UNA BASE MOLECOLARE DI RESISTENZA ALLO STRESS

 

 

Il concetto di stress, negli studi pionieristici di psicopatologia, era assimilato a quello di agente causale o stressor, anche se fin dalle ricerche di Cannon e Selye era evidente l’importanza del ruolo svolto dalla risposta dell’organismo nel determinarsi di condizioni consistenti nella rottura di un equilibrio omeostatico. La concezione attuale considera stress l’insieme delle risposte di adattamento, prevalentemente neuroendocrine, che seguono agli effetti diretti dei fattori stressanti, ed ha spostato l’attenzione prevalente dalla natura del fattore ambientale responsabile, alla fisiologia dello squilibrio prodotto nell’organismo (Si vedano le pp. 11-12 di Giuseppe Perrella, Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD). Dipartimento di Neuroscienze, Università di Napoli “Federico II”, 2005).

Questa premessa alla recensione di un interessate lavoro sulle basi molecolari della resistenza allo stress, è parsa opportuna a chi scrive in ragione del fatto che ancora molti psichiatri fanno diagnosi di gravità e tipologia dei disturbi da stress, basandosi più sui dati relativi all’agente causale, ricavati dall’anamnesi, che sullo studio del paziente.

Nestler e colleghi hanno rilevato, alla base della capacità individuale di recupero, adattamenti nel sistema mesolimbico dopaminergico (Krishnan V., et al. Molecular adaptations underlying susceptibility and resistance to social defeat in brain reward regions. Cell 131, 391-404, 2007).

I ricercatori, studiando lo stress sociale cronico in modelli sperimentali animali, hanno rilevato che il BDNF (brain derived nerve factor) e la sua segnalazione a valle, risultavano accresciuti solo nel nucleo accumbens (parte del sistema a ricompensa) dei ratti vulnerabili allo stress e non negli altri.

Iniettando BDNF nel nucleo accumbens si aveva riduzione della resistenza allo stress, invece, bloccando la segnalazione di BDNF, i roditori divenivano più resistenti; se ne deduce che gli effetti comportamentali dello stress sociale protratto sono mediati dall’azione del BDNF sui neuroni del nucleo accumbens.

Successivi esperimenti con ratti knock-out per il gene Bdnf nell’area tegmentale ventrale (VTA), hanno dimostrato che i neuroni di quest’area, che proietta al nucleo accumbens, sono la fonte della segnalazione del BDNF accresciuta nei roditori vulnerabili. Questo risultato concorda con il rilievo di una frequenza di scarica dei neuroni della VTA molto maggiore nei topi suscettibili allo stress rispetto a quelli resistenti.

I ricercatori hanno approfondito il profilo dell’espressione genica nei ratti sensibili allo stress rilevando altri dettagli molecolari delle loro differenze.

Il ruolo centrale nella mediazione delle risposte allo stress da parte del BDNF è stato ulteriormente confermato da altri esperimenti genetici. Ma i ricercatori hanno trovato anche un significativo riscontro nell’uomo.

Confrontando campioni post-mortem di nucleo accumbens di pazienti depressi con quelli provenienti da persone non affette in vita da depressione, hanno rilevato nei primi un tasso di BDNF più alto del 40%.

Questo dato supporta l’ipotesi che la depressione da stress, o con lo stress quale concausa, si sviluppi in persone più vulnerabili per motivi genetici ed acquisiti. Una delle basi molecolari di questa vulnerabilità potrebbe essere costituita da una eccessiva attività del BDNF nel circuito VTA-nucleo accumbens.

Le differenze individuali di risposta a singoli fattori, le differenze che uno stesso cervello e/o organismo presentano nel tempo, la possibilità e la capacità di adattamento che riduce uno stimolo inizialmente stressante a mero “rumore di fondo”, sono di facile osservazione per tutti, e dovrebbero costituire un riferimento costantemente presente alla mente dello psichiatra, ma anche all’attenzione dei medici di medicina generale e di ogni specialità medica e chirurgica, perché lo stress è causa di malattia, ed anche perché lo stress può derivare dalla malattia stessa, sia per le conseguenze sul sistema nervoso causate dall’intensità o dal protrarsi di un sintomo (es.: dolore) sia per la prospettiva di morte associata all’esperienza della sofferenza (si veda il caso dello stress causato dal dolore oncologico, nel già citato saggio sul PTSD di Giuseppe Perrella, alle pp. 63-73).

 

Giovanni Rossi

BM&L-Dicembre 2007

www.brainmindlife.org