PROCESSI PER LA CODIFICA E IL RICONOSCIMENTO DEI VOLTI

 

 

La ricchezza e la complessità di molti aspetti dell’interazione sociale dei primati si basa sulla capacità di distinguere e riconoscere dal volto gli altri individui della propria specie. Questa abilità, che nella realtà umana raggiunge alti livelli di sofisticazione mediante l’integrazione sovramodale di informazioni sensoriali multiple, sembra fondarsi su una base neurobiologica comune alle scimmie più evolute e all’uomo, per questo gli studi sui meccanismi neuronici della percezione dei volti nei primati sub-umani rivestono grande interesse. Due studi recenti hanno fornito nuovi dati che aggiungono qualche importante elemento alla conoscenza di questa funzione.

La localizzazione dell’area dei volti nel cervello umano, che si fa risalire agli studi anatomo-clinici di Norman Geschwind, corrisponde ad una regione corticale paramediana sulla faccia inferiore dell’encefalo che appartiene al lobo temporale ed occupa una parte di corteccia occipitale. Nel macaco l’area corrispondente non ha una sede topografica tanto lontana e, in precedenti esperimenti, è stato possibile identificare un gruppo di neuroni nel lobo temporale (the middle face patch) che rispondono selettivamente alla vista di un viso.

Freiwald e colleghi del Department of Neurobiology, Harvard Medical School, Boston, hanno usato la registrazione elettrica da singole cellule per cercare di definire il modo in cui questi neuroni contribuiscono alla rappresentazione delle facce (Freiwald W. A., et al. A face feature space in the macaque temporal lobe. Nature Neuroscience 12(9), 1187-1196, 2009).

Gli esperimenti sono stati condotti in modo da cercare di stabilire un preciso rapporto fra caratteristiche facciali ed attivazione di singole cellule, per determinare la sintonia fra tratti fisionomici e sottogruppo neuronico. Sono state registrate le risposte a facce tracciate come disegni costituiti da 7 parti fisse: capelli (pelo del capo), contorno del viso, occhi, iridi, sopracciglia, naso e bocca. La forme e la disposizione delle singole parti si sono fatte variare secondo 19 dimensioni diverse (quale ad esempio la distanza fra gli occhi e l’arcata delle sopracciglia) in modo tale da poter esaminare la selettività e la “sintonia” dei neuroni a ciascuna delle caratteristiche prescelte.

Singoli neuroni nel middle face patch rispondevano ad un numero che variava fra uno e quattro elementi del viso; la frequenza di scarica delle singole cellule variava con le dimensioni degli stimoli, rivelando che ogni neurone era in media sintonizzato su una gamma di tre dimensioni. Un’alta frazione di neuroni sembrava sintonizzata su dimensioni collegate con gli occhi o con la sagoma facciale, mentre solo pochi reagivano a dimensioni collegate con il naso e la bocca. Gli esiti di questi esperimenti indicano che, nell’area deputata all’elaborazione dei volti, i singoli neuroni codificano le varie componenti di una fisionomia.

I ricercatori si sono poi chiesti se la visione del viso intero avesse un’influenza sulle risposte alle singole parti del volto.

Apparentemente nessuna cellula richiedeva la faccia in toto per accendersi, però quando era presente l’immagine del volto completo, l’amplificazione delle curve di sintonia e la frequenza di scarica dei neuroni era maggiore.

Anche l’orientamento si è rivelato importante, infatti è risultato che quando si invertiva la posizione si aveva un complessivo decremento della sintonia per i parametri della bocca.

Un altro studio molto interessante ha considerato l’effetto dell’orientamento del viso sulla percezione (Adachi I., et al. Tatcher effect in monkeys demonstrates conservation of face perception aceoss primates. Curr. Biol 19, 1270-1273, 2009).

Adachi e collaboratori del Yerkes National Primate Research Center, Emory University, Atalanta, hanno verificato l’esistenza in primati sub-umani di un effetto descritto nell’uomo e ben noto agli studiosi dei processi cognitivi connessi con la percezione visiva. Con il nome di Tatcher effect si indica la drastica riduzione della nostra abilità di identificare le differenze fra due facce quando queste sono invertite.

In macacus rhesus i ricercatori hanno accertato l’esistenza di un Tatcher effect simile al nostro: le scimmie sottoposte all’esperimento trascorrevano un tempo più lungo guardando una versione alterata di una faccia alla quale erano state abituate in precedenza[1], quando i volti erano presentati nel verso giusto rispetto a quando erano invertiti.

Gli esperimenti condotti da Adachi e colleghi, nel loro complesso, sembrano confermare che le scimmie impiegano una strategia di elaborazione simile alla nostra.

Presi insieme questi due studi forniscono un contributo significativo alla conoscenza dei processi di elaborazione dei volti nei primati non-umani e, considerando l’importanza dell’orientamento delle componenti di un viso, suggeriscono che alcuni aspetti sono identici in tutti i primati più evoluti.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Floriani per la correzione della bozza e invita a leggere le recensioni di argomento connesso nelle nostre “Note e Notizie”.

 

Diane Richmond

BM&L-Ottobre 2009

www.brainmindlife.org

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

 

 

 

 

 



[1] Questo comportamento è conseguenza della capacità di percepire le differenze.