AREE CEREBRALI RIDOTTE NELLA “GULF WAR SYNDROME”

 

 

La “Gulf War Syndrome” (Sindrome della Guerra del Golfo), attribuita agli effetti tossici di gas nervini e pesticidi, non ha ancora un’eziologia scientificamente provata come, del resto, la maggior parte delle patologie di recente identificazione ma, poiché la responsabilità dei disturbi dei reduci è divenuta argomento di rilievo politico e sociale nell’opinione pubblica americana ed inglese, l’assenza di prove sperimentali delle cause ha portato alcuni ad assumere posizioni ideologiche e pregiudiziali, giungendo perfino a negare l’esistenza di un danno fisico prodottosi durante la guerra, forse allo scopo di non scoraggiare nuovi arruolamenti nell’esercito.

Queste posizioni negazioniste hanno contribuito ad alimentare un dibattito dai toni intensi ed emotivi, che ha avuto risonanza sui giornali e sulle emittenti televisive dei paesi di cultura anglosassone, con ripercussioni nell’opinione pubblica di tutti gli Stati che vedono loro militari impegnati in missioni in Medio Oriente.

In questo clima, la recente presentazione al meeting dell’American Academy of Neurology di un lavoro che mostra danni cerebrali nei veterani affetti dalla sindrome, è stata occasione del riaccendersi di dispute e controversie che, nel corso del mese di maggio e fino a questi giorni di giugno, hanno impegnato organi di comunicazione scientifica che vanno da Nature News a WebMD, e testate giornalistiche di prestigio internazionale quali il Washington Post e il The Guardian (Leonie Welberg, Gulf War Syndrome: all in the brain? Nature Reviews Neuroscience  8 (6): 480, 2007).

Secondo Robert Haley, epidemiologo dell’Università del Texas a Dallas, la ricerca dimostra che gli effetti tossici di pesticidi e gas nervini hanno determinato una perdita di neuroni dalla quale è derivata la riduzione volumetrica della corteccia cerebrale e della parte rostrale del giro del cingolo anteriore (in Nature News e WebMD, maggio 2007).

Non è dello stesso parere Daniel Clouw dell’Università del Michigan, il quale afferma che il lavoro non prova il valore causale dell’esposizione a fattori tossici durante la guerra e, pertanto, ritiene che non sia utile al fine di accertare le cause della sindrome (Washington Post, 1° maggio 2007).

Altri studiosi hanno fatto notare che le ridotte dimensioni delle aree cerebrali potevano essere già presenti in quei militari, costituendo un fattore di vulnerabilità per vari agenti causali: in altre parole il reperto di atrofia potrebbe appartenere alla causa e non all’effetto della patologia (news@nature.com,  Nature Reviews Neuroscience  8 (6): 480, giugno 2007).

Un’altra opinione largamente rappresentata è quella di chi sostiene che le alterazioni cerebrali possano derivare da conseguenze fisiche e psico-sociali della sindrome.

Simon Wessley, direttore del Centro di Ricerca Militare sulla Salute del King’s College di Londra, ha osservato a proposito dei veterani studiati in questa ricerca: “Ora sono più anziani, molti bevono alcolici e possono essere depressi; tutti questi fattori possono modificare le dimensioni di regioni del cervello” (The Guardian, 2 maggio 2007 e Nature Reviews Neuroscience  8 (6): 480, giugno 2007).

In proposito Nicole Cardon ha chiesto il parere di Giuseppe Perrella, presidente della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, il quale ha così commentato: “Queste obiezioni sono state sollevate anche quando fu documentata per la prima volta, mediante risonanza magnetica, la riduzione volumetrica dell’ippocampo e di altre strutture cerebrali in un campione di veterani affetti da Disturbo Post-traumatico da Stress (PTSD). In quel caso il problema fu risolto studiando separatamente gli affetti da alcoolismo, ripartendo le persone in gruppi omogenei per età e sesso, e confrontandoli con gruppi di controllo dai requisiti corrispondenti.

