DUE MUTAZIONI IN DISC1 PER SCHIZOFRENIA E DEPRESSIONE

 

 

 

“Attualmente è noto che anche il sistema nervoso più semplice è intrinsecamente disposto allo sviluppo di una individualità di configurazione che rende unico ciascun individuo di una specie […]. E’ noto l’esempio della Daphia magnia, un animaletto classificato con i crostacei, che si riproduce come femmina partenogenetica generando cloni di se stessa, ciascuno dei quali presenta l’assone del neurone ommatidico, cioè del singolo elemento dell’occhio composto, sempre diverso […] la differenza microscopica fra il cervello di due mammiferi clonati fa pensare alle differenze esistenti fra gemelli omozigoti.

Questa variabilità, che crea diversità per selezione durante lo sviluppo e durante l’apprendimento, deve essere tenuta presente non solo quando si studia il fondamento biologico dell’unicità di ciascun essere vivente, ma anche quando ci si occupa di psicopatologia” (Giuseppe Perrella, Individualità neurobiologica, complessità dell’encefalo e schematismo psicopatologico. BM&L-Italia, Firenze 2004).

Alla luce di questa premessa, è più facile comprendere la diffidenza degli psichiatri e di molti neuroscienziati competenti in psicopatologia verso gli studi genetici su modelli murini di malattia psichica umana. Ma, se rinunciamo alla specificità del collegamento di un gene difettoso nel cervello di topo con le manifestazioni tipiche della clinica psichiatrica, e diamo maggior rilievo al rapporto fra una data mutazione ed una imponente alterazione psico-comportamentale dell’animale, non potremo trascurare il valore di ricerche come quelle condotte da Clapcote e collaboratori (Clapcote S. J., et al. Behavioral Phenotypes of Disc 1 missense mutations in mice. Neuron 54, 387-402, 2007).

I ricercatori hanno messo in relazione due mutazioni dello stesso gene con modelli murini di schizofrenia e depressione.

E’ stato recentemente accertato che la psicosi schizofrenica ha una definita base neurobiologica in un’alterata configurazione dei collegamenti strutturali a fondamento delle attività psichiche (wrong hardwiring). Tale condizione non è geneticamente ed ineluttabilmente definita alla nascita, come dimostrano gli studi sui gemelli monozigoti di schizofrenici che, all’incirca nella metà dei casi, sono affetti da disturbi psichici di gran lunga meno gravi. Si può, tuttavia, affermare che il ruolo della componente genetica, espressa mediante uno sviluppo anomalo delle connessioni sinaptiche, rappresenta il fattore decisivo nei casi di diagnosi certa (non sono sufficienti e del tutto affidabili i criteri del DSM-IV, originariamente concepiti come guida per rendere omogenei i rilievi epidemiologico-statistici in tutto il mondo, ed erroneamente impiegati da taluni in clinica come strumento diagnostico esaustivo, senza alcun altro supporto di semeiotica psichiatrica).

Ancor più complesso è il problema della base genetica delle sindromi depressive che, nella maggior parte delle forme gravi, si accompagnano ad una riduzione acquisita di neuroni in alcune aree cerebrali (ippocampo, corteccia), spesso attribuita a riduzione della neurogenesi necessaria a compensare la perdita dovuta a stress o ad altri fattori etiologici causanti la sindrome. Una moltitudine di geni collegati con recettori, neurotrasmettitori, fattori di trascrizione, ecc., sono stati associati a manifestazioni depressive o bipolari nell’uomo e ciò, probabilmente, in ragione del fatto che per molte vie e per diverse cause si può giungere agli stessi sintomi che, pur configurando un quadro sostanzialmente identico dovuto a un deficit di attività di alcuni sistemi neuronici, sono espressione di disturbi e realtà umane diverse.

Clapcote e suoi colleghi hanno rilevato che una mutazione (missense mutation) nel gene per DISC1 (gene disrupted in schizophrenia 1) determinava nei topi lo sviluppo di un fenotipo depressivo, ed un’altra mutazione dello stesso gene comportava un’alterazione corrispondente al fenotipo schizofrenico, secondo i modelli comparati impiegati nella sperimentazione animale.

Entrambe le mutazioni riducevano il legame di DISC1 alla fosfodiesterasi-4B (PDE4B) e, pertanto, è lecito ipotizzare che il deficit di legame costituisca un elemento-chiave nell’espressione del fenotipo patologico.

I due fenotipi rispondevano bene, rispettivamente, al trattamento farmacologico antidepressivo e a quello anti-psicotico.

I risultati di questo lavoro sembrano confermare il ruolo di alterazioni di DISC1 nella genesi di patologie psichiche, come era stato ipotizzato in precedenti ricerche, ma suggeriscono una più estesa e, forse, più generica responsabilità eziologica.  

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-Giugno 2007

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