OPINIONI SULLA TERAPIA GENICA DELL’AMAUROSI DI LEBER

 

 

I risultati di due studi indipendenti che si proponevano il fine di consentire la visione mediante terapia genica a pazienti virtualmente ciechi, hanno suscitato numerose riflessioni e commenti in sedi scientifiche, poi ripresi da vari organi di informazione. Si comprende il grande interesse se si pensa al fascino esercitato da un argomento in cui confluiscono l’antico mito-tabù della guarigione della cecità ed il moderno mito-realtà della terapia genica, che da oltre vent’anni oscilla fra la risorsa attuale e la possibilità futura.

I 6 volontari partecipanti a questa sperimentazione terapeutica erano tutti affetti da amaurosi congenita di Leber (LCA), una malattia genetica causata da un difetto di RPE65, gene che codifica un enzima richiesto per la produzione di rodopsina nella retina. Le persone affette da LCA presentano alla nascita una compromissione della funzione visiva che si aggrava col procedere degli anni.

I due studi, uno condotto negli Stati Uniti d’America e l’altro in Gran Bretagna, hanno impiegato virus geneticamente ingegnerizzati per veicolare copie del gene RPE65 sano allo scopo di consentire l’espressione dell’enzima funzionante. Le due sperimentazioni terapeutiche hanno ottenuto risultati diversi, anche se Craig Nicholson li ha accomunati definendoli complessivamente incoraggianti (Craig Nicholson, Visible Improvement. Nature Reviews Neuroscience 9 (6): 410, 2008).

I tre soggetti dello studio americano hanno tutti presentato un miglioramento dell’acuità visiva e della sensibilità alla luce. Jean Bennet, autrice con altri dell’articolo che ha comunicato i risultati, ha dichiarato a proposito dell’effetto della terapia sulla vista dei volontari: “La definirei una risposta drammatica.” (Washington Post).

Due dei tre partecipanti allo studio britannico non hanno invece avuto benefici dalla terapia con vettore virale. Uno solo ha manifestato un miglioramento, veramente notevole da un punto di vista scientifico ma, tutto sommato, abbastanza modesto rispetto alla notizia dell’aver riacquistato la vista, incautamente diffusa da alcuni giornalisti. Il volontario, infatti, ha presentato un aumento di sensibilità alla luce dell’ordine delle 100 volte, acquisendo, così, la capacità di orientarsi e dirigersi nello spazio anche con una bassa illuminazione, come quella delle ore notturne. Robin Ali, il principale autore dello studio britannico, circa le possibilità della terapia genica ha affermato: “Realmente apre la strada per lo sviluppo di un trattamento per persone che non avevano alcuna prospettiva di cura.” (The Guardian).

E’ necessario, a nostro avviso, sottolineare che i miglioramenti dipendono strettamente dal grado di avanzamento della degenerazione, pertanto se si accetta la terapia genica con vettori virali, sarà opportuno procedere al trattamento quanto più precocemente è possibile. Questa opinione è stata espressa già il mese scorso sulla rivista Science da Katherine High del Children’s Hospital di Philadelphia, con un lapidario: “Prima puoi intervenire e meglio è ”. Poi la High, a proposito dei due studi in oggetto, ha sostenuto il loro valore anche in funzione del superamento delle preoccupazioni e dei dubbi che ancora accompagnano la terapia con virus vettori di geni: “… [E’] importante per l’intero campo della terapia genica” (Bloomberg).

In conclusione, sembra che questi risultati aprano buone prospettive per il trattamento di varie patologie genetiche della funzione visiva e, in attesa di altri approfondimenti sui danni potenziali, larvati o a distanza di anni, che potrebbero essere causati dall’introduzione del genoma del virus nel nostro DNA, riteniamo di poter salutare con ottimismo il recente avvio di questa sperimentazione terapeutica in Italia.

 

Giovanni Rossi

BM&L-Giugno 2008

www.brainmindlife.org