Vorrei anche rilevare che, per stabilire la significatività di reperti MRI o fMRI, come negli ormai classici lavori condotti da Bremner e colleghi, si fa riferimento a degli spettri di variazione normale ottenuti su grandi numeri. Ad esempio, la riduzione volumetrica dell’ippocampo fino al 3,8 % non si ritiene significativa in persone giovani o in età media. Per inciso, ricordo che i due studi che mostrarono nel 1995 e nel 1997 la riduzione dell’ippocampo per effetto del PTSD, rilevarono rispettivamente un decremento volumetrico medio dell’8% e del 12%.

Per quanto riguarda la possibilità che la riduzione della massa encefalica legata all’avanzare dell’età possa essere confusa con l’effetto di un danno selettivo, direi che si tratta di un rischio remoto. Esistono infatti criteri noti a tutti i ricercatori per discernere fra le due condizioni.

Innanzitutto l’atrofia senile è un fenomeno che interessa globalmente l’encefalo, con la massima espressione nella corteccia cerebrale e con proporzioni rilevanti solo in età avanzata; poi negli studi di neuroimaging la significatività di una variazione volumetrica è data dal confronto fra i dati di misura della struttura in esame e quelli delle altre strutture dello stesso encefalo, prima ancora che dalla comparazione con i valori dei volontari coetanei sani e con le medie statistiche per lo stesso sesso e fascia di età nella popolazione generale. Ad esempio, nel lavoro che ho citato, in cui si riscontrava nei pazienti la riduzione dell’ippocampo del 12%, il volume del nucleo caudato, di varie formazioni del lobo temporale e dell’amigdala, non era diverso da quello dei soggetti di controllo e della media statistica normale.

Nello studio dell’atrofia senile esistono anche indici di correlazione fra le variazioni volumetriche di vari sistemi e strutture: se una riduzione settoriale non rispetta le proporzioni definite dagli indici, è lecito sospettare una causa patologica”.

Ascoltate queste considerazioni, la professoressa Cardon ha chiesto: “Come si possono giustificare, allora, affermazioni come quelle di Simon Wessley che non può certo ignorare questi criteri?”

“Non ho gli elementi per interpretare le dichiarazioni del direttore del Centro di Ricerca Militare sulla Salute del King’s College, ma devo dire che nel caso della Sindrome della Guerra del Golfo non si dispone di un grande numero di persone affette, come per il PTSD, pertanto risulta difficile fare tante ripartizioni e creare gruppi omogenei.” Ha risposto il presidente, al quale Nicole Cardon ha fatto presente:

“I database realizzati per interpretare i referti di neuroimaging, dovrebbero consentire, in linea di massima, di distinguere una lesione cerebrale da tossici, da una perdita neuronica dovuta a concause quali depressione, involuzione, danno alcoolico lieve protratto, danno da farmaci, e così via. Per questo, probabilmente, è necessario uno studio più approfondito e rigoroso anche dei dati di cui già siamo in possesso, come quelli emersi dal lavoro presentato all’American Academy of Neurology.”

“Si, concordo, ma ritengo che il problema maggiore consista nello stabilire il nesso causale fra l’azione degli agenti ritenuti responsabili e i processi patologici, e credo che questo rapporto non si possa accertare solo osservando il cervello delle persone affette, ma richieda ancora un grande impegno della ricerca che studia le basi molecolari e cellulari della patologia da tossici come i gas nervini e i pesticidi.” Ha replicato Giuseppe Perrella, che ha poi concluso affermando di condividere quanto riportato da Leonie Welberg, ossia che molti reduci della Guerra del Golfo soffrono per gravi sintomi e disabilità che limitano la loro vita, ma veramente poco è stato fatto fino ad oggi per loro.

 

Giovanni Rossi

BM&L-Giugno 2007

www.brainmindlife.org