ESIBIZIONISMO E VOYERISMO IN SVEZIA RIVELANO UN PROBLEMA

 

 

Una tendenza culturale che si è andata affermando negli ultimi decenni, tanto negli USA quanto in Europa, vuole che ogni comportamento attinente alla sfera sessuale, anche il più insolito ed artificioso, sia ostentatamente considerato normale, nel timore che chi esprime il giudizio possa essere tacciato di arretratezza o di atteggiamento discriminatorio e intollerante nei confronti di coloro che compiono atti diversi e lontani dall’accoppiamento riproduttivo. Questo stile politically correct ha contribuito a rafforzare e diffondere una sorta di convinzione preconcetta, secondo cui non esisterebbe una patologia psico-sessuale, ma solo diversi modi di sentire e interpretare il desiderio erotico, come se tutto e sempre fosse frutto di una libera scelta. La sincera convinzione che le cose stiano davvero in questo modo, ha indotto molti maîtres à pansée ed opinion makers ad erigere un muro difensivo ideologico a garanzia di inviolabilità della libertà sessuale e a screditare ogni forma di sapere volto a conoscere le peculiarità e l’origine di disturbi che invece, talvolta, possono rivelarsi gravemente invalidanti per chi ne è affetto, o contribuire a determinare lo sviluppo di altri problemi psichici.

D’altra parte, se è vero che ogni valutazione che investa persona, personalità ed identità, pone problemi sconosciuti a una semplice dicotomia normale/patologico come quella della medicina fisica che può basarsi sul valore numerico di un dato bioumorale, è altrettanto vero che l’esistenza di una patologia della sfera dell’eros, non intesa come devianza dalla norma socioculturale ma come conseguenza di un funzionamento neuropsichico anomalo, è una realtà inconfutabile. Questione diversa è quella della esatta definizione dei limiti fra normale e patologico che, spesso agitata come minaccioso fantasma nel corso di dibattiti ideologici, non costituisce un problema insormontabile, a meno che non la si elegga a pretesto dialettico per insinuare il sospetto di infondatezza in ogni approccio psichiatrico e sessuologico, perché se è pur vero che esistono condizioni in cui è difficile o impossibile tracciare un confine, ve ne sono molte altre in cui la distinzione si presenta con solare evidenza, come sa ogni psichiatra esperto.

Il quadro appena delineato è complicato dall’egemonia dei criteri fissati dalla classificazione dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association (APA), tutti centrati sul comportamento ed estranei alla migliore tradizione della psichiatria scientifica che, tralasciando ogni aspetto comportamentale dovuto alla fantasia, al costume o alla bizzarria di persone non affette da disturbi mentali, ha cercato di identificare, caratterizzare e curare processi mentali patologici. E’ ovvio che spostando l’attenzione dai processi intrapsichici -e dal loro substrato neurale- al comportamento, sia più facile assimilare e confondere il gusto inconsueto di una persona sana con il sintomo di un ammalato.

I rischi che si corrono nel focalizzare l’attenzione sulle manifestazioni comportamentali si possono bene sintetizzare, a mio avviso, nelle due ragioni per cui, secondo il nostro presidente, la psichiatria non si può ridurre a scienza del comportamento.

La prima, Giuseppe Perrella la rintraccia in uno spunto di saggezza di Giovenale: “Duo cum faciunt idem non est idem”, che riassume bene quanto il senso più autentico e profondo delle azioni umane risieda nella mente di chi le compia. La seconda, in una citazione di Salvador Dalì, il cui significato per essere compreso richiede che si illustri brevemente il contesto nel quale si colloca la frase.

Il celebre pittore surrealista, con l’aiuto dello psicanalista Jacques Lacan, aveva creato un personaggio, completo di autobiografia patologica, ispirato all’altezzosa grandeur di un paranoico che portava mantello, pizzo e baffi nella foggia seicentesca di Velazquez, e un bastone -come quello che il massimo pittore spagnolo adoperava per appoggiare la mano destra nel dipingere i dettagli- brandito a mo’ di scettro regale. Dalì interpretava da consumato attore questo ruolo per creare curiosità, attenzione e interesse intorno alla sua figura e, a chi chiedeva quanto vi fosse di vero, amava rispondere: “La differenza fra me e un pazzo è che io non sono pazzo”. In altre parole: l’unica differenza è in un elemento non visibile, nascosto nella mia psiche, trascurato da chi si fa semplice spettatore, ma detentore del senso di ciò che si vede. L’artista metteva in scena la follia sul palcoscenico del mondo, rendendola parte della realtà, ma avvertiva: tutto ciò è comportamento e, in quanto tale, forma e figura che esprime o cela una verità che solo la mia mente può rivelarvi.

A tali due spunti, tratti dai seminari del nostro presidente, voglio aggiungere il riferimento ad un aneddoto di tradizione indiana. Si narra di un uomo che aveva trascorso la sua vita fino ad età matura in silenzio, sedendo immobile su di una pietra, tanto da essere ritenuto muto, paralitico e demente. Un giorno, fra lo stupore di tutti, parlò e chiese che gli fosse condotto uno scriba, al quale da allora in avanti, per tutto il resto della sua vita, dettò i suoi pensieri. Così nacquero alcuni dei più straordinari libri di saggezza indù.

