BM&L-ITALIA: LA MALATTIA DI ALZHEIMER

AGGIORNAMENTO

 

ROMA, 20 GIUGNO 2006

SCHEDA INTRODUTTIVA

 

ATTUALITA’ NELLA RICERCA E NUOVE TERAPIE PER LA MALATTIA DI ALZHEIMER 

 

 

 

Dal Congresso Mondiale dell’anno 2000 sulla Malattia di Alzheimer sono passati esattamente sei anni, durante i quali il campo di studi di questa catastrofica sciagura con la quale deve fare i conti tutto il genere umano, si è enormemente esteso. La materia stessa si è frammentata in numerose sottodiscipline, le quali hanno prodotto una grande messe di conoscenze, sia in ambiti tradizionalmente correlati, sia in settori apparentemente più distanti, rendendo evidente quanto la neurobiologia stia diventando un campo unificato. Ma, nonostante la grande mole di lavoro e risultati prodotti, la possibilità di trovare terapie in grado di consentire la guarigione da questa terribile malattia degenerativa appare ancora lontana.

I motivi di questa impasse sono numerosi, ma in gran parte riportabili ad una origine comune: l’etiologia non è ancora chiaramente definita e, soprattutto, il quadro complessivo delle conoscenze relative alla genetica ed alla patogenesi del danno, depone a favore dell’esistenza di uno spettro di patologie diverse accomunate da alcuni tratti biochimici, istologici e clinici, che si continua a comprendere sotto l’unica etichetta di “malattia di Alzheimer” (si veda: Giuseppe Perrella, La Malattia di Alzheimer. Un’introduzione. BM&L Edition 2004).

In proposito si deve osservare che, l’indiscutibile utilità scientifica nel tenere unito il campo di indagine, può ingenerare un’aspettativa infondata circa la possibilità di pervenire ad una soluzione unica e definitiva per tutte le forme di degenerazione alzheimeriana. D’altra parte, i progressi compiti nella conoscenza della patogenesi molecolare hanno consentito lo sviluppo di numerosi farmaci e strategie terapeutiche che saranno illustrate e discusse in dettaglio nel corso di questa giornata.

Come ho già fatto in occasione dell’aggiornamento sull’ictus, preferisco dare spazio in questa scheda introduttiva ai brevi testi di più recente aggiornamento da voi proposti per il sito web, invece di azzardare una sintesi personale che sarebbe sicuramente lacunosa, imperfetta e molto meno efficace.

Comincerò dall’ottima sintesi della review del presidente sulle prospettive terapeutiche dell’8 giugno scorso, che Nicole Cardon ha proposto nella sua nota del 10 giugno, continuo con gli ultimi due aggiornamenti in ordine cronologico inverso, quello di Diane Richmond dello scorso maggio e quello di Ludovica Poggi del marzo di quest’anno.

 

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ALZHEIMER, LO STATO DELL’ARTE IN UN INCONTRO DI BM&L

 

 

La mole straordinaria di dati prodotti negli ultimi dieci anni dalla ricerca sulla malattia di Alzheimer, costituisce un notevole contributo alla conoscenza della biologia e della patologia del sistema nervoso centrale. Tuttavia, i tanto attesi passi decisivi verso la guarigione da questo immane flagello non sono stati ancora compiuti e l’aggiornamento circa i principali argomenti oggetto di indagine fa registrare solo poche novità sostanziali rispetto alla review redatta dal nostro presidente, Giuseppe Perrella (si veda: La Malattia di Alzheimer. Un’introduzione. BM&L Edition 2004).

In campo terapeutico, sebbene le prospettive siano ancora quelle delineate da Michael S. Wolfe nella sua ottima rassegna di circa quattro anni fa (Michael S. Wolfe, Therapeutic Strategies for Alzheimer’s Disease. Nature Reviews Drug Discovery 1, 859-866, 2002), lo stato di avanzamento della sperimentazione terapeutica vede alcuni farmaci prossimi al completamento dell’iter, nuove molecole in fase iniziale di sperimentazione e qualche cambiamento di orientamento, come si può leggere in un articolo a carattere generale e divulgativo, dello stesso Wolfe, pubblicato nello scorso mese di maggio su Scientific American (Michael S. Wolfe, Shutting down Alzheimer’s. Sci. Am. 294 (5): 60-67, 2006).

Riportiamo qui di seguito alcuni dei dati salienti proposti all’attenzione dei partecipanti all’incontro di aggiornamento dello scorso giovedì, 8 giugno 2006, dal gruppo strutturale di BM&L-Italia sulle malattie neurodegenerative.

