BM&L-ITALIA: LA MALATTIA DI ALZHEIMER
ATTUALITA’ NELLA RICERCA E NUOVE TERAPIE PER
LA MALATTIA DI ALZHEIMER
Dal Congresso Mondiale dell’anno 2000 sulla Malattia di
Alzheimer sono passati esattamente sei anni, durante i quali il campo di studi
di questa catastrofica sciagura con la quale deve fare i conti tutto il genere
umano, si è enormemente esteso. La materia stessa si è frammentata in numerose
sottodiscipline, le quali hanno prodotto una grande messe di conoscenze, sia in
ambiti tradizionalmente correlati, sia in settori apparentemente più distanti,
rendendo evidente quanto la neurobiologia stia diventando un campo unificato.
Ma, nonostante la grande mole di lavoro e risultati prodotti, la possibilità di
trovare terapie in grado di consentire la guarigione da questa terribile
malattia degenerativa appare ancora lontana.
I motivi di questa impasse sono numerosi, ma in gran
parte riportabili ad una origine comune: l’etiologia non è ancora chiaramente
definita e, soprattutto, il quadro complessivo delle conoscenze relative alla
genetica ed alla patogenesi del danno, depone a favore dell’esistenza di uno
spettro di patologie diverse accomunate da alcuni tratti biochimici, istologici
e clinici, che si continua a comprendere sotto l’unica etichetta di “malattia
di Alzheimer” (si veda: Giuseppe Perrella, La
Malattia di Alzheimer. Un’introduzione. BM&L Edition 2004).
In proposito si deve osservare che, l’indiscutibile utilità scientifica
nel tenere unito il campo di indagine, può ingenerare un’aspettativa infondata circa
la possibilità di pervenire ad una soluzione unica e definitiva per tutte le
forme di degenerazione alzheimeriana. D’altra parte, i progressi compiti nella
conoscenza della patogenesi molecolare hanno consentito lo sviluppo di numerosi
farmaci e strategie terapeutiche che saranno illustrate e discusse in dettaglio
nel corso di questa giornata.
Come ho già fatto in occasione dell’aggiornamento sull’ictus,
preferisco dare spazio in questa scheda introduttiva ai brevi testi di più
recente aggiornamento da voi proposti per il sito web, invece di azzardare una sintesi
personale che sarebbe sicuramente lacunosa, imperfetta e molto meno efficace.
Comincerò dall’ottima sintesi della review del presidente
sulle prospettive terapeutiche dell’8 giugno scorso, che Nicole Cardon ha
proposto nella sua nota del 10 giugno, continuo con gli ultimi due
aggiornamenti in ordine cronologico inverso, quello di Diane Richmond dello
scorso maggio e quello di Ludovica Poggi del marzo di quest’anno.
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ALZHEIMER, LO STATO DELL’ARTE IN UN
INCONTRO DI BM&L
La mole
straordinaria di dati prodotti negli ultimi dieci anni dalla ricerca sulla
malattia di Alzheimer, costituisce un notevole contributo alla conoscenza della
biologia e della patologia del sistema nervoso centrale. Tuttavia, i tanto
attesi passi decisivi verso la guarigione da questo immane flagello non sono
stati ancora compiuti e l’aggiornamento circa i principali argomenti oggetto di
indagine fa registrare solo poche novità sostanziali rispetto alla review
redatta dal nostro presidente, Giuseppe Perrella (si veda: La Malattia di Alzheimer. Un’introduzione.
BM&L Edition 2004).
In campo
terapeutico, sebbene le prospettive siano ancora quelle delineate da Michael S.
