Il legame di encefaline ed analgesici ai recettori presinaptici agirebbe da inibitore di questi neuroni.

Nella mediazione intracellulare dell’effetto degli oppioidi, l’inibizione dell’adenilato ciclasi è l’evento che si conosce da più lungo tempo. Il legame dell’analgesico naturale o di sintesi con il recettore, ne determina l’interazione con una proteina N inibitrice (NI) che lega il GTP con conseguente inibizione adenilatociclasica. La ridotta produzione di cAMP impedisce la normale attivazione delle proteinchinasi, non consentendo la fosforilazione delle proteine di membrana. Ne risulta un aumento della conduttanza per lo ione K+ ed una riduzione della conduttanza per il Ca++.

Probabilmente i processi ed i meccanismi molecolari sono numerosi, ma il loro riconoscimento dipenderà da una migliore conoscenza dei sistemi che vi prendono parte.

Inizialmente la ricerca in questo campo ha prevalentemente seguito due grandi indirizzi di studio: 1) l’identificazione delle aree del sistema nervoso in cui i recettori per gli oppiacei sono presenti; 2) la biologia molecolare e la biochimica dei recettori e dei sistemi di segnalazione a questi collegati.

Il primo obiettivo è stato perseguito prevalentemente mediante l’impiego di tecniche radio-immunologiche, che hanno consentito di definire questa scala di concentrazioni in ordine decrescente: I. Sistema Limbico, II. Talamo, nuclei del Corpo Striato e Ipotalamo, III. Mesencefalo, IV. Midollo Spinale.

Tuttavia, questo schema di distribuzione sovente riportato nelle trattazioni farmacologiche, risulta oggi largamente insoddisfacente, perché non distingue in base alla tipologia dei recettori.

Attualmente una molecola è considerata recettore per gli oppiodi quando lega con alta affinità e stereospecificità il naloxone[7].

Le principali classi di recettori per gli oppiodi sono tre, con relativi sub-tipi: μ1, μ2), δ, K (K1, K2)[8].

Distinguendo in base al tipo di affinità del composto per i vari tipi di recettori sono stati definiti dei quadri estremamente dettagliati, che risultano complessi e talvolta dispersivi in ragione del fatto che sono state sperimentate decine di ligandi. Per questo si è ritenuto opportuno proporre solo qualche esempio che consenta il confronto fra le molecole più note.

La morfina ha prevalente azione μ-agonista, pertanto, posta ad 1 l’affinità per questo recettore, l’affinità per il recettore δ risulta 125 volte minore e quella per il recettore K ben 1000 inferiore. Il metadone, anch’esso μ-agonista con μ-affinità identica alla morfina, presenta per il recettore δ affinità solo tre volte inferiore (contro le 125 della morfina) ed è affine al recettore K solo 40 volte di meno, rispetto alle 1000 della morfina.

E’ possibile rendersi conto della potente azione della dinorfina se si rileva che la sua affinità rispetto alla morfina è mille volte maggiore per il recettore K e sei volte per il recettore δ, a fronte di un’affinità solo di un sesto inferiore per il recettore μ. La dinorfina può essere anche paragonata all’etilchetociclazocina, potentissimo composto a prevalente azione K-agonista, la cui affinità è identica per K (uguale ad 1), ma di cinque volte inferiore per δ e di poco inferiore anche per μ.

Se le dinorfine sono prevalentemente K-agoniste, le encefaline sono più affini ai recettori δ, ma la differenza di affinità risulta evidente: la D-ala/D-leu-encefalina presenta un’affinità per il recettore δ uguale ad 1 (dinorfine 1/27), ma dove l’affinità delle dinorfine è uguale ad 1 (K) quella encefalinica è seimila volte inferiore.

La valutazione di affinità ha notevole importanza nella sperimentazione farmacologica, ad esempio, i farmaci K-agonisti sono potenzialmente efficaci analgesici, in grado di proteggere dai danni di ischemia cerebrale, senza causare depressione respiratoria, costipazione, abuso e tossicodipendenza, come accade per altri oppiacei.

