UNA DIAGNOSI PRECOCE DI COREA DI HUNTINGTON

 

 

I professionisti della patologia del movimento hanno rilevato spesso, in soggetti con familiarità per la malattia di Huntington, lievi segni e sintomi con anni di anticipo sulle manifestazioni conclamate che consentono la diagnosi. L’idea di definire criteri e strumenti per una diagnosi clinica precoce non è certo nuova fra i neurologi, ma i risultati dei vari studi condotti a questo fine non hanno incontrato un’accettazione generale e convinta da parte della maggioranza degli operatori e degli esperti.

L’importanza di poter disporre di un sistema sicuro per la diagnosi precoce risiede nella stessa natura di malattia genetica della corea diagnosticata per la prima volta nel 1872 in una famiglia di Long Island da un medico generico di Pomeroy nell’Ohio.

La sindrome descritta da George Huntington, caratterizzata da movimenti involontari (corea), vari sintomi psichiatrici e demenza, è dovuta a una degenerazione di neuroni dei nuclei della base e di aree corticali riconducibile, nel 90% dei casi, ad una causa ereditaria trasmessa come un carattere autosomico dominante. Ricordiamo che l’identificazione in corrispondenza del cromosoma 4q16 del locus genico responsabile, mediante una convenzionale analisi del linkage, appartiene alla storia della neurogenetica, perché costituì la prima volta in cui la causa di una malattia autosomica dominante fu stabilita con la sola analisi di varianti del DNA. A dieci anni di distanza dalla definizione del locus si è poi identificato il gene codificante una proteina di 350 kDA denominata huntingtina e contenente ripetizioni poli-CAG nell’esone 1.

Questa malattia neurodegenerativa è dunque bene conosciuta sul piano genetico e, considerato che la sua modalità trasmissione è autosomica dominante, non dovrebbe essere difficile diagnosticarla precocemente disponendo di uno strumento efficace.

Un lavoro condotto da Langbehn e Paulsen in collaborazione con l’Huntington Study Group presso la Iowa University sembra aver risolto i dubbi sollevati dagli studi precedenti ed aver definitivamente provato l’affidabilità prognostica di un metodo basato sui tre punti seguenti:

 

1) impiego di items specificamente selezionati e non ridondanti della “Unified Huntington Disease Rating Scale”;

2) valutazione neuropsicologica appositamente configurata;

3) presenza di alcuni sintomi soggettivi.

 

E’ stato condotto un esame longitudinale di 218 partecipanti al progetto per la realizzazione della banca-dati dell’Huntington Study Group, tutti in apparenti buone condizioni di salute e considerati a rischio genetico di sviluppare la malattia. I volontari sono stati seguiti per circa 4 anni e mezzo in reparti clinici specializzati per la diagnosi e la cura della malattia di Huntington (Langbehn, Paulsen & Huntington Study Group, Predictors of diagnosis in Huntington disease. Neurology 68, 1710-1717, 2007).

Alla prima osservazione, l’esame motorio era risultato normale o al più aveva evidenziato qualche minimo indizio di riduzione funzionale.

E’ interessante notare che la procedura, pur rigorosamente formalizzata, si è basata sull’impiego dell’intelligenza clinica degli operatori, abilità su cui faceva leva la migliore tradizione della semeiotica neurologica fisica del passato, e che oggi si tende ad abbandonare affidandosi unicamente ai dati ottenuti mediante indagini strumentali ed esami di laboratorio.

Si è cercato di mettere in relazione le tracce sintomiche emergenti dagli esami con il lasso di tempo intercorrente per lo sviluppo delle manifestazioni indicanti l’avvenuto sviluppo della malattia.

La previsione diagnostica era significativamente migliorata dall’impiego di items specifici e non ridondanti della “Unified Huntington Disease Rating Scale”.

Quando uno specialista dei disturbi motori aveva inizialmente un’impressione globale dell’esistenza di segni lievi, il rischio relativo cumulativo di diagnosi al follow-up ad un anno e mezzo era 4,68 volte maggiore e 3,58 al  follow-up a 3 anni.

Il test neuropsicologico appositamente allestito ha fatto rilevare che una velocità psicomotoria di 1 SD peggiore della misura di conoscenza semantica, accresceva il rischio cumulativo di diagnosi di 1,99 volte a 1,5 anni e di 1,81 volte a 3 anni.

Quando i volontari esaminati riferivano sintomi soggettivi, il rischio relativo a 3 anni aumentava da 2,6 a 3,4.

In conclusione, la procedura impiegata dal gruppo della Iowa University su un campione tanto noto e significativo, sembra davvero uno strumento promettente per la diagnosi precoce, ed evidenzia l’importanza che le persone con familiarità per la malattia siano seguite preventivamente da terapisti e medici specialisti, così da poter affrontare per tempo e nel modo migliore possibile l’esordio e l’evoluzione di una malattia la cui cura, purtroppo, richiederà ancora un lungo e faticoso impegno della ricerca.

 

L’autore della nota ringrazia Giuseppe Perrella, presidente della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia.

 

Giovanni Rossi

BM&L-Giugno 2007

www.brainmindlife.org