IL RUOLO CULTURALE DI BM&L NEL V ANNO DALLA FONDAZIONE

 

 

Nel V anniversario della fondazione della Società Nazionale di Neuroscienze, lo scorso mercoledì 16 gennaio, i soci di “Brain Mind & Life” si sono interrogati sul ruolo culturale che ha avuto il loro lavoro di questi anni.

E’ noto che le tre sezioni in cui è ripartita l’organizzazione (BRAIN, MIND e LIFE)  corrispondono ad altrettanti strumenti tematici, l’ultimo dei quali ha una minore rappresentazione in questo sito web, ma trova espressone in molte attività di studio e comunicazione. Proprio sul ruolo svolto da LIFE in questi anni si è soffermata l’attenzione di alcuni relatori (Filippo Rucellai, Isabella Floriani e chi scrive), ricordando la diffusione della conoscenza del flagello mondiale delle lesioni neurologiche della lebbra e della possibilità di prevenirle, della diffusione della conoscenza su malattie rare o frequenti ma ignorate, dell’impegno contro le mutilazioni genitali femminili, contro la violenza psichica perpetrata ai danni dei bambini-soldato, eccetera, in un elenco la cui lunghezza ha sorpreso anche alcuni degli stessi protagonisti di quelle campagne.

Ma un posto d’onore si è voluto dare alla riflessione sul ruolo che hanno avuto alcuni membri di BM&L-Italia nel sostenere educatori, insegnanti e docenti, nel compito difficilissimo di combattere la regressione culturale apparentemente inarrestabile, cui si assiste da qualche decennio. In particolare, nel farsi carico di ricostruire modelli e progetti organici nell’agire umano, sullo sfondo di una realtà frammentaria e frammentata, che induce la suggestione di essere autonomi (es.: l’eteronomia del consumatore che può scegliere cosa consumare, ma non rinunciare al consumo), ma di fatto promuove sempre più la passività dei singoli, circa la possibilità di sviluppare una propria visione del mondo e di sé stessi, alla quale ispirare la costruzione quotidiana del senso della propria esistenza.

Un’azione portata avanti con un certo successo, e limitata dal numero relativamente esiguo di persone con le quali si è riuscito a collaborare, è consistita nel rendere evidenti i nessi fenomenici e i collegamenti logici esistenti fra parti dell’esperienza umana, per indurre consapevolezza del valore degli atti nei vari contesti e delle conseguenze del proprio agire.

BM&L ha dimostrato che la conoscenza scientifica può fornire un supporto, suggerendo alcuni tratti tipici del funzionamento cerebrale come struttura minima per la costruzione di sé. Schematicamente, come nella neurofisiologia cerebrale, possiamo individuare riferimenti fissi di base, necessari per mantenere l’equilibrio funzionale dell’intero organismo, e parti variabili adatte a costruire nuovi livelli di adattamento alle circostanze concrete.

La relazione del presidente, Giuseppe Perrella, ha dedicato molta attenzione a questo aspetto del lavoro condotto dai membri della sezione LIFE nell’anno appena trascorso e, prendendo le mosse dal diniego del dolore e dalla frammentazione dell’esperienza, ha proposto un incisivo brano di un suo saggio adottato come vademecum da molti soci[1], e qui di seguito riportato.

“Il diniego del dolore diviene maggiormente efficace in un quadro mentale percorso da irregolarità, avvicendamenti, ridondanze, reiterazioni complesse di banali operazioni di scelta[2], scomposizioni in parti diverse e tutte equivalenti. Su questa superficie ripartita, ogni elemento del reale apparirà frazionato. Involontariamente ci si esercita solo a riconoscere o ad indicare, tralasciando l’interpretare e il comprendere. In teoria, in assenza di una visione del mondo religiosa o ideologica, si dovrebbe attivamente costruirsi un proprio senso dell’esistente, entro cui collocarsi e disporre i valori della propria vita dai quali far derivare i criteri di giudizio; accade spesso, invece, che non ci si ponga nemmeno il problema. Davanti alla vetrina del mondo si rimane irretiti, rischiando di trascorrere gran parte del tempo a guardare, facendo la scansione dell’esistente ma rimanendo passivi, come oggetto fra gli oggetti. Oppure ci si comporta come bambini che pretendono il possesso di tutto ciò che li attrae, senza minimamente preoccuparsi delle abilità o delle conoscenze necessarie per l’impiego e l’utilizzo di quanto si desidera. Accanto a questo è riconoscibile un comportamento più adulto, che però limita i confini del proprio sapere a quelli del know-how, evitando la fatica non necessaria dell’assunzione di una prospettiva edificante.

