L’ATTENZIONE SOSTENUTA ALTERA LA PERCEZIONE

 

 

E’ noto che l’attenzione accentua la percezione, ma non si conoscono bene gli effetti di uno sforzo attentivo protratto sull’efficienza percettiva.

L’attenzione, intesa come il focalizzarsi della mente su un’attività afferente o efferente, secondo la definizione classica di Moray (Attention: Selective processes in Vision and Hearing, Hutchinson Educational, 1969), è una funzione composta, in parte automatica e in parte volontaria, difficilmente separabile dai processi percettivi e cognitivi cui prende parte, tanto da aver indotto i neuropsicologi ad elaborare varie teorie e definizioni per spiegare alcuni aspetti dei suoi processi. Così nascono i “canali attentivi” di Broadbent (1958), le distinzioni fra elaborazione controllata ed elaborazione automatica (Shiffrin e Schneider, 1977), fra attivazione automatica ed attivazione conscia dell’attenzione e, secondo una diversa prospettiva, fra “processi richiedenti attenzione” e “processi automatici” (Triesman e Gelade, 1980).

Attualmente, l’opinione prevalente fra gli scienziati cognitivi è che l’attenzione agisca rafforzando la rappresentazione di uno stimolo, mediante l’aumento di contrasto fra quei tratti salienti dell’oggetto che fungono da indici di discriminazione. Tale modalità, che possiamo paragonare al nostro accentuare il contrasto di un’immagine sullo schermo del computer per vederla meglio, ha trovato numerose conferme sperimentali in studi di neurofisiologia della corteccia cerebrale.

Uno studio condotto da Sam Ling e Marisa Carrasco, recentemente pubblicato su Nature Neuroscience, ha rilevato effetti negativi dell’attenzione sostenuta sulla percezione visiva (When sustained attention impairs perception. Nature Neuroscience 9, 1243-1245, 2006).

E’ nozione classica, nel campo della neurofisiologia della percezione, che l’osservazione protratta di un oggetto (detto convenzionalmente stimolo visivo) produce un adattamento di contrasto, in seguito al quale è necessario avere una risoluzione di contrasto maggiore perché si possa avere la stessa prestazione nel riconoscimento percettivo. L’ampiezza di questo adattamento cresce al crescere dell’intensità dello stimolo, così che l’adattamento ad un oggetto che presenti un maggiore contrasto, richiederà un contrasto proporzionalmente più elevato nella rappresentazione mentale per ottenere la stessa prestazione, e un periodo più lungo di recupero per il ristabilirsi delle condizioni di base dopo che si è verificato l’adattamento.

L’attenzione, perciò, migliora la percezione accentuando gli effetti del contrasto, ma dopo una prolungata esposizione ad un stimolo, quanto più le sue parti sono contrastate, tanto più diminuisce la sensibilità al contrasto da parte dell’osservatore. Lo studio di Ling e Carrasco ha bene messo in evidenza questa caratteristica negativa dell’attenzione protratta dimostrando che, dopo l’adattamento ad uno stimolo visivo, i quattro volontari partecipanti ai test della grata richiedevano paradossalmente un minore contrasto per rendere ai livelli di prestazione precedenti l’adattamento.

Si può osservare che tali effetti, sia pure per semplice esperienza, erano noti già nell’antichità classica e non sfuggivano ai pittori del Rinascimento, tanto che era banale consiglio di bottega al giovane apprendista, durante l’esecuzione di dettagli impegnativi, di distogliere di tanto in tanto l’attenzione per non lasciarsi ingannare dallo “sguardo protratto”.

Forse il compito delle neuroscienze contemporanee non è tanto quello di distinguere quanto di questi fenomeni appartenga alla percezione e quanto all’attenzione -anche perché la distinzione è convenzionale ed in parte artificiosa- ma, piuttosto, determinare le sedi e i processi neurofunzionali che li rendono possibili.

 

Giovanni Rossi

BM&L-Novembre 2006

www.brainmindlife.org