L’ARTO FANTASMA

 

 

(TERZA PARTE)

 

 

TEORIE SCIENTIFICHE ALLA PROVA DEI FATTI[1]. Erasmus Darwin, nonno del fondatore dell’evoluzionismo, sebbene fosse un naturalista aveva una precisa opinione sull’origine cerebrale dell’arto fantasma, come si evince dalle sue parole: “Non sembra chiaro che un simile fenomeno indica che le nostre idee e le nostre sensazioni emergono dal nostro cervello e non dai nostri organi tattili?”[2].

E’ probabile che questo autorevole punto di vista abbia influenzato molti studiosi dell’epoca, tuttavia non poté dare origine ad una teoria scientifica, soprattutto per la mancanza di nozioni  sull’organizzazione funzionale del sistema nervoso centrale.

Nella seconda metà del Novecento, abbandonata l’idea che il fenomeno potesse assimilarsi ad un’allucinazione, la maggior parte dei medici ritenne che le sue basi biologiche fossero da ricercarsi nel moncone e non nel cervello.

Patrick Wall, studioso della fisiologia del dolore presso il College dell’Università di Londra, focalizzò l’attenzione sulle fibre nervose recise in corrispondenza della cicatrice operatoria degli arti amputati. Tali fibre formano noduli o neuromi, dai quali si ritenne che originassero segnali diretti alla corteccia lungo le vie ascendenti topograficamente ripartite secondo i territori di innervazione, ingannando il cervello sul segmento di provenienza degli stimoli propriocettivi e nocicettivi. Wall sostenne l’ipotesi dell’origine periferica delle sensazioni, corroborandola con prove plausibili, nel quadro coerente di una teoria scientifica.

L’accettazione dell’impianto teorico del ricercatore inglese, comportò l’introduzione della terapia chirurgica dell’arto fantasma, che fu impiegata fino agli anni Ottanta ed oltre, sebbene i risultati fossero quanto meno deludenti.

In estrema sintesi l’esperienza chirurgica può essere ricondotta a tre tipi di intervento: 1) sezioni dei nervi sensitivi diretti al midollo spinale; 2) sezione delle fibre nervose del cordone posteriore del midollo spinale[3] corrispondenti al contingente proveniente dal moncone; 3) asportazione di parti del cervello in corrispondenza delle aree somatosensoriali della corteccia cerebrale riceventi gli assoni di proiezione dal talamo (via spino-bulbo-talamo-corticale) che, secondo la somatotopica, avrebbero convogliato impulsi provenienti dal segmento corporeo sottoposto ad amputazione[4].

Il bilancio complessivo di questa imprudente sperimentazione terapeutica fu decisamente negativo, in quanto solo in alcuni casi fu possibile registrare una temporanea scomparsa del dolore che, dopo un tempo più o meno lungo, immancabilmente riappariva e, soprattutto, si rilevò che, qualsiasi fosse il livello di sezione delle fibre, il fantasma persisteva.

Gli esiti negativi del trattamento chirurgico ebbero probabilmente un ruolo decisivo nell’abbandono dell’idea di un’origine totalmente periferica dell’esperienza abnorme e nel farsi strada dell’importanza di uno schema corporeo cerebrale, da non considerarsi come la semplice ripartizione topografica, descritta per primo da Wilder Penfield, dei territori corticali preposti al controllo sensitivo e motorio di specifici segmenti corporei, ma come un complesso di elaborazioni integrate e capace di inferenza.

In questa prospettiva lo studioso di psicofisiologia del dolore della McGill University, Ronald Melzack, nel 1989 propose che le sensazioni legate all’illusoria presenza di una parte del corpo, avessero una componente fondamentale nell’attività di una specifica rete neuronica cerebrale[5].

Il ritorno all’importanza del cervello intuita da Erasmus Darwin non fu, naturalmente, il semplice portato del fallimento della terapia chirurgica, ma ebbe origine in una maturazione culturale che seguiva di pari passo lo sviluppo delle conoscenze neuroscientifiche e si basava su numerose osservazioni, una delle quali sarebbe bastata da sola per giustificare il nuovo orientamento: persone nate prive degli arti o private di questi nelle prime fasi della vita, possono sperimentare il fantasma di una parte del corpo che non hanno mai posseduto.

 

[Continua]

 

Le autrici ringraziano il presidente di BM&L-Italia, Giuseppe Perrella, perché la presente nota è tratta dalla sua discussione settimanale al Seminario Permanente sull’Arte del Vivere.

 

Monica Lanfredini & Nicole Cardon

BM&L-Febbraio 2008

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Si è scelto, per brevità, di non fare cenno alle teorie psicologiche incluse nella discussione di Giuseppe Perrella dalla quale è tratto lo scritto.

[2] Citato da Miguel Nicolelis [nostra traduzione letterale] in Living with Gostly Limbs. Sci. Am. Mind 18 (6), 52-59, Dec. 2007/Jan. 2008.

[3] Sembra che le sezioni non fossero specifiche per le vie dolorifiche e interessassero i fascicoli gracile di Goll e cuneato di Burdach, che insieme costituiscono il contingente maggiore delle vie ascendenti del midollo, che convoglia prevalentemente stimoli della sensibilità tattile epicritica e propriocettiva cosciente.

[4] La nostra ovvia condanna di simili interventi, tanto aggressivi quanto scientificamente infondati, può trovare oggi una facile condivisione, ma occorre ricordare, soprattutto a beneficio dei lettori più giovani, che fino a qualche decennio fa vi erano ancora molte scuole - soprattutto d’oltreoceano - che teorizzavano e praticavano la psicochirurgia, ossia la distruzione di parti del cervello per “curare” disturbi psichiatrici: si andava dalla celeberrima leucotomia prefrontale di Moniz, consistente nel taglio in stereotassia dei collegamenti del lobo frontale, alla selettiva distruzione di nuclei cerebrali come l’amigdala, per ottenere l’abolizione del comportamento aggressivo. 

[5] R. Melzack, Phantom Limbs, the Self and the Brain: The D. O. Hebb Memorial Lecture. Canadian Psychology 30 (1): 1-16, 1989.