“Società multietnica e multiculturale” significa spesso che si sa dell’esistenza di tante lingue, senza conoscerne alcuna, di tante tradizioni, senza comprenderne alcuna, di tante religioni, senza professarne alcuna; si trattano queste realtà alla stessa stregua degli oggetti della tecnologia che si acquistano spesso solo per la necessità di possedere il nuovo.

 L’apparente complessità del reale è dovuta più alla difficoltà di amministrare il molteplice che a quella di interpretare una struttura concettualmente sofisticata. Di fatto non c’è strutturazione, se non nella mente umana, capace di inferenza in forma organizzata di ciò che percepisce[3]; l’importanza di questo intelligere è mirabilmente espressa da Wittgenstein: “Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose.” (I.1) “I fatti nello spazio logico sono il mondo” (I.13)[4]. Il difetto consiste proprio nella collocazione dei fatti in uno spazio logico, perché si abbia un mondo, ossia nei modi del conoscere.

Nella società dell’interconnessione totale, della globalizzazione economica, delle reti multiverse di messaggi, persone e interessi, dove l’on-line spesso non è sintonizzazione, ma semplice appiattimento dell’altro sul proprio, l’informazione prende sempre più il posto della conoscenza, così che ci si illude di poter sapere ogni cosa in ogni momento, mentre si rischia di non riuscire a conoscerne veramente alcuna. I codici si sovrappongono talvolta in una babele subdola in cui l’evidenza delle immagini mente coprendo, tanto quanto l’equivoco del ricevente, un contenuto concettuale reso ancor più insignificante dal fatto che spesso la sua corretta interpretazione risulta indifferente per il grado di consapevolezza in gioco.

Nella dicotomia segnale-rumore si dà per scontato il valore del primo, consistente nella sua riconoscibilità, ma se a differenza di quanto accade per i codici percettivi non c’è univocità interpretativa, si rischia che tutto sia ridotto a “rumore”. Come nel rapporto figura-sfondo, l’elemento principale viene letto correttamente nel contesto. Ogni comunicare rimanda ad un ambiente di senso e sarebbe ingenuo ignorarlo. Quando una comunicazione avviene in un contesto conosciuto, condiviso e “scontato”, si può anche trascurarne l’importanza: se l’ambiente di significazione è costituito da una semplice ed unica trama di valori da tutti condivisi in un senso comune, come accadeva nelle società a basso grado di complessità, questo sfondo può essere ignorato, così come non si pensa alle regole della grammatica in una conversazione familiare.

Quando lo sfondo-rumore è costantemente variato, è necessario di volta in volta decodificarne l’interferenza con la figura-segnale per riuscire a comprendere il senso.

Per questo motivo la molteplicità anziché costituire una ricchezza, spesso si presenta come indecidibile, discontinua, contraddittoria, quantitativamente ingestibile.

Questa condizione determina la perdita di punti di riferimento stabili per l’esercizio di una delle più sofisticate funzioni coscienti, ossia l’attribuzione di significato.

In definitiva si può dire che l’esperienza contemporanea è caratterizzata dalla mancanza di una topologia unificante del senso.

Vale la pena soffermarsi su un altro elemento di discontinuità: La perdita della sincronia.