E’ noto che, fin dalla prima descrizione di Alois Alzheimer, i due contrassegni della malattia sono le placche senili e gli aggregati fibrillari. Le prime, dette più propriamente placche amiloidi, sono costituite da assoni e dendriti degeneranti, spesso circondati da microglia, intorno a un “core” di accumulo del peptide β-amiloide, che forma una sostanza vischiosa che tende ad aumentare di consistenza nel tempo. I secondi rappresentano una degenerazione neurofibrillare intracellulare e sono costituiti da ammassi di neurofilamenti avvolti a spirale, contorti ed aggregati a seguito della perdita della configurazione fisiologica per l’iper-fosforilazione della proteina tau.

La contrapposizione su quale fosse il primum movens della malattia, l’accumulo di amiloide extracellulare o la degenerazione neurofibrillare intracellulare, ha creato due campi distinti di studio, che sono rimasti separati per decenni, perché espressione di due teorie apparentemente inconciliabili: la prima attribuiva il ruolo causale ad una cascata di eventi originati dal peptide beta amiloide (Beta-Amyloid-Plaques o BAP, per cui i suoi sostenitori erano chiamati BAP-tists), la seconda alle alterazioni dovute alla iperfosforilazione della proteina tau (i sostenitori erano perciò detti Tau-ists).

Attualmente la “cascata amiloide” è considerata più che una semplice ipotesi, e il processo innescato dal peptide (βA) isolato da Glenner e Wong, lungo 42-43 aminoacidi e in grado di assemblarsi in strutture filamentose come dimostrato da Lansbury, è stato collegato con l’alterazione neurofibrillare intracellulare. In particolare, gli aggregati βA extracellulari attivano una successione di eventi che porta le chinasi intracellulari a fosforilare in eccesso la proteina tau, con conseguente cambiamento delle sue proprietà chimiche ed avvio dello scompaginamento delle strutture neurofibrillari.

La dimostrazione di questo collegamento fra i due complessi di alterazioni patologiche principali, ulteriormente supporta l’idea di un’efficacia curativa e preventiva di farmaci in grado di bloccare la formazione di βA.

Il processo che dal precursore APP (amyloid-beta precursor protein) virtualmente in tutte le cellule porta alla formazione dei peptidi β-amiloidi (39-43 residui aminoacidici), i più lunghi dei quali (βA) tendono maggiormente ad aggregarsi, si è rivelato parte di una via di segnalazione. Le tappe fondamentali per la sintesi di βA sono catalizzate da due enzimi: β-secretasi e γ-secretasi.

La β-secretasi, individuata nel 1999 da cinque diversi gruppi di ricerca, appartiene alla famiglia delle aspartil-proteasi, enzimi che impiegano per la propria azione due residui di acido aspartico ed acqua. A questo subset di proteasi appartiene anche l’enzima implicato nella replicazione del virus HIV che causa l’AIDS. Gli inibitori della β-secretasi noti non sono adatti alla sperimentazione clinica, infatti le molecole fino ad oggi valutate non erano tanto piccole da attraversare efficacemente la barriera emato-encefalica.

La γ-secretasi è considerata l’enzima capostipite di una nuova classe di proteasi che trattengono acqua nella membrana cellulare per svolgere l’azione enzimatica. I geni presenilina 1 e 2, identificati dal gruppo di Peter St. George-Hyslop come responsabili di gravi forme della malattia ad insorgenza precoce, codificano per un costituente della γ-secretasi.

Gli inibitori di questo enzima sono piccole molecole in grado di attraversare agevolmente la barriera emato-encefalica, tuttavia nella maggior parte dei casi non sono impiegabili a scopo terapeutico per gli effetti dannosi che produrrebbero. Infatti, l’inibizione della γ-secretasi blocca la sua azione sul recettore Notch, una proteina di superficie che genera un frammento endocellulare che si dirige verso il nucleo al quale invia un segnale specifico. La via di segnalazione di Notch, oggetto di intensi studi, si sta rivelando di grande importanza nell’arco di tutta la vita del neurone. Da notare che uno di questi inibitori, potenzialmente nocivi per gli effetti di blocco della segnalazione mediata dal recettore Notch, è stato prodotto dalla Eli Lilly ed è giunto alla seconda fase di sperimentazione clinica. In altre parole, la molecola ha superato i tests generici sui volontari (Phase I clinical trials) ed ora ne è stata avviata la sperimentazione in pazienti con malattia di Alzheimer in fase iniziale (Phase II clinical trials).

Più opportunamente si è cercato di individuare molecole che interferiscono con la γ-secretasi non legandosi ai residui di acido aspartico necessari per l’azione su Notch, ma formando un legame con un sito diverso e determinando un cambiamento di conformazione in grado di prevenire la catalisi necessaria per la sintesi di βA.

