L’ALTRUISMO PARROCCHIALE FALSA IL GIUDIZIO

 

 

Helen Bernhard, bionda dagli occhi intelligenti e dal sorriso accattivante, è cresciuta a Papua Nuova Guinea dove ha vissuto per 16 anni, perciò non ha incontrato difficoltà a farsi accettare dalla popolazione indigena, quando è tornata nella più grande isola del Pacifico come ricercatrice dell’Università di Zurigo, per studiare l’influenza sul giudizio umano di quella forma di altruismo limitato ad un gruppo di appartenenza, che in inglese si definisce parochial altruism.

La traduzione ad orecchio “altruismo parrocchiale”, proposta nel titolo perché entrata nel gergo delle scienze sociali in Italia, non è corretta. Parochial, in senso figurato, si riferisce a qualcosa di limitato nel suo raggio di interesse o negli obiettivi; una traduzione italiana appropriata di parochial altruism potrebbe essere “altruismo ristretto”, per sottolineare che, pur trattandosi di un atteggiamento non egoistico ma volto a favorire o a preferire qualcuno diverso da sé, rimane circoscritto a persone che sono percepite dal soggetto come appartenenti ad un insieme umano cui egli stesso sente o sa di appartenere. In termini psicologici si può dire che l’altruismo ristretto si esercita all’interno di un “gruppo di identificazione”.

Perché si determini un sentimento di appartenenza ad un gruppo, la mediazione culturale è di fondamentale importanza, ma sono molti i fattori che entrano in gioco nel determinare il riconoscimento, la scelta e l’adozione delle ragioni dell’appartenenza. Nella realtà complessa delle società occidentali, i gruppi di identificazione possibili sono numerosi e si presentano come insiemi vari ed interferenti, per le ragioni stesse in base alle quali si costituiscono: il legame di parentela, la religione, la lingua, la squadra di calcio, il partito politico, l’area geografica di provenienza, l’attività lavorativa, la fascia d’età, il sesso, le abitudini di vita, e così via. Le nostre società multi-etniche e multi-culturali possono talvolta apparire come un intricato puzzle, soprattutto al confronto con la realtà della Nuova Guinea, in cui piccoli gruppi di indigeni, caratterizzati da forti e coese identità e governati da norme semplici e distinte, sembrano costituire un laboratorio vivente di studi sociali.

Helen Bernhard e i suoi colleghi Fischbacher e Fehr dell’Institute for Empirical Research in Economics dell’Università di Zurigo, hanno cercato di stabilire quanto il giudizio di comportamento altruistico, come la leale spartizione del cibo, dipendesse dall’affiliazione ad un gruppo (Helen Bernhard, Urs Fischbacher & Ernst Fehr, Parochial altruism in humans. Nature 442, 912-915, 2006).

I tre ricercatori hanno allestito una serie di giochi secondo il collaudato schema del third party punishment game (un giudice “terzo” fra le parti ha facoltà di punire chi è sleale) in cui si fronteggiavano due gruppi ben caratterizzati di indigeni, per un totale di 195 partecipanti. Al test-tipo (game) prendevano parte in tre: il primo, ad esempio, era incaricato di ripartire equamente una somma di danaro fra sé e il secondo partecipante; il terzo doveva giudicare la lealtà della transazione ed aveva la facoltà di punire il primo giocatore per comportamento scorretto. Lo scopo, naturalmente, non era tanto quello di giudicare il primo giocatore, ma il terzo, ossia il giudice. Appartenendo questi, a fasi alterne, ad uno dei due gruppi, era facile verificare se favorisse i membri del proprio gruppo.

La ricerca ha evidenziato una straordinaria importanza dei gruppi di identificazione, rilevando che il partecipante con funzione di giudice favoriva i membri del proprio gruppo anche sostenendo comportamenti sleali. In genere, il “giudice incaricato” tendeva a proteggere la vittima di una violazione delle regole molto più quando apparteneva al proprio gruppo; d’altra parte i violatori della regola, quando appartenevano allo stesso gruppo del giudice, si attendevano da questi un comportamento di favore. Il risultato era che le regole venivano infrante con una frequenza di gran lunga maggiore quando il primo e il terzo giocatore appartenevano allo stesso gruppo.

Se si legge il testo del lavoro non si può non rilevare la correttezza metodologica e il rigore con cui è stato eseguito, tuttavia non possiamo esimerci da alcune osservazioni critiche relative all’oggetto ed allo scopo della ricerca.  

In primo luogo si osserva che l’influenza in qualità di bias dell’appartenenza ad un gruppo etnico, sociale, culturale o politico, era nota fin dall’antichità classica, ed ha ispirato un grande numero di leggi e regolamenti nel corso dei secoli, pertanto non ha forse bisogno di dimostrazione sperimentale.

In secondo luogo si osserva che, se si può riconoscere un’utilità ad uno studio che dimostra la prevalenza dell’interesse derivante dall’appartenenza ad un gruppo di identificazione sull’interesse generale, questa riguarda più la psicologia teorica e meno il diritto o l’economia pratica, che sono già profondamente ispirati alla conoscenza di questa tendenza umana.

In terzo luogo, una condizione specifica e quasi primordiale come quella di Papua Nuova Guinea, appare poco predittiva del comportamento umano nelle società in cui l’economia di mercato trova le sue quotidiane applicazioni. A tale scopo sarebbe molto più stimolante studiare il grado di influenza delle varie appartenenze per ogni tipo di soggetto sociale. Si potrebbe cercare, ad esempio, di costruire delle curve di distribuzione del peso affettivo, ideologico e finanziario dei condizionamenti di appartenenza cui le singole categorie di soggetti sono maggiormente esposti, e studiarle in termini di comparazione ed interferenza. Questo mi sembra un progetto più vicino ad una utilità pratica per un istituto di ricerche economiche, soprattutto se confrontato con la riscoperta dell’ovvio presentata in questo lavoro.

 

L’autrice della nota ringrazia Isabella Floriani per la collaborazione all’estensione del testo e la correzione della bozza.

 

Diane Richmond

BM&L-Ottobre 2006

www.brainmindlife.org