Dunque, il criterio ispiratore dell’APA sembra più vicino a quello della doxa popolare che considerava matto Salvador Dalì e demente il saggio indiano, che a quello del ricercatore, del medico, del filosofo o del semplice uomo di buon senso che non si accontenta delle apparenze.

La vecchia categoria nosografica delle psicopatie (tutte le sindromi psichiatriche erano ripartite in tre gruppi: nevrosi, psicosi e psicopatie) includeva le devianze sessuali -secondo Freud espressione di pulsioni parziali- oggi classificate fra le parafilie dall’APA nel suo manuale diagnostico e statistico giunto alla IV edizione riveduta (DSM-IV-TR; si nota di passaggio che la V edizione non è ancora entrata in uso).  Pur con i limiti delle conoscenze dell’epoca, l’analisi psicopatologica classica aveva identificato dei criteri diagnostici coerenti con l’impostazione teorica e costantemente confermati dalla pratica clinica; alcuni di questi criteri sono ritenuti tuttora validi da varie scuole europee. Ad esempio, un elemento nucleare, imprescindibile e diacritico nella diagnosi di sadismo, è il piacere -talvolta con caratteri di manifesto piacere sessuale- che il soggetto prova nel procurare sofferenza alla sua vittima; allo stesso modo non si dà masochismo se non si rileva piacere intenso nel procurarsi dolore. L’elemento centrale della diagnosi è lo stato mentale della persona. Leggiamo invece nel manuale DSM-IV-TR: “Per il Sadismo Sessuale, viene formulata la diagnosi se la persona ha agito sulla base di questi impulsi con una persona non consenziente”(“Criterio B” del DSM, v. DSM-IV-TR, pp. 605 e 613, ed. It., Masson 2001). Questo non è un criterio psicologico o psicopatologico, al più può appartenere alla ratio del Diritto Penale. Sarebbe come dire che uno è affetto da alcolismo se ruba bottiglie della bevanda alcolica preferita.

Un ultimo riferimento ai criteri del DSM prima di occuparci dello studio che costituisce l’oggetto principale di questa nota.

Ad un recente convegno sull’argomento, un neurobiologo ha chiesto agli psichiatri su quale base l’American Psychiatric Association avesse deciso che il criterio principale per la diagnosi di tutte le parafilie (esibizionismo, voyeurismo, pedofilia, sadismo, masochismo, ecc.) fosse la durata superiore ai sei mesi (“Criterio A” del DSM, v. DSM-IV-TR, pp. 605 e 613, ed. It., Masson 2001). Lo psichiatra che presiedeva l’assise, un po’ imbarazzato, gli ha risposto qualcosa circa la necessità che i sintomi durassero molto, perché simili disturbi generalmente hanno un carattere cronico e strutturale. Ma il neurobiologo, che sulle prime aveva supposto l’esistenza di un motivo neurofunzionale o psicologico, ha insistito: “Sì, ma chiedo perché proprio sei mesi?”. Nessuno ha saputo o voluto dargli una risposta.

L’insieme dei criteri diagnostici del DSM per le parafilie è un autentico pasticcio, che mostra incompetenza perché ignora i contenuti salienti del funzionamento mentale delle persone che presentano tali disturbi ed amplifica aspetti formali ed artificiosi, in una mescolanza di convenzioni mediche e convenzioni giuridiche male applicate. Ad esempio, i 180 giorni sono un limite convenzionale adottato per il giudizio di cronicità in varie patologie internistiche, quali ad esempio le epatiti, ma in tali casi la durata temporale corrisponde a precisi indici prognostici verificati su una base clinico-sperimentale. Allo stesso modo è improprio il criterio dell’assenza di consenso, perché propone per la diagnosi di desumere uno stato mentale patologico (il sadismo sessuale) di una persona, dall’atteggiamento mentale (non consenziente) di un’altra che, in questo caso, è vittima del comportamento originato dalla presunta patologia che si intende accertare.

Si comprende, perciò, il valore che attribuiamo ad ogni studio che si prefigga una migliore conoscenza dei disturbi sessuali mediante un’osservazione ed un’elaborazione non condizionata dai criteri DSM.

In particolare, il lavoro di Langstrom e Seto del “Centre for Violence Prevention” del Karolinska Institutet di Stoccolma, condotto su un campione nazionale della popolazione svedese, ci ripropone la necessità di un accurato studio dei processi psichici e del vissuto cosciente delle singole persone per poter comprendere il significato di un comportamento (Langstrom N. & Seto M. C., Exhibitionist and Voyeuristic Behavior in a Swedish National Population Survey. Arch Sex Behav. [Epub ahead of print] Aug 11, 2006).