Wolfe nella sua ottima rassegna di circa quattro anni fa (Michael S. Wolfe, Therapeutic
Strategies for Alzheimer’s Disease. Nature Reviews Drug Discovery 1, 859-866,
2002), lo stato di avanzamento della
sperimentazione terapeutica vede alcuni farmaci prossimi al completamento
dell’iter, nuove molecole in fase iniziale di sperimentazione e qualche
cambiamento di orientamento, come si può leggere in un articolo a carattere
generale e divulgativo, dello stesso Wolfe, pubblicato nello scorso mese di
maggio su Scientific American (Michael S. Wolfe, Shutting down Alzheimer’s. Sci. Am.
294 (5): 60-67, 2006).
Riportiamo qui di
seguito alcuni dei dati salienti proposti all’attenzione dei partecipanti
all’incontro di aggiornamento dello scorso giovedì, 8 giugno 2006, dal gruppo
strutturale di BM&L-Italia sulle malattie neurodegenerative.
E’ noto che, fin
dalla prima descrizione di Alois Alzheimer, i due contrassegni della malattia
sono le placche senili e gli aggregati fibrillari. Le prime, dette più propriamente placche amiloidi, sono costituite da assoni e dendriti degeneranti, spesso circondati da
microglia, intorno a un “core” di accumulo del peptide β-amiloide, che forma una sostanza vischiosa che tende ad
aumentare di consistenza nel tempo. I secondi rappresentano una degenerazione neurofibrillare intracellulare e sono costituiti da ammassi di
neurofilamenti avvolti a spirale, contorti ed aggregati a seguito della perdita
della configurazione fisiologica per l’iper-fosforilazione della proteina tau.
La
contrapposizione su quale fosse il primum movens della malattia,
l’accumulo di amiloide extracellulare o la degenerazione neurofibrillare
intracellulare, ha creato due campi distinti di studio, che sono rimasti
separati per decenni, perché espressione di due teorie apparentemente inconciliabili:
la prima attribuiva il ruolo causale ad una cascata di eventi originati dal
peptide beta amiloide (Beta-Amyloid-Plaques o BAP, per cui i suoi sostenitori
erano chiamati BAP-tists), la seconda alle alterazioni dovute alla
iperfosforilazione della proteina tau (i sostenitori erano perciò detti Tau-ists).
Attualmente la
“cascata amiloide” è considerata più che una semplice ipotesi, e il processo
innescato dal peptide (βA) isolato da Glenner e Wong, lungo 42-43 aminoacidi e in grado di assemblarsi
in strutture filamentose come dimostrato da Lansbury, è stato collegato con
l’alterazione neurofibrillare intracellulare. In particolare, gli aggregati βA extracellulari
attivano una successione di eventi che porta le chinasi intracellulari a
fosforilare in eccesso la proteina tau, con conseguente cambiamento
delle sue proprietà chimiche ed avvio dello scompaginamento delle strutture
neurofibrillari.
La dimostrazione
di questo collegamento fra i due complessi di alterazioni patologiche
principali, ulteriormente supporta l’idea di un’efficacia curativa e preventiva
di farmaci in grado di bloccare la formazione di βA.
Il processo che
dal precursore APP (amyloid-beta precursor protein) virtualmente in tutte le
cellule porta alla formazione dei peptidi β-amiloidi (39-43 residui aminoacidici), i più
lunghi dei quali (βA) tendono maggiormente ad aggregarsi, si è rivelato parte di una via di
segnalazione. Le tappe fondamentali per la sintesi di βA sono catalizzate da due enzimi: β-secretasi e γ-secretasi.
La β-secretasi,
individuata nel 1999 da cinque diversi gruppi di ricerca, appartiene alla
famiglia delle aspartil-proteasi, enzimi che impiegano per la propria azione
due residui di acido aspartico ed acqua. A questo subset di proteasi
appartiene anche l’enzima implicato nella replicazione del virus HIV che causa
l’AIDS. Gli inibitori
della β-secretasi noti non sono adatti alla sperimentazione
clinica, infatti le molecole fino ad oggi valutate non erano tanto piccole da
attraversare efficacemente la barriera emato-encefalica.
