SINDROME DI ANGELMAN E RUOLO DI UBE3A

 

 

La sindrome di Angelman[1] [ICD-10 Q93.5] è un disturbo neurogenetico dell’età evolutiva  caratterizzato da un ritardo dello sviluppo somatico e intellettivo che esita in un deficit mentale grave e si accompagna a disfunzione motoria con sintomi atassici e mioclonici, frequenti e gravi difetti di sviluppo del linguaggio, talora crisi epilettiche, microcefalia, alterazioni del sonno, tendenza al riso e al sorriso[2]. I bambini che ne sono affetti hanno in genere un temperamento allegro e un carattere socievole[3], con un’apparenza opposta a quella contraddistinta dal difetto di interazione intenzionale e abilità comunicative tipica dell’autismo; tuttavia l’associazione di condotte autistiche alla sindrome di Angelman è stata più volte descritta in passato e, in uno studio condotto su una popolazione di 49000 bambini con ritardo mentale, Steffenburg e colleghi della Clinica Neuropsichiatrica Infantile Annedals Clinics di Goteborg (Svezia) nel 1996 rilevarono che tutti e quattro i casi di sindrome di Angelmann presenti nel campione soddisfacevano i criteri comportamentali per la diagnosi di autismo[4].

La maggior parte dei casi della sindrome sono associati con mutazioni della copia materna del gene codificante l’ubiquitina protein ligasi E3A (UBE3A), gene di recente associato ai disturbi dello spettro dell’autismo, ma il cui ruolo nel normale sviluppo del sistema nervoso fino ad oggi era rimasto sconosciuto. Ora, Greer e collaboratori del Department of Neurobiology, Harvard Medical School, Boston, hanno accertato che la trascrizione del gene Ube3A è indotta dal rilascio di glutammato determinato dall’esperienza e che le mutazioni di questo gene causano difetti nello sviluppo di sinapsi eccitatorie per la riduzione dell’espressione dei recettori AMPA del glutammato nelle plasmamembrane (Greer P. L., et al. The Angelman syndrome protein Ube3A regulates synapse development by ubiquitinating Arc. Cell 140, 704-716, 2010).

I ricercatori hanno rilevato che la depolarizzazione di membrana e l’attivazione dei recettori del glutammato sortivano entrambe l’effetto di un aumento sia dell’mRNA che della proteina UBE3A in neuroni in coltura e in cervelli di topo allevati in un ambiente ricco di stimoli. Hanno poi trovato siti di legame per il myocyte enhancer factor 2, un fattore di trascrizione regolato dall’attività che controlla lo sviluppo sinaptico, nella regione del promotore del gene Ube3A. Usando un modello di topo transgenico esprimente una versione di ubiquitina contrassegnata da un epitopo emoagglutininico, i ricercatori hanno identificato nei neuroni dei candidati al ruolo di substrati di UBE3A. Questi candidati condividevano una regione di similarità lunga 75 aminoacidi e costituente, verosimilmente, il dominio di legame di UBE3A.

Una ricerca per similarità di sequenza nelle banche-dati del genoma dei mammiferi ha consentito di individuare la proteina sinaptica ARC come potenziale substrato della proteina.

ARC regola il traffico dei recettori del glutammato AMPA, costituendo un possibile collegamento con il ruolo di Ube3A nella funzione sinaptica.

Per verificare se Ube3A influenza i livelli di ARC, i ricercatori hanno co-espresso Ube3A e ARC in vitro e hanno osservato che il livello di ARC si riduceva, e tale riduzione poteva essere prevenuta dall’aggiunta di un inibitore dei proteasomi al mezzo di coltura. Nel cervello di topi knockout per Ube3A i livelli di ARC erano accresciuti.

Il blocco dell’espressione di Ube3A nei neuroni ippocampali mediante interferenza RNA, così come l’eliminazione in vivo riduceva i livelli dei recettori AMPA nelle membrane plasmatiche e ne impediva il reclutamento nell’area post-sinaptica.

Inoltre, l’inibizione dell’espressione di Ube3A portava alla riduzione della frequenza, ma non dell’ampiezza, delle correnti post-sinaptiche eccitatorie in miniatura: un effetto attribuibile alla mancata espressione degli AMPA in un subset di sinapsi. Questi cambiamenti erano dipendenti dall’ubiquitinazione e degradazione di ARC, in quanto l’iper-espressione di una versione di ARC mancante del dominio di legame per Ube3A riproduceva gli effetti del blocco dell’espressione di Ube3A, e l’interferenza RNA specifica per ARC aumentava l’espressione degli AMPA alla superficie dei neuroni.

