L’ARTO FANTASMA

 

 

(SETTIMA PARTE)

 

 

A dieci anni di distanza dagli esperimenti dei coniugi Ramachandran, l’efficacia dello specchio nel ridurre le sensazioni legate al fenomeno dell’arto fantasma è stata messa alla prova da Eric Brodie e colleghi della Glasgow Caledonian University, in uno studio ben più strutturato, al quale hanno preso parte 80 volontari mancanti di un arto inferiore. Per queste prove è stata realizzata una “mirror box” adatta allo studio del movimento della gamba e, allo scopo di ottenere risultati non ambigui ed agevolmente verificabili, sono stati studiati e definiti 10 movimenti da ripetere per 10 volte, sia da parte dei soggetti che direttamente sperimentavano gli effetti della riflessione speculare, sia da parte del gruppo di controllo.

Guardando allo specchio la gamba eseguire la serie di movimenti prestabiliti, le 41 persone appartenenti al gruppo che metteva alla prova l’efficacia del feedback originato dall’immagine riflessa, dovevano provare ad immaginare di muovere l’arto fantasma. I 39 appartenenti al gruppo di controllo dovevano eseguire, senza l’ausilio dello specchio, le stesse dieci serie di dieci movimenti con l’arto superstite e mentalmente con quello perduto.

E’ risultato che in entrambi i gruppi il breve training sperimentale ha sortito effetti positivi, riducendo tutta la gamma di sensazioni legate all’arto fantasma, incluso il dolore. Sebbene lo specchio non abbia significativamente rinforzato questi esiti, ha determinato l’esecuzione di un maggior numero di movimenti mentali dell’arto assente, inducendo una suggestione più vivida della sua esistenza.

Se questi risultati sembrano deludere le aspettative nutrite circa le possibilità di una terapia fisica basata sull’impiego della riflessione speculare, Brodie e i suoi collaboratori osservano che un trattamento protratto potrebbe rivelarsi efficace favorendo, attraverso gli effetti sulla coscienza, un’azione correttiva su quella riorganizzazione corticale che segue l’amputazione e sembra essere responsabile del dolore.

In generale, si può osservare che tutta la terapia neuroriabilitativa che fa leva sulla plasticità corticale è in grado di produrre risultati per trattamenti di media e lunga durata, pertanto non è infondato supporre che, accrescendo la durata temporale del periodo di esercizio, lo specchio potrebbe rivelare una certa efficacia.

Intanto, un approccio basato sugli stessi principi, ma meno “artigianale” e più adeguato ai recenti sviluppi della tecnologia finalizzata alla riabilitazione, è allo studio da anni ed è in grado di produrre illusioni con un grado di realismo molto più elevato di un semplice specchio. Si tratta di simulazioni tridimensionali assistite da computer o “Realtà Virtuale” (Virtual Reality o VR) che, come è noto, richiedono l’applicazione sul corpo di sensori Polhemus, necessari alla riproduzione sincronica dei movimenti reali da parte dei segmenti corporei virtuali, e l’immersione percettiva del soggetto nello spazio artificiale che, mediante speciali visori adattati agli occhi, sarà vissuto come reale.

Questa tecnologia presenta molti vantaggi rispetto all’uso di semplici immagini riflesse, perché consente di riprodurre in forma virtuale ogni parte del corpo esistente o perduta e permette di eseguire movimenti complessi, non solo con i segmenti principali degli arti (braccio, avambraccio, coscia e gamba), ma anche con le estremità distali, combinando i più vari atteggiamenti e spostamenti delle dita delle mani e dei piedi. Un limite della VR è dato dalle difficoltà di applicazione a campioni numerosi.

Uno studio preliminare del 2007, condotto da ricercatori dell’Università di Manchester guidati dallo psicologo Craig Murray, ha recentemente esplorato le possibilità della VR in tre persone, due delle quali amputate dell’arto superiore e una dell’arto inferiore. E’ stata realizzata una simulazione che trasportava i movimenti dell’arto reale a quello virtuale, che si sovrapponeva all’arto fantasma nell’ambiente della VR. Tutti e tre i volontari hanno riferito che, nelle sessioni sperimentali, le sensazioni provenienti dall’arto superstite si trasferivano ai muscoli ed alle articolazioni dell’arto fantasma; nei tre volontari il dolore è diminuito durante l’esercizio in almeno una delle sessioni.

I risultati del lavoro di Murray sono incoraggianti e, sebbene vi sia ancora molta strada da percorrere nello studio dei processi alla base del fenomeno e nell’ottimizzazione dei metodi di trattamento, la terapia dell’arto fantasma sembra essere ormai avviata lungo un percorso che condurrà a livelli di efficacia apprezzabili.

 

L’autrice ringrazia la dottoressa Floriani per la collaborazione e il presidente di BM&L-Italia, Giuseppe Perrella, perché la presente nota è tratta dalla sua discussione settimanale al Seminario Permanente sull’Arte del Vivere.

 

Nicole Cardon

BM&L-Marzo 2008

www.brainmindlife.org