La γ-secretasi
è considerata l’enzima capostipite di una nuova classe di proteasi che
trattengono acqua nella membrana cellulare per svolgere l’azione enzimatica. I geni
presenilina 1 e 2, identificati dal gruppo di Peter St. George-Hyslop come
responsabili di gravi forme della malattia ad insorgenza precoce, codificano
per un costituente della γ-secretasi.
Gli inibitori di questo enzima sono piccole molecole in grado
di attraversare agevolmente la barriera emato-encefalica, tuttavia nella maggior
parte dei casi non sono impiegabili a scopo terapeutico per gli effetti dannosi
che produrrebbero. Infatti, l’inibizione della γ-secretasi blocca la sua azione
sul recettore Notch, una proteina di superficie che genera un
frammento endocellulare che si dirige verso il nucleo al quale invia un segnale
specifico. La via di segnalazione di Notch, oggetto
di intensi studi, si sta rivelando di grande importanza nell’arco di tutta la vita
del neurone. Da notare che uno di questi inibitori, potenzialmente nocivi per
gli effetti di blocco della segnalazione mediata dal recettore Notch, è stato prodotto dalla Eli Lilly ed è giunto alla seconda fase di
sperimentazione clinica. In altre parole, la molecola ha superato i tests generici
sui volontari (Phase I clinical trials) ed ora ne è stata avviata la
sperimentazione in pazienti con malattia di Alzheimer in fase iniziale (Phase
II clinical trials).
Più
opportunamente si è cercato di individuare molecole che interferiscono con la γ-secretasi non
legandosi ai residui di acido aspartico necessari per l’azione su Notch, ma formando un legame con un sito diverso e determinando un cambiamento
di conformazione in grado di prevenire la catalisi necessaria per la sintesi di
βA.
Altri inibitori
della γ-secretasi in sperimentazione, sembrano in grado di spostare
la produzione dai frammenti peptidici più amiloidogenici (42-43 residui aminoacidici)
a quelli che lo sono di meno (40 residui). Uno di questi farmaci, il Flurizan,
è attualmente somministrato ad oltre 1000 pazienti inclusi nella III fase di
sperimentazione clinica negli USA.
L’immunizzazione attiva, che aveva fatto tanto sperare per i risultati
ottenuti sui modelli murini e per l’iniziale successo della sperimentazione
umana, è stata quasi del tutto abbandonata dopo i numerosi casi di encefalite
che imposero la sospensione dello studio clinico nel 2002. Secondo uno studio
retrospettivo, l’imprevisto sviluppo della grave infiammazione dell’encefalo
sarebbe stato innescato da una intensissima risposta dei linfociti T nell’attacco
agli aggregati di βA. Alcuni studiosi, fra cui Cynthia Lemere, continuano a percorrere questa
via, impiegando solo parti del peptide che sembrano in grado di attivare una
risposta delle cellule B senza evocare la pericolosa reazione dei linfociti T.
Questi tentativi sono però considerati con prudenza e scetticismo dalla maggior
parte dei ricercatori.
L’immunizzazione passiva è invece di grande attualità ed il trattamento in
grado di conferirla, realizzato dalla Elan Corporation, è giunto alla II fase
di sperimentazione clinica. Gli anticorpi sono prodotti da cellule di topo
geneticamente ingegnerizzate per prevenire il rigetto da parte
dell’organismo umano, e sembra che non inneschino, da parte delle cellule-T,
risposte nocive per l’encefalo. Tuttavia la reale efficacia terapeutica
dell’immunizzazione passiva è ancora controversa. Si nota, ad esempio, che
l’attraversamento della barriera emato-encefalica da parte degli anticorpi è
apparso molto problematico in vari esperimenti e gli effetti dell’immunizzazione
passiva riscontrati in alcune ricerche potrebbero essere la conseguenza di un
processo indiretto. L’azione degli anticorpi contro i peptidi βA presenti
diffusamente nell’organismo ne causerebbe una forte riduzione periferica, che
indurrebbe il cervello a mobilizzare dalla placche i suoi peptidi in eccesso
inviandoli alla periferia. Se tale è il meccanismo operante, l’immunizzazione
passiva agirebbe, in qualche modo, alterando un equilibrio fisiologico.