La ricerca, parte di un esteso studio avviato nel 1996 e condotto su tutto il territorio nazionale della Svezia allo scopo di raccogliere dati relativi a molti aspetti della salute e della sessualità, è stata realizzata intervistando un campione significativo della popolazione generale del paese, costituito da 2.450 volontari di entrambi i sessi e di età compresa dai 18 ai 60 anni. Langstrom e Seto hanno in particolare studiato la prevalenza e i correlati della presenza nella popolazione di comportamenti esibizionistici e voyeuristici definiti sulla base di episodi in cui gli intervistati abbiano esperito un’eccitazione sessuale nel mostrare i propri genitali ad una persona sconosciuta (comportamento esibizionistico) o nell’osservare altri durante i loro rapporti sessuali (comportamento voyeuristico).

Fra i volontari che hanno risposto, 76, corrispondenti al 3,1%, hanno riferito di aver esperito almeno una volta eccitazione sessuale nell’aver mostrato i genitali ad una persona sconosciuta, e ben 191 fra coloro che hanno dato risposta, ossia il 7,7% del campione, hanno riferito di essersi eccitati sessualmente nello spiare delle persone che avevano rapporti sessuali. Complessivamente il 10,8% del campione. Sono state studiate, poi, le possibili associazioni dei comportamenti esibizionistici e voyeuristici con una serie di variabili: 17 legate alla sessualità, 9 a condizioni sociodemografiche, 5 alla salute e 4 alla ricerca del rischio.

Entrambe queste forme di comportamento prossime alla parafilia mostravano associazione positiva con l’appartenenza al sesso maschile, con un più basso grado di soddisfazione esistenziale, un più alto tasso di problemi psicologici, un maggiore uso di alcool e droghe. Per ciò che riguarda la vita sessuale dei soggetti intervistati, l’associazione positiva è stata riscontrata con la presenza rispetto alla media di maggiori interessi ed attività sessuali, incluso un maggior numero di partners, una maggiore eccitabilità sessuale, una maggiore frequenza di masturbazione, un più elevato uso di materiale pornografico e una maggiore probabilità di aver avuto un partner dello stesso sesso.

Coerentemente con quanto riportato in altre ricerche condotte su campioni clinici di persone affette da parafilie, coloro che hanno riferito eccitazione sessuale nel mostrare i propri genitali e nell’osservare rapporti sessuali, presentavano con maggiore frequenza altri comportamenti sessuali atipici quali travestitismo e sadomasochismo. Sono stati dimostrati rapporti generali e specifici fra fantasie sessuali e comportamento parafilico dei soggetti intervistati.

Non sfugge ad alcuno che le differenze di costumi e cultura sessuale fra la Svezia e gli Stati del Continente europeo di più marcata cultura cristiana e vari Stati americani (gli Stati della cosiddetta Bible Belt, lo Utah, ecc.) sebbene si siano attenuate negli anni recenti, non sono del tutto scomparse. E questo aspetto deve essere tenuto nel debito conto, anche in considerazione del fatto che ciò che appartiene al costume di un popolo entra a far parte del modo di vedere, sentire ed interpretare un comportamento. Dove la copertura del corpo è stata storicamente impiegata sempre per difendersi dal freddo e non per occultare i genitali allo sguardo “peccaminoso” di altri, è prassi costante che nelle saune, nelle palestre, nelle piscine, nei campi naturistici, si mostrino i propri genitali e si vedano quelli di estranei di entrambi i sessi. Dove il contatto erotico e i rapporti sessuali non hanno una storia millenaria di legame esclusivo con la responsabilità sociale attraverso un vincolo matrimoniale indissolubile, si comprende che i limiti alle manifestazioni pubbliche della propria sessualità non siano stati tradizionalmente oggetto di un controllo sociale, ma siano stati più spesso definiti da ragioni di opportunità, buon gusto, igiene o etichetta.

Ma, seguendo gli insegnamenti del nostro presidente, possiamo mettere il dito nella piaga di ciò che viene spesso trascurato dagli psichiatri, ossia: 1) l’accertamento di quanto la condotta sia irrinunciabile, 2) che ruolo abbia nell’adattamento psichico del soggetto, e 3) perché abbia assunto tale ruolo – ad esempio, ciò si potrebbe essere verificato per una dinamica di compenso e non per uno specifico processo di origine psico-sessuale; in tal caso le manifestazioni comportamentali rappresentano una traccia per un ben diverso percorso diagnostico.

Si tratta di tre quesiti di fondamentale importanza ai quali si deve cercare, con l’aiuto della persona esaminata, di dare una risposta nell’ambito di un più complessivo studio della psiche, non solo per una corretta diagnosi differenziale, ma anche per non correre il rischio di scambiare un comportamento volontariamente scelto in assenza di proibizioni, limiti o divieti, o magari generato progressivamente da cedimenti a pressioni ambientali, per il segno di una specifica patologia.

 

L’autrice della nota ringrazia il presidente di “BRAIN MIND & LIFE - ITALIA”, Giuseppe Perrella, con il quale ha lungamente discusso ed approfondito l’argomento trattato.

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-Settembre 2006

www.brainmindlife.org