 

Appunti sulle proprietà di alcuni oppiacei. La morfina rimane l’analgesico di riferimento, i cui effetti farmacologici principali sono i seguenti.

Analgesia

Depressione dei centri respiratori

Sonnolenza

Modificazioni del tono dell’umore

Convulsioni a dosi tossiche

Stimolazione dell’area chemorecettrice (Bulbo) e depressione del centro del vomito

EEG: frequenza ridotta, voltaggio aumentato, fase REM soppressa nella dipendenza

Miosi

Ormoni dell’Ipofisi: riduzione ACTH, TRH, LH; aumento ADH e prolattina

Sistema Cardiocircolatorio: casi mortali in Cuore Polmonare

Sistema Gastrointestinale: riduzione secrezione e motilità gastrica; forte costipazione

Pancreas e Fegato: riduzione secrezione pancreatica e biliare

Vie biliari e Uretere: marcato aumento della pressione e del tono

 

La codeina è metil-morfina. Se è buona la sua azione antitosse, l’efficacia analgesica è pari a 1/12 di quella della morfina.

La tebaina è dimetil-mofina. Scarsa l’azione analgesica e può dare convulsioni: in disuso.

Idromorfone ed ossimorfone sono potenti analgesici ottenuti per semisintesi: 5 volte più potenti della morfina.

Codoni: idrocodone bitartrato ed ossicodone adoperati in associazioni antitosse ed analgesiche, l’ossicodone ha all’incirca la stessa potenza analgesica della morfina con una più lunga durata d’azione (6-8 ore pro dose).

Metadone e congeneri: il metadone ha efficacia analgesica pari a quella della morfina. Per il suo stabile legame alle proteine plasmatiche (dopo l’assorbimento intestinale, buono come quello della morfina, circola legato per l’85% alle plasmaproteine) ed alle proteine tessutali ha un profilo farmacocinetico molto particolare, che gli consente di sopprimere a lungo la sindrome da astinenza. Tuttavia, non è scevro da rischi e problemi il suo uso terapeutico in quanto, come più sopra si rilevava, il potere tossicomanigeno è proporzionale a quello analgesico. La destro-moramide ha proprietà sovrapponibili a quelle del metadone; il propossifene è un analgesico meno potente.

Meperidina e congeneri: il fentanile ha un’attività analgesica 80 volte superiore a quella della morfina. La loperamide ed il difenossilato si impiegano come anti-diarroici.

Levorfanolo: ha mostrato una potenza da 3 a 5 volte superiore alla morfina nell’azione analgesica.

 

 

ANTIDOLORIFICI O ANTIALGICI

 

In molti casi il dolore è conseguenza di un processo infiammatorio. Esistono numerose dimostrazioni che il dolore infiammatorio risulta dall’azione sinergica di due fenomeni:

1) la stimolazione iperalgesica che non provoca nocicezione ma abbassa la soglia di eccitazione del recettore del dolore;

2) la stimolazione algesica che determina attivazione del recettore del dolore.

Le prostaglandine e le prostacicline sono probabilmente i più importanti mediatori iperalgesici presenti nell’area in cui si verifica la reazione infiammatoria[9].

Ai farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS) si attribuiscono tre azioni fondamentali esplicate attraverso il blocco dell’enzima ciclo-ossigenasi: antidolorifica, antipiretica ed antinfiammatoria. L’arresto della produzione di prostaglandine e prostacicline per effetto del blocco enzimatico spiega l’efficacia contro il dolore e le manifestazioni infiammatorie. L’azione antipiretica sembra sia da ascriversi all’inibizione della sintesi di prostaglandine nell’area preottica dell’ipotalamo.

Le tre proprietà sono presenti, sia pure in proporzioni diverse, in tutti i FANS che, fra loro, si distinguono in terapia per la maggiore o minore efficacia in una delle tre azioni. Assumono il nome di antidolorifici o antialgici quei FANS che in termini farmacodinamici esplicano prevalentemente i loro effetti antagonizzando la stimolazione iperalgesica.