Gli eparino-inibitori. L’eparina è un eteropolisaccaride a struttura
octaciclica che svolge nel sangue la funzione di anticoagulante naturale, ma
che è anche in grado di legarsi ai peptidi βA aumentandone criticamente la capacità di
aggregarsi e formare depositi di amiloide. Il contrasto dell’azione eparinica
sembra avere un buon effetto sulla riduzione delle placche. L’Alzhemed,
prodotto dalla Neurochem in Quebec, è una piccola molecola in grado di legarsi
su βA
agli stessi siti dell’eparina, prevenendone l’effetto aggregante. Alcuni
chiamano eparino-mimetico questo farmaco, ma la definizione non è corretta
perché, considerando il meccanismo d’azione, si dovrebbe, al più, parlare di
inibitore competitivo. L’Alzhemed sembra avere scarsa o nulla tossicità ed è
giunto alla III fase di sperimentazione clinica. Per ciò che riguarda l’entità
dell’efficacia valgono le riserve espresse per gli anticolesterolemici (v.
dopo).
Gli inibitori delle chinasi. Sono stati deludenti, finora, i tentativi di
prevenire la distorsione delle strutture neurofibrillari dei neuroni bloccando
le chinasi che iper-fosforilano la proteina tau.
I farmaci anticolesterolemici, come la statina Lipitor, sono giunti nella terza
fase di sperimentazione e, sebbene abbiano dimostrato una certa efficacia nel
ridurre la formazione di depositi amiloidi, il loro meccanismo d’azione è
ignoto e l’efficacia sulla malattia di Alzheimer ancora molto dubbia. In
generale, si può osservare che il problema fondamentale nel declino cognitivo
non è costituito dalla formazione delle placche, ma dalla degenerazione e dalla
morte dei neuroni, conseguenza di molti eventi e non solo del formarsi dei
depositi di amiloide.
Infine, non si
può non menzionare il promettente tentativo di terapia cellulare che Mark Tuszynski dell’Università della
California a San Diego ha sperimentato su alcuni volontari in una fase non
avanzata della malattia. Dopo aver prelevato cellule dalle biopsie cutanee, vi
ha inserito il gene codificante l’NGF; ha poi introdotto queste cellule
geneticamente modificate nel proencefalo degli stessi pazienti, con il
risultato di un marcato rallentamento del declino cognitivo. Anche se questo
studio, per il basso numero dei soggetti trattati e la mancanza di adeguati
controlli, non può ritenersi molto significativo, il suo buon esito ha
incoraggiato l’avvio di nuovi progetti di terapia cellulare con protocolli più
esigenti, che consentono di nutrire qualche speranza per il futuro.
L’autrice della
nota ringrazia Giuseppe Perrella, la cui relazione all’incontro di
aggiornamento dell’8 giugno 2006 ha costituito la base di questo testo, e
Isabella Floriani per la correzione della bozza. L’autrice si assume la
responsabilità delle opinioni espresse.
www.brainmindlife.org
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ALZHEIMER: INDIVIDUATO PROCESSO NEI
DISTURBI DI MEMORIA PRECOCI
Le placche
extracellulari e la degenerazione neurofibrillare della malattia di Alzheimer
sono gli elementi distintivi di un processo inesorabilmente progressivo, che porta
al declino di tutte le facoltà cognitive per la perdita di neuroni. I gravi
disturbi della memoria si spiegano su questa base, tuttavia è noto che
alterazioni minori, indistinguibili da quelle presenti nell’involuzione senile
fisiologica, precedono per un lungo periodo l’istaurarsi di sintomi più gravi. E’
stato ipotizzato che questo lieve deficit di memoria, peraltro efficacemente
trattato mediante esercizio cognitivo assistito da computer, fosse da
ascriversi a modificazioni dell’attività sinaptica, piuttosto che a perdita di
cellule nervose. In vero, l’esatto meccanismo patogenetico di questa dismnesia
prodromica non è noto, ma è oggetto di numerosi studi condotti su modelli
animali della malattia.
