PERCHE’ GLI AMERICANI CREDONO NELLA MACCHINA DELLA VERITA’

 

 

La scena si svolge in una Corte di Giustizia del Far West e l’impianto della fiction è di quelli che seguono stereotipi della cinematografia americana basati su documentazioni storiche e collaudati luoghi comuni: un giovane pellerossa accusato di un crimine che non ha commesso viene sottoposto ad una tradizionale “prova della verità” della sua tribù, consistente nel porre un coltello rovente sulla sua lingua per verificarne l’effetto. La prova, ammessa dal giudice anche se non prodotta secondo le regole del codice di criminal law, scagiona l’innocente, in un lieto fine che soddisfa le aspettative della cultura popolare.

Sono numerosi i lavori cinematografici, televisivi e letterari della tradizione americana che riflettono l’integrazione nella cultura yankee, in parte di origine anglo-sassone ed europea, della convinzione atavica delle popolazioni indigene secondo cui la verità avrebbe una sua realtà materiale nel corpo della persona, realtà che la parola può nascondere ma non eliminare.

L’indiano d’America attribuisce alla parola facoltà straordinarie, espressione di un potere magico derivante dalla sua natura di tramite con lo spirito divino. Il verbale e il sacro sono indivisibili, perciò mentire non costituisce un’opzione individuale nel corso di una comunicazione, ma una rottura del patto di lealtà fra il mondo materiale degli esseri umani e quello immateriale degli spiriti.

 

Quando un individuo si azzarda a parlare, quando pronuncia una preghiera o racconta una storia, entra in contatto con forze sovrannaturali e irresistibili; corre grandi rischi e si assume gravi responsabilità[1].

 

Nelle comunità tribali americane del passato e del presente, e nei gruppi culturali che riscoprono le tradizioni dei loro antenati indigeni, si osservano norme di prudenza nell’uso delle parole:

 

Servirsi, nell’ambito di una lingua, superficialmente delle parole significa violare una regola etica fondamentale[2].

 

L’etica della parola dei nativi d’America costituiva un costume dal quale derivavano abitudini, come il parlare poco e il memorizzare le parole udite, in grado di proteggere dal rischio di non rispettare il vero.

Vero, reale e giusto sono intimamente connessi e ne sono depositari gli dei, come è evidente in questo canto dei Pawnee:

 

Vediamo, è vero tutto ciò (3 volte),

questa vita che sto vivendo?

Voi dei, che dimorate ovunque,

vediamo se è vera,

questa vita che sto vivendo[3].

 

Gli dei concedono agli uomini la conoscenza del vero, che coincide con la realtà naturale, perciò mentire vuol dire porsi in contrasto con l’ordine della natura. Per questo la cultura americana delle origini crede fermamente in effetti diretti della menzogna e ne teme le conseguenze immediate.

Chi non ha esperienza diretta delle realtà di vita americana in cui le molteplici forme della cultura dei “pellerossa” sopravvivono, condizionano e caratterizzano mentalità e costumi, può perfino ritenere che quanto si è qui brevemente discusso non abbia alcuna incidenza sull’ostinato ricercare con le macchine la prova della menzogna nel corpo umano, ma per quanto mi riguarda lascio a costoro l’onere della prova delle proprie opinioni, perché la mia trova supporto in intere biblioteche di studi di antropologia e sociologia della storia del Nuovo Continente.

                                                                            

L’autrice della nota ringrazia Giuseppe Perrella con il quale ha discusso l’argomento trattato.

 

Monica Lanfredini

BM&L-Gennaio 2007

www.brainmindlife.org

 

 

 



[1] N. Scott Momaday, La voce nativa, in “Storia della civiltà letteraria degli Stati Uniti”, vol. I, p. 5, UTET, Torino 1997.

[2] N. Scott Momaday, ibidem.

[3] N. Scott Momaday, op. Cit., p. 7.