AFFETTO POSITIVO: UNA DEFINIZIONE TROPPO GENERICA

 

 

Il journal club del gruppo di studio di BM&L-Italia sulla psiconeuroimmunologia delle emozioni e dei sentimenti, questa settimana ha affrontato lo spinoso problema del valore della ricerca comparata -ossia basata sul confronto fra la specie umana e quelle animali- nello studio delle emozioni e dei sentimenti.

L’incontro ha preso le mosse dall’ampio spazio dedicato alla recensione critica di una lezione magistrale dal titolo “Positive Psychology: The Science of Happiness”, tenuta da Tal Ben-Shahar presso il Museum of Science di Boston, il mese scorso. L’evento era stato realizzato con cura e presentato in concomitanza della mostra Body Worlds 2. Tuttavia, alle orecchie del pubblico di più solida formazione psicologica e filosofica, così come a quelle della nostra socia Diane Richmond, la trattazione della scienza della felicità al museo di Boston è apparsa, conformemente all’impostazione generale della psicologia positiva che ha tanta presa negli Stati Uniti d’America, una sintesi in chiave pedagogico-demagogica di nozioni eterogenee per origine e metodo, sulla base di riferimenti teorici indeterminati ed oscillanti fra un olismo intuizionista e un comportamentismo inconsapevole e conformista.

Ben-Shahar è psicologo della Harvard University, dove svolge il ruolo di istruttore ad un corso che riscuote un notevole successo di pubblico, ed è l’autore di un libro di diffusione di massa sulla felicità (Tal Ben-Shahar, The Question of Happiness. Writers Club Press, 2002).

La superficialità con la quale è stato trattato l’argomento non ha lasciato spazio, né alla realtà delle differenze individuali, né al problematico rapporto fra conoscenza ed attuazione. D’altra parte la psicologia positiva, anche definita da suoi propugnatori “lo studio scientifico del funzionamento umano ottimale”, si basa su un nucleo di concetti aforistici che, senza i pregi e lo spessore di alcune filosofie antiche, ne ricalca il difetto di attendersi che i principi si incarnino nelle persone rendendole felici, solo perché sono stati da queste ascoltati e compresi.

Considerati i limiti metodologici grossolani e palesi di scuole di psicologia che sorgono presso istituzioni di grande prestigio come l’Università di Harvard, non c’è da essere troppo ottimisti sui contributi che in questa fase storica le scienze psicologiche possono dare alle neuroscienze e, pertanto, si fa ancora più necessario e pressante l’impegno finalizzato a rendere davvero comparabili i risultati della sperimentazione animale con quelli ricavati dallo studio di volontari umani.

In particolare, se l’uso generico ed onnicomprensivo dell’espressione Positive Affect (PA) si giustifica quando si tratti degli inesplorabili sentimenti dei topini di laboratorio, non trova giustificazione nella sperimentazione umana, quando di fatto si include nella stessa categoria il piacere sessuale, l’emozione trascendente per un’esperienza mistica, il gradimento di un cibo e l’esultanza per la vittoria della propria squadra di calcio.

La differenza fra queste esperienze, evidente anche a un fanciullo, ha un suo corrispettivo nei differenti substrati neurali. Bisogna che si creino definiti ponti di collegamento inter-specifici sulla base dei risultati man mano ottenuti, magari creando degli atlanti morfo-funzionali comparati, così che si possano proporre analogie giustificate almeno dalla corrispondenza anatomica e fisiologica di base, se non dalla qualità dell’esperienza.

Giuseppe Perrella e Nicole Cardon sono intervenuti discutendo il concetto di PA nella prospettiva psiconeuroimmunologica, ed hanno illustrato i limiti nell’applicazione di strumenti come la Positive and Negative Affect Schedule e la sub-scala del Profile of Mood States.

 

Isabella Floriani

BM&L-Novembre 2006

www.brainmindlife.org