AMNESICI IPPOCAMPALI CHE NON IMMAGINANO NUOVE ESPERIENZE

 

 

La semplice e precisa sistematica delle amnesie che si poteva leggere nei trattati di neurologia e psichiatria di qualche decennio fa, è stata abbandonata nella pratica clinica attuale che si avvale delle più recenti acquisizioni della neuropsicologia e degli altri campi di ricerca sulla memoria.

Lo schematismo del passato era il portato di una diagnostica che muoveva i primi passi in un campo ancora del tutto ignoto, basandosi in larga misura su una concezione che isolava la memoria da tutti gli altri processi cognitivo-strumentali ed affettivo-emozionali, e su una valutazione centrata sulle prestazioni della memoria dichiarativa in relazione alla dicotomia funzionale breve/lungo termine.

Lo studio delle funzioni cognitive mediante la scomposizione in processi elementari e la loro ricomposizione a mosaico fluido, secondo repertori sviluppati progressivamente sugli esiti parziali dell’esame dello stesso paziente[1], ha costituito un’esperienza fondamentale nel campo delle scienze cognitive e della diagnostica neuropsicologica contemporanea, dimostrando quanto siano interconnesse funzioni tradizionalmente distinte e separate.

A questa esperienza clinico-sperimentale fanno riscontro i più recenti modelli neurobiologici delle funzioni mentali, che riconoscono una complessità nella quale ciascun sistema ha un suo supporto di memoria, e la stessa interazione fra sistemi è caratterizzata da memorie dell’interazione che, al pari di quelle dei singoli sistemi, vanno dalle memorie strutturali della specie a quelle nuove, che si formano nell’individuo per effetto dell’apprendimento.

A differenza di quanto accadeva all’inizio dello studio scientifico della memoria, attualmente la ricerca tiene ben distinta l’acquisizione di una nuova risposta basata su un riflesso semplice dal ricordo di un’esperienza esistenziale. Nel primo caso il possesso di una traccia mnemonica si rende evidente attraverso la ripetizione della risposta (memoria elementare), nel secondo caso richiede un processo di ricostruzione (memorie legate al pensiero) tipico dei processi cognitivi umani. Pertanto, non sorprende che la compromissione patologica della capacità di ricostruzione astratta possa incidere tanto su processi tradizionalmente ascritti al campo di studi della memoria, quanto su attività psichiche che implicano immaginazione, e sono in genere studiate con la creatività o con la cognizione spaziale.

E’ noto che le persone affette da danno primario dell’ippocampo presentano un deficit nel rievocare eventi del passato. Hassabis e colleghi hanno studiato 5 pazienti affetti da amnesia ippocampale, valutandone la capacità di immaginare nuove esperienze. La sperimentazione si è svolta fornendo ai volontari degli scenari sui quali dovevano costruire in forma astratta probabili eventi; le esperienze immaginate erano poi raccolte e valutate sulla base della quantità di dettagli contenuti e della coerenza spaziale del pensiero (Hassabis D. et al. Patients with hippocampal amnesia cannot immagine new experiences. PNAS 104, 1726-1731, 2007).

Quattro dei cinque pazienti non riuscivano ad immaginare nuove esperienze, dimostrando particolari difficoltà nel figurarsi il setting ambientale della storia da loro inventata.

Questi risultati indicano che l’ippocampo, il cui ruolo nella memoria spaziale è noto da decenni, interviene anche nel fornire un contesto spaziale all’immaginazione ed alla prefigurazione di nuove esperienze.

 

L’autrice della nota ringrazia Isabella Floriani per la correzione della bozza.

 

Diane Richmond

BM&L-Marzo 2007

www.brainmindlife.org

 

 



[1] Si vedano, come riferimento ormai storico, i classici tre volumi di R. Gianutsos e collaboratori pubblicati dal 1981 al 1984 da New York Life Science Associates con il titolo “Computer programs for cognitive rehabilitation” e corredati dei software-disks, ai quali si aggiunge come quarto volume su supporto informatico il programma di Linda Laatsch della Massachusetts Hospital School, pubblicato per la prima volta nell’ottobre 1985; Luciano Lugeschi, del Bellevue Hospital, ha portato in Italia i principi e la pratica di queste procedure, che hanno trovato scarsa applicazione fino a metà degli anni Novanta, sia per la limitata alfabetizzazione informatica dei professionisti di casa nostra, sia per un ritardo di sviluppo culturale nel campo della neuro-riabilitazione, ancora assente in quegli anni dai curricula universitari.