Altri inibitori della γ-secretasi in sperimentazione, sembrano in grado di spostare la produzione dai frammenti peptidici più amiloidogenici (42-43 residui aminoacidici) a quelli che lo sono di meno (40 residui). Uno di questi farmaci, il Flurizan, è attualmente somministrato ad oltre 1000 pazienti inclusi nella III fase di sperimentazione clinica negli USA.

L’immunizzazione attiva, che aveva fatto tanto sperare per i risultati ottenuti sui modelli murini e per l’iniziale successo della sperimentazione umana, è stata quasi del tutto abbandonata dopo i numerosi casi di encefalite che imposero la sospensione dello studio clinico nel 2002. Secondo uno studio retrospettivo, l’imprevisto sviluppo della grave infiammazione dell’encefalo sarebbe stato innescato da una intensissima risposta dei linfociti T nell’attacco agli aggregati di βA. Alcuni studiosi, fra cui Cynthia Lemere, continuano a percorrere questa via, impiegando solo parti del peptide che sembrano in grado di attivare una risposta delle cellule B senza evocare la pericolosa reazione dei linfociti T. Questi tentativi sono però considerati con prudenza e scetticismo dalla maggior parte dei ricercatori.

L’immunizzazione passiva è invece di grande attualità ed il trattamento in grado di conferirla, realizzato dalla Elan Corporation, è giunto alla II fase di sperimentazione clinica. Gli anticorpi sono prodotti da cellule di topo geneticamente ingegnerizzate per prevenire il rigetto da parte dell’organismo umano, e sembra che non inneschino, da parte delle cellule-T, risposte nocive per l’encefalo. Tuttavia la reale efficacia terapeutica dell’immunizzazione passiva è ancora controversa. Si nota, ad esempio, che l’attraversamento della barriera emato-encefalica da parte degli anticorpi è apparso molto problematico in vari esperimenti e gli effetti dell’immunizzazione passiva riscontrati in alcune ricerche potrebbero essere la conseguenza di un processo indiretto. L’azione degli anticorpi contro i peptidi βA presenti diffusamente nell’organismo ne causerebbe una forte riduzione periferica, che indurrebbe il cervello a mobilizzare dalla placche i suoi peptidi in eccesso inviandoli alla periferia. Se tale è il meccanismo operante, l’immunizzazione passiva agirebbe, in qualche modo, alterando un equilibrio fisiologico.

Gli eparino-inibitori. L’eparina è un eteropolisaccaride a struttura octaciclica che svolge nel sangue la funzione di anticoagulante naturale, ma che è anche in grado di legarsi ai peptidi βA aumentandone criticamente la capacità di aggregarsi e formare depositi di amiloide. Il contrasto dell’azione eparinica sembra avere un buon effetto sulla riduzione delle placche. L’Alzhemed, prodotto dalla Neurochem in Quebec, è una piccola molecola in grado di legarsi su βA agli stessi siti dell’eparina, prevenendone l’effetto aggregante. Alcuni chiamano eparino-mimetico questo farmaco, ma la definizione non è corretta perché, considerando il meccanismo d’azione, si dovrebbe, al più, parlare di inibitore competitivo. L’Alzhemed sembra avere scarsa o nulla tossicità ed è giunto alla III fase di sperimentazione clinica. Per ciò che riguarda l’entità dell’efficacia valgono le riserve espresse per gli anticolesterolemici (v. dopo).

Gli inibitori delle chinasi. Sono stati deludenti, finora, i tentativi di prevenire la distorsione delle strutture neurofibrillari dei neuroni bloccando le chinasi che iper-fosforilano la proteina tau.

I farmaci anticolesterolemici, come la statina Lipitor, sono giunti nella terza fase di sperimentazione e, sebbene abbiano dimostrato una certa efficacia nel ridurre la formazione di depositi amiloidi, il loro meccanismo d’azione è ignoto e l’efficacia sulla malattia di Alzheimer ancora molto dubbia. In generale, si può osservare che il problema fondamentale nel declino cognitivo non è costituito dalla formazione delle placche, ma dalla degenerazione e dalla morte dei neuroni, conseguenza di molti eventi e non solo del formarsi dei depositi di amiloide.