Questo studio fornisce importanti elementi per la conoscenza dei meccanismi mediante i quali Ube3A regola la trasmissione sinaptica, e suggerisce che una compromissione dello sviluppo sinaptico dipendente dall’esperienza potrebbe essere all’origine del deficit cognitivo proprio della sindrome di Angelman. Inoltre, la caratterizzazione di un dominio legante Ube3A apre una nuova via all’identificazione di substrati che possono essere rilevanti nella comprensione dei meccanismi molecolari di altri disturbi neuroevolutivi.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che compaiono su questo sito.

 

Nicole Cardon

BM&L-Maggio 2010

www.brainmindlife.org

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

 

 

 

 



[1] Harry Angelman, pediatra a Warrington, nel 1965 descrisse i primi tre casi di questa sindrome che viene spesso citata come esempio di imprinting genetico in quanto generalmente causato da delezione o inattivazione di geni (includenti Ube3A) del cromosoma 15 ereditato dalla madre, mentre il cromosoma paterno è imprinted. La sindrome sorella, causata da imprinting materno, è la Prader-Willi. Molti degli elementi caratteristici della sindrome di Angelman derivano dalla perdita di funzione del gene Ube3A: normalmente si eredita una copia del gene da ciascun genitore ed entrambe le copie sono attive in molti tessuti del corpo, ma in alcune aree del cervello è attiva solo la copia ereditata dalla madre. Questa attivazione specifica del gene di un genitore è causata da un fenomeno noto come genomic imprinting. Se la copia materna del gene Ube3A è perduta a causa di un’alterazione cromosomica o di una mutazione genica, una persona non avrà copie attive in alcune parti del cervello.

Più in generale, l’imprinting genomico è definito come un processo che conferisce un’impronta specifica ai geni provenienti da ciascun genitore, così che i geni imprinted provenienti dalla madre saranno diversi e riconoscibili da quelli trasmessi dal padre. In pratica si parla di imprinting genetico o genomico quando l’espressione di un gene o di un gruppo di geni dipende da un tratto del genoma che proviene solo dal padre o solo dalla madre. L’imprinting genomico è la terza delle tre eccezioni alla equivalenza degli ibridi reciproci, le prime due essendo l’ereditarietà legata ai cromosomi sessuali X e Y (es.: emofilia, daltonismo) e l’ereditarietà legata a DNA non nucleare, come quello mitocondriale (es.: encefalomiopatia mitocondriale). Si veda, per l’imprinting genetico, un recente sviluppo in “Note e Notizie 24-04-10 Un meccanismo comune a deficit cognitivi di sviluppo diversi”.

La genetica della sindrome di Angelman non è semplice e presenta ancora aspetti da chiarire. E’ noto che vari meccanismi possono inattivare o eliminare la copia materna del gene Ube3A. In una frazione notevole di casi (stimata in passato intorno al 70-75%, ma da verificare) è presente una delezione di una regione che include questo gene, nel braccio lungo del cromosoma 15 di origine materna (15q11-13); in una proporzione stimata intorno all’11% del totale si rilevano mutazioni a carico del gene Ube3A. In una percentuale molto limitata di casi (2-3%) sono ereditate le due copie paterne del cromosoma 15 e manca il cromosoma materno, ossia si verifica una disomia uniparentale paterna. Raramente la sindrome di Angelman è causata da traslocazioni, mutazioni o altri difetti nella regione del DNA che controlla l’attivazione del gene Ube3A. Altri geni del cromosoma 15 materno possono essere deleti o inattivati nella sindrome. Ad esempio, la delezione di OCA2, localizzato nella stessa regione cromosomica di Ube3A, è associata al colore chiaro dei capelli e della cute che si riscontra in molti degli affetti; infatti, la proteina codificata da questo gene contribuisce alla determinazione della pigmentazione pilifera, tegumentaria e oculare [da Giuseppe Perrella, Appunti di neurogenetica, BM&L, Firenze 2010].

 

[2] Il frequente colore chiaro del viso e dei capelli, associato al costante sorriso, conferisce loro un aspetto angelico; tuttavia negli anni possono farsi evidenti tratti facciali grossolani o dismorfici, cui si aggiungono deformazioni scoliotiche. L’aspettativa di vita è normale.

[3] Lo stesso Angelman ha raccontato l’origine dell’impropria definizione di happy puppet syndrome, che ancora si incontra nei trattati di medicina e nelle diagnosi: durante una vacanza in Italia, visitò il museo di Castelvecchio a Verona, dove fu colpito da un dipinto che ritraeva un ragazzo sorridente dai capelli chiari che aveva in mano un disegno di un burattino. Il volto felice del ragazzo gli aveva ricordato quello dei bambini affetti dalla sindrome e il disegno del burattino gli aveva fatto pensare ai loro movimenti a scatti.

 

[4] Steffenburg S., et al. Autism in Angelman syndrome: a population-based study. Pediatr Neurol 14 (2), 131-136, 1996.