Nuove acquisizioni sull’articolazione delle parole

 

 

Chi scrive ha notato e studiato da tempo i lievi disturbi nell’articolazione del linguaggio verbale nelle ballerine professioniste e in alcuni atleti sottoposti ad allenamenti intensi, ravvisando una sorta di interferenza fra l’efficienza della funzione fono-articolatoria e l’eccessivo impegno di muscoli in vari distretti corporei, specialmente quando sono interessati i muscoli della faccia e del collo, come accade nella danza classica e in alcuni tipi di danza moderna. Pertanto non ha ritenuto convincente la teoria che assegnava al solo feed-back uditivo il compito del mantenimento nell’efficienza della produzione vocale (vedi Brainard M. S. e Doupe A. J. Auditory feedback in learning and maintenance of vocal behavior, Nature Review Neuroscience 1, 31-40, 2003). Da tempo gli esperti di performances verbali teatrali conoscevano per esperienza pratica gli effetti positivi di lunghi e metodici esercizi di articolazione sulla prevenzione della “papera” (in Italia furono famosi i “laboratori”diretti da Vittorio Gassmann e da Gigi Proietti, accanto ad altri meno noti, ma talvolta più tecnici). La vasta gamma di esercizi si fondava sull’overlearning procedurale che crea memorie automatiche più consolidate e, perciò, in grado di assicurare la prestazione normale anche in condizioni di emozione, stress, fatica, difettoso stato di forma psico-fisica.

L’efficacia di questi metodi, rivelatisi importanti in quella forma d’arte che prende il nome di teatro-danza, si ritenne fosse dovuta al consolidamento del feedback uditivo, e non furono ritenuti rilevanti gli esercizi afoni, che avrebbero per via trasmodale attivato gli stessi patterns uditivi. Con questa motivazione si rifiutò la sperimentazione.

Tuttavia, esperienze nel trattamento con ausili computerizzati di pazienti affetti da disartria o da traumi della mandibola, insieme con evidenze neurofisiologiche e neuropsicologiche, portavano gli autori di questa nota ad ipotizzare l’esistenza di patterns di controllo in uscita, basati sugli schemi propriocettivi e di configurazione spaziale dei movimenti della bocca e della mandibola. Si auspicava, pertanto, che si intraprendessero studi controllati per accertare l’esistenza e il ruolo di questi patterns.

Per molto tempo non furono avviate ricerche basate su questa ipotesi di lavoro e, fino ad oggi, ha prevalso l’opinione che il controllo degli schemi di produzione del linguaggio verbale fosse unicamente dovuto al feedback uditivo.

Recentemente sono stati portati a termine alcuni studi molto interessanti che testano questa ipotesi, come quello condotto da David Ostry della Mc Gill University di Montreal in Canada, che mette alla prova l’ortodossia uditiva in maniera ingegnosa ed efficace (Tremblay S. e coll. Somatosensory basis of speech production. Nature 423, 866-869, 2003).

Tremblay e i suoi collaboratori hanno istruito delle persone a dire una parola dalle caratteristiche inconsuete per coloro che parlano in inglese: “siat”; una particolarità era data dal fatto che la vocale “i” doveva essere pronunciata all’italiana. Durante l’articolazione, a queste persone veniva posto un carico meccanico sulla mandibola, usando un braccio robotico. In pratica, una sofisticata apparecchiatura in grado di determinare lievi carichi con la massima precisione, mediante tre piccoli terminali, trasmetteva una leggera forza agli angoli della bocca e sul labbro inferiore. L’azione di disturbo era concepita in maniera tale che si alterasse il movimento della mandibola senza alcun effetto identificabile sulle proprietà acustiche della parola pronunciata. Gli autori hanno rilevato che, nel tempo, il movimento della mandibola si adattava alla perturbazione e sostituiva lo schema che era associato alla pronuncia prima dell’applicazione del carico.

Per confermare che il feedback uditivo non contribuisse in alcun modo a questo adattamento, i ricercatori avevano istruito un secondo gruppo di persone ad articolare “siat” senza vocalizzazione, cioè ad eseguire i movimenti bucco-labiali senza emettere alcun suono. Ripetendo gli stessi esperimenti, hanno riscontrato che l’adattamento si verificava ugualmente anche se il movimento non aveva una finalizzazione acustica.

Come in ogni buona ricerca di questo genere, era stato disposto un terzo gruppo di controllo, al quale si chiedeva di compiere un insolito movimento mandibolare non articolatorio. E’ interessante notare che in questo caso non si verificava alcun adattamento.

I risultati ottenuti nei tre gruppi chiaramente indicano che la mandibola può compensare il carico se il movimento che ne risulta è rilevante ai fini dell’esecuzione verbale, indipendentemente dall’intervento delle corde vocali nell’emissione del flatus vocis e, conseguentemente, da un eventuale feedback uditivo della propria parola.

Il lavoro del gruppo di Tremblay sembra efficacemente dimostrare che la produzione di parole non si basa unicamente sull’informazione uditiva, ma anche sull’abilità del cervello di rilevare la traccia della posizione della mandibola.

Riteniamo che questo dato sia estremamente importante ai fini della comprensione della fisiologia del linguaggio nel suo complesso, in quanto è noto che le funzioni di esecuzione linguistica sono apprese dopo la nascita secondo il modello della lingua madre e si basano su memorie che, pur essendo molto solide e stabili, non sono permanenti. Per questa ragione si ritiene che l’esercizio della comunicazione verbale sia importante per il mantenimento di questa funzione e, nell’ottica finora dominante, che il feedback uditivo sia essenziale a questo scopo. Una simile impostazione non consentiva di spiegare perché persone divenute sorde in età adulta potessero conservare per molti anni la capacità di parlare, pur essendo state deprivate del feedback uditivo. Ora si può ipotizzare che il feedback somatosensoriale, nelle persone che continuano a parlare pur avendo perso la funzione uditiva, svolga un ruolo nel mantenimento delle memorie procedurali di esecuzione linguistica. A questo proposito sarebbe interessante vedere se i patterns somatosensoriali sono in grado di attivare per link associativo i patterns acustici centrali, pur in assenza di stimoli acustici attuali, cosa che se si rivelasse vera aiuterebbe a spiegare meglio questo fenomeno.

I risultati di questa ricerca possono anche suggerire la valutazione sperimentale delle terapie logopediche attualmente impiegate per il trattamento delle forme gravi di ipoacusia congenita, mettendo a confronto le strategie che si basano prevalentemente su obiettivi acustici con quelle basate su obiettivi somatosensoriali.

      

BM&L-Ottobre 2003