Infine, non si può non menzionare il promettente tentativo di terapia cellulare che Mark Tuszynski dell’Università della California a San Diego ha sperimentato su alcuni volontari in una fase non avanzata della malattia. Dopo aver prelevato cellule dalle biopsie cutanee, vi ha inserito il gene codificante l’NGF; ha poi introdotto queste cellule geneticamente modificate nel proencefalo degli stessi pazienti, con il risultato di un marcato rallentamento del declino cognitivo. Anche se questo studio, per il basso numero dei soggetti trattati e la mancanza di adeguati controlli, non può ritenersi molto significativo, il suo buon esito ha incoraggiato l’avvio di nuovi progetti di terapia cellulare con protocolli più esigenti, che consentono di nutrire qualche speranza per il futuro.

 

L’autrice della nota ringrazia Giuseppe Perrella, la cui relazione all’incontro di aggiornamento dell’8 giugno 2006 ha costituito la base di questo testo, e Isabella Floriani per la correzione della bozza. L’autrice si assume la responsabilità delle opinioni espresse.

 

Nicole Cardon

BM&L-Giugno 2006

www.brainmindlife.org

 

 

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ALZHEIMER: INDIVIDUATO PROCESSO NEI DISTURBI DI MEMORIA PRECOCI

 

 

Le placche extracellulari e la degenerazione neurofibrillare della malattia di Alzheimer sono gli elementi distintivi di un processo inesorabilmente progressivo, che porta al declino di tutte le facoltà cognitive per la perdita di neuroni. I gravi disturbi della memoria si spiegano su questa base, tuttavia è noto che alterazioni minori, indistinguibili da quelle presenti nell’involuzione senile fisiologica, precedono per un lungo periodo l’istaurarsi di sintomi più gravi. E’ stato ipotizzato che questo lieve deficit di memoria, peraltro efficacemente trattato mediante esercizio cognitivo assistito da computer, fosse da ascriversi a modificazioni dell’attività sinaptica, piuttosto che a perdita di cellule nervose. In vero, l’esatto meccanismo patogenetico di questa dismnesia prodromica non è noto, ma è oggetto di numerosi studi condotti su modelli animali della malattia.

Lesné e collaboratori hanno identificato in modelli murini un processo che potrebbe spiegare le ridotte prestazioni cognitive non rapidamente ingravescenti come quelle dovute alla progressiva perdita del patrimonio neuronico (A specific amyloid-β protein assembly in the brain impairs memory. Nature 440, 352-357, 2006).

I topi Tg2576 che esprimono un mutante del precursore umano del peptide beta-amiloide (βA), intorno ai sei mesi di vita (corrispondenti alla “mezza età” umana), sviluppano deficit di memoria senza perdita di neuroni. Dopo questo declino iniziale, la funzione mnemonica rimane stabile per 7-8 mesi, prima di un ulteriore declino.

Numerose evidenze indicano la responsabilità del peptide βA nel primo manifestarsi del deficit, tuttavia i livelli di questa molecola presentano un pattern di incremento crescente con l’età, che contrasta con i 7-8 mesi di stabilità delle prestazioni. Per spiegare quest’apparente incongruenza, gli autori hanno ipotizzato la formazione di oligomeri del peptide βA, che sarebbe stato possibile rilevare nei topi Tg2576 a partire dai sei mesi di vita, e il cui tasso sarebbe rimasto stabile durante l’età media.

L’immunoblotting di estratti di proteine extracellulari ottenuti da topi di 6 mesi, ha dimostrato la presenza delle specie oligomeriche postulate:

 

1) monomeri del peptide βA del peso molecolare di 4 kDa,

2) trimeri del peptide βA del peso molecolare di 14 kDa,

3) esameri del peptide βA del peso molecolare di 27 kDa,

4) nonameri del peptide βA del peso molecolare di 40 kDa,

5) dodecameri del peptide βA del peso molecolare di 56 kDa.

 

Tutti questi oligomeri erano resistenti alla denaturazione con SDS/urea (un comune denaturante delle proteine globulari) e per effetto di concentrazioni crescenti di esa-fluoro-isopropanolo (un solvente che rompe i legami H) si dissociavano in monomeri, confermando la loro natura di “multipli” dello stesso peptide.

L’assemblaggio dodecamerico di 56 kDa, che gli autori hanno siglato Aβ*56, appare per la prima volta a 6 mesi di età e rimane stabile durante l’età media dei topi Tg2576, indicando che i suoi livelli sono correlati inversamente con il deficit di memoria.