I FANS sono così classificati:

 

SALICILICI – Acido acetilsalicilico e salicilati

PIRAZOLICI – Fenilbutazone, Ossifenilbutazone, Aminofenazone, Pirazinbutazone, ecc.

INDOLICI – Indometacina, Sulindac, Benzidamina[10]

PROPIONICI – Ketoprofene, Ibuprofene, Naproxene

ANTRANILICI – Acido mefenamico, Acido flufenamico

DERIVATI DEL PARA-AMINO-FENOLO[11] – Fenacetina, Acetaminofene (Paracetamolo)

VARI – Diclofenac, Piroxicam, Tolmetin, Suprofene, Diacereina, ecc.

 

 

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[1] I principali produttori mondiali di oppio sono nell’ordine: 1) Afghanistan, 2) Myanmar, 3) Laos, 4) Vietnam (dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite). Un grosso sostegno all’economia del traffico è dato dal business del riciclaggio, basti pensare che a Gibilterra vi sono 20.000 abitanti e 70.000 società finanziarie.

[2] Termine con il quale in varie culture si indica talvolta la pianta, talaltra il fiore, altre volte gli estratti o le preparazioni, altre volte ancora, la parola è divenuta sinonimo di “droga psicotropa” o dei suoi effetti.

[3] Sono presenti anche narcotina, narceina e, in tracce, idrocotarnina, xantalina, laudanosina, ecc., considerati di scarso interesse medico.

[4] Sono presenti, in tracce, anche la neopina, la porfiroxina e la pseudomorfina.

[5] Si rimanda ai testi di neuropsicofarmacologia ed alle altre trattazioni specialistiche per ulteriori approfondimenti.

[6] Per ulteriori approfondimenti si rimanda al testo delle nostre “Lezioni di Neurobiologia Molecolare 2004-2005”, alle trattazioni monografiche specialistiche ed ai lavori di ricerca attualmente recensiti dal nostro gruppo e dagli altri partecipanti al progetto di biochimica e fisiopatologia del dolore di “Brain Mind & Life Italia”.

[7] Questo campo di studi è in continua espansione, per cui si rimanda al lavoro dei nostri colleghi sui meccanismi molecolari del dolore per gli aggiornamenti, limitandoci qui alle nozioni consolidate nell’ultimo decennio e riportate nei trattati di farmacologia molecolare più autorevoli.

[8] Un quarto tipo, il recettore ε, ha ancora una connotazione controversa; l’inclusione del recettore “sigma” si basava sull’ingannevole effetto prodotto da derivati del benzomorfano antagonizzati dal naloxone: è attualmente escluso perché si è visto che le azioni sul recettore sigma di questi composti e quelle oppiodi erano da ascriversi a due enantiomeri diversi delle stesse molecole, l’uno agente sul recettore sigma, ma non antagonizzato dal naloxone e l’altro, antagonizzato dal naloxone, ma non agente sul recettore sigma.

[9] Le prostaglandine intervengono nel controllo del tono miometriale, nella protezione della mucosa gastrica e nella regolazione del tono della muscolatura liscia bronchiale. Alcune prostaglandine hanno attività aggregante e vasocostrittrice (tromboxano) ed altre attività anti-aggregante e vasodilatatrice (prostacicline). I leucotrieni, prodotti della via lipossigenasica, sono implicati in meccanismi infiammatori ed allergici.

[10] Il Sulindac è attualmente considerato un “pro-faramco” perché convertito dall’organismo in solfuro, che ne costituisce la forma attiva. La benzidamina è correlata solo strutturalmente con l’indometacina, per cui viene esclusa da molte classificazioni per la difficoltà di collocarla, tuttavia si tratta di una molecola estesamente impiegata in Italia (Tantum). 

[11] Mostrano una rilevante attività antidolorifica, discreta attività antipiretica, pressoché nulla l’efficacia sui fenomeni infiammatori.