UN CASO DI BLINDSIGHT CHE HA FATTO DISCUTERE

 

 

Una lesione che interessi a tutto spessore l’area visiva primaria (o V1 o area 17) può causare il prodursi, nella nostra specie e negli altri primati, di una zona di cecità assoluta detta scotoma (dal greco σχότος = oscurità), la quale può essere circoscritta come una macula del campo visivo, ignorata dal soggetto, o interessare tutta l’area striata di un emisfero, dando luogo ad emianopsia, oppure estendersi alla corteccia calcarina occipitale di entrambi gli emisferi, determinando la completa perdita della visione. E’ possibile che la cecità causata da queste lesioni, pur essendo assoluta per la coscienza della persona colpita, in compiti che richiedono il controllo visivo consenta prestazioni superiori a quelle che avrebbe un non vedente per altre cause.

Questa strana dissociazione fra l’elaborazione cosciente dello stimolo visivo (che è assente) e la prestazione efficiente in alcuni compiti visivi è stata definita blindsight (= visione cieca) da Weiskrantz e collaboratori.

Anche se un caso era già stato riportato da Riddoch nel 1917, la prima descrizione sistematica del fenomeno fu proposta da Poeppel, Held e Frost (1973) che studiarono la capacità automatica di localizzare stimoli visivi in quattro pazienti con lesioni della corteccia visiva dovute a ferite da arma da fuoco sofferte durante il secondo conflitto mondiale. L’interpretazione del fenomeno della visione cieca fornita da questi autori si basava sulla teoria dei due sistemi visivi sostenuta, fra gli altri, da Trevarthen (1968) e Schneider (1969), secondo cui il sistema retino-genicolo-striato[1] consente l’identificazione degli oggetti, mentre quello retino-collicolo-extrastriato (che termina in centri sottocorticali come i tubercoli quadrigemini superiori e il pulvinar, e proiettano ad aree corticali diverse da V1) permette la localizzazione nello spazio degli stimoli visivi.

Se pensiamo che la distruzione dell’area corticale corrispondente alla nostra V1 nel gatto non determina cecità, comprendiamo come “l’evoluzione neoencefalica guidata dal controllo globale (cosciente) abbia sviluppato le vie legate all’elaborazione corticale consapevole a discapito di quelle sottocorticali e, in generale, regolate da automatismi più rigidi e schematici. Le vie filogeneticamente meno recenti e attive nel blindsight, hanno un ruolo ancillare nei primati in cui si è sviluppato un complesso controllo di livello superiore” (Giuseppe Perrella, Osservazioni anatomo-cliniche a sostegno di una visione evoluzionistica della fisiologia dell’encefalo e dell’organismo. BM&L, settembre 2004).

Tutto ciò premesso, vogliamo riferire di un caso che ha destato notevole scalpore fra i giornalisti di lingua inglese e, per opera dei media, presso il grande pubblico.

T. N. è un uomo non affetto da patologie del nervo ottico e della retina ma che, a seguito di due ictus, sembra aver perso totalmente la funzione della corteccia visiva di entrambi gli emisferi. Come altre persone che presentano il fenomeno del blindsight, T. N. conservava le reazioni fisiche automatiche alla vista di volti esprimenti emozioni, pur non riuscendo a vederli coscientemente. Beatrice de Gelder e colleghi dell’Università di Tilburg (Olanda) hanno deciso di sottoporre il paziente a prove di verifica della sua abilità di percepire ed evitare oggetti che non è cosciente di vedere (Craig Nicholson, Second Sight. Nature Reviews Neuroscience 10 (2), 86, 2009).

Craig Nicholson riferisce che gli autori dello studio hanno rilevato con stupore che l’uomo era in grado di percorrere con successo un corridoio irto di ostacoli, spostandosi ed aggirando ingombri dei quali non aveva consapevolezza cosciente. Chi scrive è meravigliato dallo stupore dei ricercatori, perché in assenza di simili abilità sarebbe venuta meno la diagnosi stessa di “visione cieca”. Ma vediamo cosa ha stupito i ricercatori dalle parole stesse di Beatrice de Gelder: “Camminava molto più rapidamente di quanto ci aspettassimo, senza esitazione o alcun tipo di esplorazione” (New Scientist).

Come ho più sopra ricordato, già negli anni Settanta si riteneva che il sistema retino-collicolo-extrastriato fosse responsabile del fenomeno e, poi, ha osservato in proposito il professor Perrella: “Gli studi degli anni seguenti hanno dettagliato varie altre connessioni di questa via visiva subconscia, fra cui quelle con l’amigdala. Il complesso nucleare amigdaloideo media la formazione di memorie e risposte che integrano una componente di allerta, sicché non manca la conoscenza della base anatomo-funzionale per spiegare la speditezza di T. N.” (BM&L-Italia).

Tuttavia, nel report di Nicholson il caso è considerato eccezionale, e conforme a tale presentazione appare il commento di Richard Held del Massachusetts Institute of Technology, perché sembra espresso a fronte di una prima evidenza di simili abilità: “C’è una forma di visione che non dipende dalle aree primarie responsabili dell’elaborazione degli stimoli provenienti dagli occhi” (Washington Post). La de Gelder parlando a The Times ha aggiunto: “E’ una parte della nostra visione che è per orientare e fare, piuttosto che comprendere”; successivamente ha ipotizzato che le persone con la distruzione della corteccia visiva potrebbero essere sottoposte a un training riabilitativo che sfrutti l’abilità di orientamento automatico (Washington Post).

L’impressione che si ricava è quella di un’enfasi eccessiva e non troppo giustificata per la descrizione di un caso che presenta in maniera più marcata di altri caratteristiche già rilevate numerose volte. Inoltre, gli autori del lavoro -che hanno cercato di attrarre l’attenzione del pubblico mettendo in rete il filmato e così spettacolarizzando gli esiti della prova- nel modo in cui parlano della propria osservazione non mostrano una preparazione specialistica su questo tipo di patologia.

Chi scrive ha osservato casi di blindsight fra pazienti diagnosticati di cecità corticale, già tre decenni or sono, quando forse la descrizione di un comportamento guidato da risposte visive inconsce poteva far scalpore anche fra neurologi e neurofisiologi, e un po’ si sorprende che si proponga un training riabilitativo come se fosse una nuova idea. Infatti, si ha notizia di trattamenti condotti fin dagli anni Ottanta con i programmi di riabilitazione cognitiva assistita da computer ideati dai coniugi Gianutsos, e dell’impiego di vari altri metodi e procedure riabilitative, inclusi, negli anni Novanta, esercizi con tecnologie che sfruttano la realtà virtuale.

 

Giovanni Rossi

BM&L-Febbraio 2009

www.brainmindlife.org

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE E COMMENTO]

 

 



[1] Qui si intende “corteccia dell’area striata”, alla quale proiettano le fibre proveniente dal corpo genicolato laterale, formando la radiazione ottica.