Per studiare il ruolo causale di Aβ*56 nella perdita di memoria, gli autori hanno purificato questo assemblaggio fino all’omogeneità e lo hanno iniettato nei ventricoli laterali di giovani ratti che, successivamente, sono stati sottoposti a prove di apprendimento e memoria spaziale. L’iniezione del dodecamero beta-amiloide sembrava aver compromesso la memoria spaziale di lungo termine, pur lasciando intatta la capacità di acquisire nuove informazioni spaziali. In altre parole, i topi con depositi di oligomeri cerebrali avevano le stesse capacità di apprendimento del gruppo di controllo, rispetto al quale evidenziavano solo un deficit della memoria pregressa. Il re-testing di tutti i topi dopo 10 giorni, senza ulteriori iniezioni, non mostrava più le differenze osservate alla prima prova: il difetto di memoria spaziale di lungo termine nei topi cui era stata somministrata Aβ*56 non era più apprezzabile.

Questi risultati depongono per un ruolo determinante dell’Aβ*56 nel causare il deficit di memoria indipendente dalla formazione di placche o dalla perdita di cellule nervose, nei topi Tg2576.

Se questi risultati saranno confermati, si dovrà cercare di stabilire quali effetti possono avere gli altri oligomeri del peptide beta-amiloide e, cosa senz’altro molto impegnativa, si dovrà individuare il meccanismo con cui Aβ*56 disturba la funzione sinaptica.

E’ perfino superfluo sottolineare che l’individuazione di un equivalente umano dell’ Aβ*56 fornirebbe un potenziale bersaglio per la sperimentazione di farmaci diretti al miglioramento dei disturbi di memoria che a lungo precedono i sintomi della fase avanzata di questa grave malattia neurodegenerativa.

 

L’autrice della nota ha discusso l’argomento con Nicole Cardon e si è avvalsa della collaborazione di Isabella Floriani.

 

Diane Richmond

BM&L-Maggio 2006

www.brainmindlife.org

 

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UN NUOVO ELEMENTO NELLA PATOGENESI DELL’ALZHEIMER

 

 

Nella complessa patogenesi della malattia di Alzheimer, Zhao e i suoi collaboratori hanno identificato una nuova componente che potrebbe divenire bersaglio di un’azione farmacologica volta a ridurre il deficit cognitivo (Role of p21-activated kinase pathway defects in the cognitive deficits of Alzheimer disease. Nature Neuroscience 9,  234-242, 2006).

Una perdita di attività della via delle chinasi p21-attivate (PAK) è stata rilevata nel cervello di pazienti affetti da malattia di Alzheimer ed è stata messa in relazione con eventi patogenetici noti quali il deficit di spine dendritiche alla base della riduzione di attività dei circuiti che garantiscono l’efficienza di strumentalità cognitive.

Le PAK sono dei regolatori del citoscheletro actinico che, nelle cellule nervose,   svolgono un ruolo importante nei processi di morfogenesi delle spine dendritiche. E’ noto che la mutazione di Pak3 causa nel topo un ritardo mentale aspecifico legato al cromosoma X, e che le alterazioni delle PAK inducono difetti delle spine dendritiche con conseguente deficit cognitivo.

La segnalazione PAK inattiva la cofilina -la quale destabilizza le interazioni fra le subunità actiniche- inducendone il distacco dall’actina. Questo consente alla drebrina di legarsi all’actina e regolarla nelle spine dendritiche. Mancando l’inattivazione della cofilina, nei neuroni si formano delle inclusioni caratteristiche della malattia di Alzheimer.

Il gruppo di ricerca di Zhao ha dimostrato che i livelli di PAK solubile sono significativamente ridotti nei pazienti alzheimeriani e che le PAK fosforilate si ridistribuiscono in ammassi granulari e fibrillari, suggerendo un legame fra la perdita dell’attività delle PAK e 1) l’aggregazione di cofilina, 2) la perdita di drebrina e 3) i difetti sinaptici descritti nella malattia di Alzheimer. Questi stessi elementi sono stati osservati anche in un modello sperimentale della malattia, un topo transgenico che produce alti livelli di peptide ß-amiloide.

Infine, nel topo adulto sano, l’inibizione farmacologica delle PAK riproduce molti elementi caratteristici della fisiopatologia della malattia di Alzheimer.

Se questi dati saranno confermati, la sperimentazione terapeutica potrà considerare le PAK e i loro effettori come potenziali bersagli di molecole da testare per lo sviluppo di una terapia di questa terribile malattia neurodegenerativa.

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-Marzo 2006

www.brainmindlife.org

 

 

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Concludendo questa introduzione voglio ringraziare tutti i partecipanti, soprattutto coloro che, non essendo membri della nostra Società, hanno voluto generosamente fornire materiali scientifici, bibliografie, resoconti di ricerche non ancora pubblicate e materiale audiovisivo originale; voglio, inoltre, ringraziare in anticipo coloro che registrano e trascriveranno il question time e le discussioni che seguiranno le presentazioni.

 

Giovanni Rossi

BM&L-Giugno 2006

www.brainmindlife.org