L’uniformità dei tempi del passato, in larga misura dovuta alla generale dipendenza dai ritmi nictemerali e stagionali cui erano sovrapposti quelli monoculturali, determinava concorrenza di persone e coincidenze di spazi per le rappresentazioni collettive. La scansione di fondo era la stessa per tutti, con licenze e variazioni prevedibili legate al censo, alla classe, all’età, alle condizioni di vita e di salute. La penitenza, tipica del mondo arabo ed ebraico-cristiano, ma con radici antropologiche antichissime ed ubiquitarie, era una forma di dolore collettivo che prevedeva epoche dell’anno, giorni della settimana o, anche, precise ore del giorno. Ripartiva definendo e distinguendo il tempo, accomunava le coscienze, era colonna portante della partecipazione rituale, forma vissuta del calendario e, perciò, componente essenziale del Welt-Zeit.[5]

Non solo la scansione dell’esistenza era unica, ma registrava su di sé il tempo dell’Io, quasi fosse il riflesso del solo ritmo possibile, dell’unica e imprescindibile Natura che fissa nell’Aiòn[6] il tempo di una vita. Ma l’antropologia ci insegna che ogni imprescindibile tende a divenire necessità ed ogni necessità, virtù.

Sincronizzarsi era automatico, inevitabile ed insegnava a seguire, a sintonizzarsi sulle lunghezze d’onda della vita, ad essere recettivi, ad accettare questo filo di senso teso fra la nascita e la morte.

Oggi si può scegliere di far giorno a piacimento ed estate in pieno inverno; non ci sono ramadan, quaresime, penitenze che assumano la caratteristica di esperienze non facoltative. Mentre si mangia si vedono su uno schermo persone che muoiono di fame a due ore di aereo di distanza, poi stupri, spettacoli, torture a bambini, canzoni, omicidi veri e finti, sport, malattie di moda, vecchi films; futile e dramma, passato e presente possono alternarsi con la pressione di un dito. Si ha l’impressione che non si sia più obbligati a seguire alcun dolore, si può scrollare di dosso o dallo schermo ogni cosa che imponga l’impegno responsabile o il peso frustrante di provar pena.

Non meraviglia che si riducano i tempi di attenzione selettiva e di concentrazione emozionale, perché si impara l’atteggiamento discontinuo.

In conclusione si può dire che l’assenza di una topologia unificante del senso e la mancanza di sincronia sono fattori  importanti nel determinare la frammentazione dell’esperienza che crea discontinuità di coscienza.

Per contro possiamo cercare di caratterizzare la psicologia dei soggetti storici per opposizione, rilevando che la continuità in loro era data da due elementi, uno attinente alla cognizione e l’altro alla temporalità.

L’elemento della cognizione si sostanzia in un quadro di senso fondato su valori universali in cui ogni esperienza trova il suo posto. L’elemento temporale si caratterizza per la sincronia che consente una sorta di identificazione dinamica, ossia in movimento, che lega tutti coloro che agiscono in parallelo.

Si comprende come questa continuità che facilita la coesione costituisca coerenza.”

 

Dopo queste parole, il presidente di BM&L ha completato l’analisi delle caratteristiche di discontinuità e frammentarietà dell’esperienza, sottolineandone la responsabilità causale nella diffusa difficoltà ad elaborare una visione unitaria e coerente della realtà. Successivamente ha proposto gli elementi della cultura comune a tutti i membri della società, su cui si è basata l’attività dell’anno associativo appena trascorso.

Al termine degli interventi le conclusioni sono state tratte dal professore Giovanni Rossi.

 

Monica Lanfredini

BM&L-Gennaio 2008

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Il saggio è “L’esperienza del dolore”, scritto da Giuseppe Perrella in una prima versione nel 1987, all’indomani della pubblicazione dell’omonimo volume di Salvatore Natoli, in risposta al desiderio espresso da questo autore che indicava, fra gli scopi del suo scritto, che altri lavori seguissero il suo su quello stesso argomento. Numerose versioni, rimaste inedite, sono state condotte sulla prima nel corso degli anni. Il brano qui riportato è stato estratto dall’ultima versione, compiuta in Firenze nella primavera del 2001.