Lesné e
collaboratori hanno identificato in modelli murini un processo che potrebbe
spiegare le ridotte prestazioni cognitive non rapidamente ingravescenti come
quelle dovute alla progressiva perdita del patrimonio neuronico (A specific amyloid-β protein assembly in the brain impairs memory. Nature
440, 352-357, 2006).
I topi Tg2576
che esprimono un mutante del precursore umano del peptide beta-amiloide (βA), intorno ai
sei mesi di vita (corrispondenti alla “mezza età” umana), sviluppano deficit di
memoria senza perdita di neuroni. Dopo questo declino iniziale, la funzione
mnemonica rimane stabile per 7-8 mesi, prima di un ulteriore declino.
Numerose evidenze
indicano la responsabilità del peptide βA nel primo manifestarsi del deficit, tuttavia i livelli di questa molecola
presentano un pattern di incremento crescente con l’età, che contrasta
con i 7-8 mesi di stabilità delle prestazioni. Per spiegare quest’apparente
incongruenza, gli autori hanno ipotizzato la formazione di oligomeri del
peptide βA, che sarebbe stato possibile rilevare nei topi Tg2576 a partire dai
sei mesi di vita, e il cui tasso sarebbe rimasto stabile durante l’età media.
L’immunoblotting
di estratti di proteine extracellulari ottenuti da topi di 6 mesi, ha
dimostrato la presenza delle specie oligomeriche postulate:
1) monomeri del peptide βA del peso molecolare di 4 kDa,
2) trimeri del peptide βA del peso molecolare di 14 kDa,
3) esameri del peptide βA del peso molecolare di 27 kDa,
4) nonameri del peptide βA del peso molecolare di 40 kDa,
5) dodecameri del peptide βA del peso molecolare di 56 kDa.
Tutti questi
oligomeri erano resistenti alla denaturazione con SDS/urea (un comune
denaturante delle proteine globulari) e per effetto di concentrazioni crescenti
di esa-fluoro-isopropanolo (un solvente che rompe i legami H) si dissociavano in
monomeri, confermando la loro natura di “multipli” dello stesso peptide.
L’assemblaggio
dodecamerico di 56 kDa, che gli autori hanno siglato Aβ*56, appare per la prima volta a
6 mesi di età e rimane stabile durante l’età media dei topi Tg2576, indicando
che i suoi livelli sono correlati inversamente con il deficit di memoria.
Per studiare il
ruolo causale di Aβ*56 nella
perdita di memoria, gli autori hanno purificato questo assemblaggio fino
all’omogeneità e lo hanno iniettato nei ventricoli laterali di giovani ratti
che, successivamente, sono stati sottoposti a prove di apprendimento e memoria
spaziale. L’iniezione del dodecamero beta-amiloide sembrava aver compromesso la
memoria spaziale di lungo termine, pur lasciando intatta la capacità di acquisire
nuove informazioni spaziali. In altre parole, i topi con depositi di oligomeri
cerebrali avevano le stesse capacità di apprendimento del gruppo di controllo,
rispetto al quale evidenziavano solo un deficit della memoria pregressa. Il re-testing
di tutti i topi dopo 10 giorni, senza ulteriori iniezioni, non mostrava più le
differenze osservate alla prima prova: il difetto di memoria spaziale di lungo
termine nei topi cui era stata somministrata Aβ*56 non era più apprezzabile.
Questi risultati
depongono per un ruolo determinante dell’Aβ*56 nel causare il deficit di memoria indipendente dalla formazione di placche
o dalla perdita di cellule nervose, nei topi Tg2576.
