DISTURBO POST TRAUMATICO DA STRESS NEGLI ANIMALI

 

 

L’incolmabile differenza che separa le funzioni mentali del più evoluto dei mammiferi dalla vita psichica umana in tutti i suoi aspetti cognitivi, affettivi, culturali e sociali, giustifica ampiamente le riserve ed i sospetti con cui molti studiosi della mente guardano all’estrapolazione dei risultati ottenuti in esperimenti con animali alla nostra realtà.

Tuttavia l’apporto che la sperimentazione su animali dà alla conoscenza della fisiologia e della patologia cerebrale è prezioso e, per comprensibili motivi etici, risulta in molti casi  insostituibile. Non resta altro da fare che affinare i criteri per definire omologie quanto più possibile fondate e creare condizioni sperimentali il più possibile vicine alla realtà umana che si vuole indirettamente indagare.

 

Un buon esempio in tal senso è dato dallo studio di Hagit Cohen dell’Unità per la Ricerca sull’Ansia e lo Stress della Ben Gourion University (Israele) e dei suoi colleghi della Medical School di Tel Aviv e del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Haifa (Setting Apart the affected: The Use of Behavioral Criteria in Animal Models of Post Traumatic Stress Disorder. Neuropsychopharmacology 29, 1962-1970, November 2004).

Come è noto, gli studi clinici sul disturbo post-traumatico da stress (PTSD, secondo la classificazione del DSM-IV) rispettano rigorosi criteri diagnostici per l’inclusione dei volontari nei gruppi di studio. E, quindi, si basano sulla malattia clinicamente espressa in persone la cui sintomatologia inequivocabilmente soddisfi tali criteri. Invece, nella  sperimentazione animale, la raccolta e l’analisi dei dati sono generalmente espresse come funzioni di popolazioni esposte comparate a quelle non esposte allo stress, senza tenere in alcun conto le differenze individuali che portano un animale a sviluppare o meno una risposta disadattativa simile alla patologia umana.

Cohen e i suoi collaboratori hanno deciso di correggere questa impostazione acriticamente seguita da molti anni, introducendo un approccio allo studio della sindrome da trauma psichico negli animali analogo a quello impiegato dagli psichiatri negli studi clinici.

A tal fine hanno distinto gli animali che avevano sviluppato una risposta di cattivo adattamento protratto allo stress (equivalente alla malattia umana) da quelli che, dopo la risposta acuta, non avevano sviluppato un disturbo protratto (equivalenti alle persone che dopo un trauma psichico acuto non si ammalano cronicamente).

 

I risultati sono veramente interessanti.

Ad esempio, il tasso di prevalenza del cattivo adattamento allo stress è letteralmente crollato dal 90% della fase acuta al 25% di cattivo adattamento protratto dopo 7 giorni, rimanendo costante nel corso di 30 giorni.

Poiché anche la sindrome post-traumatica umana colpisce circa il 20-30% delle persone esposte, la corrispondenza con i risultati trovati da Cohen suggerisce la possibilità che, separando gli animali affetti nella sperimentazione, si possano concepire ricerche volte a chiarire alcuni dei tanti problemi irrisolti degli studi sulla patologia cronica da stress.

 

BM&L-Ottobre 2004