[2] Il semplice compito dell’acquisto di un elettrodomestico, come una lavatrice, viene portato ad esempio per illustrare i processi mentali che si compiono per gestire la grande quantità di informazioni dovuta al numero notevole di marche in commercio (si veda A. Sanford, The Mind of Man. Models of Human Understanding, Harvester Wheatsheaf, London, 1987, tr. It.: La mente dell’uomo, Il Mulino, Bologna, 1992).

[3] Quest’affermazione che può apparire come un luogo comune di buon senso, gode oggi di una solida base neuroscientifica. Se è nozione consolidata nelle Neuroscienze che la percezione si fonda su processi inferenziali, il ruolo dell’inferenza percettiva nello sviluppo della cognizione animale ed umana è stato chiarito e descritto soprattutto dagli studi di Gerald Edelman: è parte di un impianto teorico unico la spiegazione dei processi che consentono alla mente di creare categorie in un mondo “senza etichette”. La teoria nota come Darwinismo Neurale si basa sull’ipotesi che la selezione percettiva di gruppi di neuroni determini la formazione di “mappe”dalle quali deriverebbero strutture come “mappe di mappe” alla base dei concetti; dopo qualche diffidenza iniziale e alcune critiche autorevoli come quelle di Horace Barlow e Francis Crick, la teoria di Edelman è attualmente ritenuta dalla comunità scientifica internazionale l’unica in grado di fornire un quadro esaustivo delle funzioni mentali in termini biologici. Si veda: Group Selection and phasic reentrant signaling: A theory of higher brain function, in G. M. Edelman e V. B. Mountcastle, The Mindful Brain: Cortical Organization and the Group-Selective Theory of Higher Brain Function, Mit Press, Cambridge (Mass.), USA; 1978, pp. 51-100 (il primo lavoro in cui fu proposta la teoria della selezione dei gruppi neuronali); G. M. Edelman, Neural Darwinism. The Theory of Neuronal Group Selection, Basic Books, New York, 1987, tr. It.: Darwinismo Neurale, Einaudi, Torino, 1995; G. M. Edelman, The Remembered Present, Basic Books, New York, 1989, tr. It.: Il Presente Ricordato, Rizzoli, Milano, 1991; G. M. Edelman, Bright Air Brilliant Fire On the Matter of the Mind, Basic Books, New York, 1992, tr. It.: Sulla Materia della Mente, Adelphi, Milano, 1993 (il primo dei tre volumi è il più tecnico, l’ultimo è di impronta più divulgativa). Più recentemente Edelman ha pubblicato un volume di aggiornamento sulla fisiologia della coscienza con Giulio Tononi, The Universe of Consciousness: How Matter Becomes immagination, Basic Books, New York, 2001.

[4] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, nuova ed. Einaudi, Torino, 1998, p. 25.

[5] Welt-Zeit, tempo del mondo, si contrappone all’Ich-Zeit, tempo dell’Io, in una distinzione che nella psichiatria fenomenologica (E. Straus, V. Gebsattel) diviene un utile paradigma semeiologico per lo studio della percezione del tempo da parte di soggetti affetti da varie sindromi, in particolare la distimie (Vedi E. Minkowsky, Il tempo vissuto, Einaudi, Torino, 1971, libro II, cap. IV, p. 305).

[6]Aiòn è un vocabolo affascinante che ha creato non pochi problemi agli etimologisti: in Eraclito indica il tempo nel suo carattere originario ed è paragonato ad un bambino che gioca a dadi; in un celebre passo del Timeo di Platone viene indicato come modello per Chronos, che ne sarebbe una copia; originariamente indicava la forza vitale (dalla radice ai-w) e tale è il senso nei testi omerici, ma successivamente è stato impiegato per indicare tanto il Midollo Spinale, quanto la Durata: è a questa accezione che si fa riferimento, cfr. G. Agamben, Infanzia e Storia, Einaudi, Torino, 1978, p.72.