DIPENDENZA DA COCAINA E ABUSI DETERMINISTICI

 

 

La fisiologia cerebrale nelle tossicodipendenze, e in particolare in quella da cocaina, è associata ad alterazioni del sistema della dopamina e ad uno stato che genera la compulsione, ossia il desiderio irresistibile di compiere un atto non rispondente ad una necessità biologica o ad un fine razionale. Sono state condotte numerose ricerche al riguardo ma, sebbene siano stati pubblicati risultati chiari e convincenti circa alcuni effetti della cocaina sul sistema di segnalazione dopaminergico, non per tutti gli elementi anomali è stato possibile stabilire se essi precedessero o seguissero l’uso sperimentale della sostanza psicotropa.

La questione non è di poco conto perché, se non si hanno certezze in questo senso negli animali da esperimento, è improponibile ogni estrapolazione alla realtà umana nella valutazione di quanta parte nello sviluppo di una tossicodipendenza dipenda da caratteristiche già presenti alla nascita e quanto sia conseguenza di modificazioni dell’espressione genica e della risposta fisiologica dei sistemi indotte dall’assunzione della molecola.

Un lavoro pubblicato su Science è stato al centro di dispute di cui si dà conto su Nature  Reviews Neuroscience (Leonie Welberg, Addictive personalities. Nature Reviews Neuroscience 8 (4): 246, 2007).

Ecco in estrema sintesi i risultati della ricerca. Ratti spontaneamente compulsivi, che non avevano mai assunto cocaina, se ne somministravano una quantità maggiore di quelli non compulsivi e, più alti erano i livelli di tendenza compulsiva spontanea, più basso era il numero dei recettori D2/3 nel nucleo accumbens, struttura importante nella motivazione e nella risposta a ricompensa.

Leslie King-Lewis per la popolare rubrica “Action on Addiction” (BBC online) ha affermato che il lavoro è interessante perché ha identificato nei ratti una base biologica per alcuni comportamenti e mostra come si possa giungere alla dipendenza.

In questo genere di interpretazioni ritorna un problema che BM&L-Italia conosce bene ed affronta spesso: l’iper-semplificazione delle basi biologiche di una funzione, ridotte al solo aspetto indagato dalla ricerca, seguita dall’attribuzione deterministica di un significato comportamentale a processi studiati al livello molecolare.

L’assunzione di una simile prospettiva trascura almeno tre fattori importanti: 1) il sistema di segnalazione legato alla dopamina è solo uno dei sistemi attivi nella dipendenza; 2) gli stessi recettori dopaminergici sono stati implicati in altre funzioni e comportamenti del ratto; 3) l’importanza dei processi neoencefalici nel cervello umano suggerisce molta prudenza nell’estrapolazione dei risultati della sperimentazione animale.

Vediamo le opinioni riportate da Leonie Welberg nel suo ideale forum sulla questione.

Michael Nader della Wake Forest University (North Carolina, USA) attribuisce un valore predittivo ai risultati di questo lavoro -e implicitamente a tutte le ricerche dello stesso tipo- affermando che “un livello più basso di D2 vuol dire che si è più vulnerabili”. Gerome Breen dell’Institute of Psychiatry di Londra, va oltre, proponendo di avviare studi per la correzione terapeutica di questo “difetto” recettoriale. Diana Martinez del Medical Center della Columbia University in New York City, invita alla prudenza ricordando che i recettori dopaminergici sono stati messi in relazione con le fobie sociali, con il disturbo ossessivo-compulsivo, con il distacco sociale e l’avanzare dell’età.

Si comprende che l’idea di fare screening di massa per il livello di espressione dei recettori D2 a scopo preventivo, possa attrarre qualcuno e costituire uno spunto stimolante per i dibattiti degli esperti nelle arene mediatiche, tuttavia questa prospettiva trascura anche altri aspetti.  

Si può osservare che la maggiore vulnerabilità di alcuni individui rispetto ad altri, fra gli animali da esperimento e fra gli esseri umani, è nota da tempo, come è noto che i più vulnerabili sono quelli che svilupperanno le forme più gravi di dipendenza, tuttavia è altrettanto noto agli psichiatri che i fattori determinanti per lo sviluppo della dipendenza nella realtà umana sono molteplici e, fra questi, la disponibilità della sostanza psicotropa e la possibilità che questa assuma un ruolo importante nella vita della persona fin dalla prima assunzione, rimangono ai primi posti.

Si ha spesso l’impressione che la medicalizzazione delle tossicodipendenze in molti paesi economicamente progrediti, per vari motivi, sia gestita con criteri diversi da quelli che si applicano con profitto a tutti gli altri settori del rapporto fra ricerca e clinica. Ad esempio, la medicina pratica commissiona alla ricerca l’indagine su fattori di danno provenienti dall’ambiente, facendo implicito riferimento ad una logica che può essere esemplificata secondo due prototipi. Nel primo caso un paziente si ammala nell’assumere un alimento essenziale per la vita, come il pane. Allora si studierà la sua genetica ed ogni altro aspetto rilevante della sua fisiologia, come accade per il morbo celiaco, al fine di consentirgli di alimentarsi normalmente. Il secondo prototipo è quello della malattia causata da un agente patogeno, ovvero un elemento nocivo che non è legato a necessità essenziali per la vita: in questo caso si tende all’eliminazione dell’agente e della possibilità di incontro con esso.

Perché, mi chiedo, dobbiamo ritenere la droga più vicina al pane che a un patogeno?

 

BM&L-Italia segue con attenzione gli sviluppi della ricerca in questo campo ed ha recensito numerosi studi condotti sui roditori, che il lettore interessato potrà trovare scorrendo l’elenco delle nostre “NOTE E NOTIZIE”.

 

Giovanni Rossi

BM&L-Aprile 2007

www.brainmindlife.org