Se questi
risultati saranno confermati, si dovrà cercare di stabilire quali effetti possono
avere gli altri oligomeri del peptide beta-amiloide e, cosa senz’altro molto
impegnativa, si dovrà individuare il meccanismo con cui Aβ*56 disturba la funzione
sinaptica.
E’ perfino
superfluo sottolineare che l’individuazione di un equivalente umano dell’ Aβ*56 fornirebbe un potenziale
bersaglio per la sperimentazione di farmaci diretti al miglioramento dei
disturbi di memoria che a lungo precedono i sintomi della fase avanzata di
questa grave malattia neurodegenerativa.
L’autrice della nota ha discusso
l’argomento con Nicole Cardon e si è avvalsa della collaborazione di Isabella
Floriani.
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UN NUOVO ELEMENTO NELLA PATOGENESI
DELL’ALZHEIMER
Nella complessa
patogenesi della malattia di Alzheimer, Zhao e i suoi collaboratori hanno
identificato una nuova componente che potrebbe divenire bersaglio di un’azione
farmacologica volta a ridurre il deficit cognitivo (Role of p21-activated kinase pathway
defects in the cognitive deficits of Alzheimer disease. Nature Neuroscience
9, 234-242, 2006).
Una perdita di
attività della via delle chinasi p21-attivate (PAK) è stata rilevata nel cervello di pazienti affetti da malattia di
Alzheimer ed è stata messa in relazione con eventi patogenetici noti quali il
deficit di spine dendritiche alla base della riduzione di attività dei circuiti
che garantiscono l’efficienza di strumentalità cognitive.
Le PAK sono dei regolatori del citoscheletro actinico che, nelle cellule
nervose, svolgono un ruolo importante
nei processi di morfogenesi delle spine dendritiche. E’ noto che la mutazione
di Pak3 causa nel topo un ritardo mentale aspecifico legato al cromosoma
X, e che le alterazioni delle PAK inducono difetti delle spine dendritiche con
conseguente deficit cognitivo.
La segnalazione PAK inattiva la cofilina -la
quale destabilizza le interazioni fra le subunità actiniche- inducendone il
distacco dall’actina. Questo consente alla drebrina di
legarsi all’actina e regolarla nelle spine dendritiche. Mancando
l’inattivazione della cofilina, nei neuroni si formano delle inclusioni
caratteristiche della malattia di Alzheimer.
Il gruppo di
ricerca di Zhao ha dimostrato che i livelli di PAK solubile sono
significativamente ridotti nei pazienti alzheimeriani e che le PAK fosforilate
si ridistribuiscono in ammassi granulari e fibrillari, suggerendo un legame fra
la perdita dell’attività delle PAK e 1) l’aggregazione di cofilina, 2) la
perdita di drebrina e 3) i difetti sinaptici descritti nella malattia di
Alzheimer. Questi stessi elementi sono stati osservati anche in un modello
sperimentale della malattia, un topo transgenico che produce alti livelli di
peptide ß-amiloide.
Infine, nel topo
adulto sano, l’inibizione farmacologica delle PAK riproduce molti elementi
caratteristici della fisiopatologia della malattia di Alzheimer.
Se questi dati
saranno confermati, la sperimentazione terapeutica potrà considerare le PAK e i
loro effettori come potenziali bersagli di molecole da testare per lo sviluppo
di una terapia di questa terribile malattia neurodegenerativa.
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Concludendo questa introduzione voglio ringraziare tutti i
partecipanti, soprattutto coloro che, non essendo membri della nostra Società,
hanno voluto generosamente fornire materiali scientifici, bibliografie,
resoconti di ricerche non ancora pubblicate e materiale audiovisivo originale;
voglio, inoltre, ringraziare in anticipo coloro che registrano e trascriveranno
il question time e le discussioni che seguiranno le presentazioni.
Giovanni Rossi