Notule

 

 

(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XXII – 21 giugno 2025.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: BREVI INFORMAZIONI]

 

Malattia di Alzheimer: benefici cellulari dell’esercizio motorio nel giro dentato dell’ippocampo. Gli effetti protettivi dell’esercizio motorio nei confronti della malattia di Alzheimer sono riconosciuti da tempo, ma il livello cellulare dei processi che consentono questa azione favorevole per il cervello non è stato sufficientemente indagato. Joana F. Da Rocha e colleghi hanno realizzato un sequenziamento RNA da singolo nucleo per identificare la risposta all’attività motoria, nella nicchia di cellule staminali neurogeniche del giro dentato dell’ippocampo. Nei modelli sperimentali della patologia, l’esercizio ristabiliva il profilo normale di espressione di numerosi geni alterati nella malattia di Alzheimer.

Ricordiamo che la neurogenesi nel giro dentato dell’ippocampo adulto è di cruciale importanza per l’apprendimento e per una funzione ottimale dei processi di memoria.

I ricercatori hanno scoperto anche una specifica sub-popolazione di astrociti associata ai vasi, che è ridotta nella malattia e la cui espressione genica caratteristica è promossa dall’esercizio motorio. Gli oligodendrociti sono le cellule maggiormente beneficiate dall’esercizio fisico nel recupero dell’espressione genica fisiologica. [Cfr. Nature Neuroscience – AOP doi: 10.1038/s41593-025-01971-w, 2025].

 

Malattia di Alzheimer: rivelata una vulnerabilità dell’interfaccia mielina-assone. Yifei Cai e colleghi, studiando mediante la proteomica subcellulare e metodiche di imaging il cervello umano affetto da malattia di Alzheimer e quello murino dei modelli sperimentali della neurodegenerazione, hanno rilevato e dimostrato che l’interfaccia mielina-assone costituisce un sito specifico e critico per l’aggregazione delle proteine patologiche e per il determinarsi della perturbazione della segnalazione neuroni-glia tipica della malattia di Alzheimer. [Cfr. Nature Neuroscience – AOP doi: 10.1038/s41593-025-01973-8, 2025].

 

Disturbo Ossessivo-Compulsivo (OCD): identificate rare CNV causali in età pediatrica. Thomas Fernandez, Sarah B. Abdallah e colleghi hanno esaminato rare varianti (CNV, da copy number variants) de novo usando il sequenziamento dell’intero esoma (WES) di 183 trii familiari (genitori non affetti e figlio affetto) e 771 famiglie di controllo per verificare l’ipotesi di rare varianti CNV nel disturbo OCD dell’età pediatrica. I risultati mostrano per la prima volta un arricchimento di rare CNV nel disturbo e forniscono nuove conoscenze sui fattori genetici responsabili della sindrome psichiatrica. [Cfr. Child & Adolescent Psychiatry – AOP doi: 10.1016/j.jaac.2025.03.014, 2025].

 

Effetti negativi della luce protratta di notte sull’umore di un animale vicino ai primati. Ying Miao e colleghi hanno sperimentato gli effetti dell’illuminazione protratta durante la notte (LAN) – come quella che si ha quando si lavora a turni o si trascorre la notte intera in locali illuminati – in un animale arboricolo che assomiglia allo scoiattolo (Tupaia belangeri chinensis) ma è biologicamente prossimo ai primati, e per questo con caratteristiche morfo-funzionali del cervello più vicine a quelle del nostro, rispetto ai roditori di laboratorio. Gli effetti negativi della LAN sul cervello e sul comportamento dell’animale sono mediati da una via visiva, che origina con proiezioni della retina al nucleo para-abenulare, e poi continua innervando il nucleo accumbens. L’identificazione di questa base neurobiologica va accostata alle nozioni che stanno componendo il mosaico dei circuiti responsabili nell’uomo degli effetti della luce diurna sul tono dell’umore e sulla fisiologia psichica più in generale. [Cfr. PNAS USA 122 (23): e2411280122, 2025].

 

Malattia di Parkinson: diagnosi dal cerume dell’orecchio contenente biomarkers. Quattro composti contenuti nel cerume auricolare differiscono in modo specifico nella malattia di Parkinson: i quattro composti sono stati identificati da Danhua Zhu e colleghi come marker specifici della malattia; i ricercatori hanno impiegato un sistema olfattorio di intelligenza artificiale (AI) che ha dimostrato una precisione del 94% nel riconoscere e distinguere i campioni prelevati da ammalati di Parkinson da quelli di persone sane. I risultati sono tali da suggerire la messa a punto di un nuovo test diagnostico non invasivo: il cerume auricolare è una fonte stabile e protetta di biomarker del sebo, e potrebbe costituire un mezzo affidabile a tal fine. [Cfr. Analytical Chemistry – AOP doi: 10.1021/acs.analchem.5c00908, 2025].

 

Disturbo Bipolare: il microbioma intestinale influenza la risposta ai farmaci. Un nuovo studio condotto da An Bui e colleghi ha realizzato una meta-analisi di 12 importanti studi, in cui è stato comparato il microbioma intestinale di individui affetti da disturbo bipolare sottoposti a trattamento farmacologico con il microbioma di affetti ma non trattati e di persone prive di disturbi psichici. Ecco i risultati in sintesi: 1) i pazienti che miglioravano con il trattamento farmacologico avevano un profilo microbico simile a quello delle persone sane, che può dunque considerarsi un “predittore microbico”; 2) l’asse intestino-cervello sembra influenzare sia gli effetti dei farmaci sia la regolazione del tono dell’umore; 3) vi sono elementi per concepire e sperimentare un trattamento personalizzato del disturbo bipolare basato sul microbioma intestinale. [Cfr. Microbiology 171, 6 – Epub ahead of print, 18 June 2025].

 

Intelligenza dei corvidi: un seminario di aggiornamento presso la nostra società scientifica. Nelle nostre “Notule” degli anni recenti si possono leggere, fra gli aggiornamenti di ricerca sull’intelligenza aviaria, tanti casi in cui i protagonisti sono corvidi, oggi ricordiamo alcuni fatti e nozioni di attualità in questo campo della ricerca, che hanno contribuito a stimolare la richiesta di questo aggiornamento.

Ricordiamo che i termini “crow” e “raven”, spesso erroneamente tradotti in italiano entrambi con la parola “corvo”, sono convenzionalmente così impiegati nelle trattazioni scientifiche internazionali: crow indica i corvidi in generale, le cornacchie, le ghiandaie e così via, mentre raven denomina specificamente il corvo.

I corvidi sono stati fra i primi uccelli studiati nella loro capacità di usare strumenti quali mezzi necessari al compimento di azioni finalizzate. È stato riconosciuto e descritto un gruppo di corvidi dedicato all’assassinio, denominato “murder”. Fra i corvidi, capaci di imparare e usare molte parole delle lingue umane, è stata scoperta una caratteristica vocale straordinaria: le loro espressioni modulate sono un po’ come l’esecuzione locutoria di una lingua, ossia il parlare umano; e come noi abbiamo accenti differenti a seconda della provenienza territoriale, così questi uccelli hanno un “accento regionale”. Quello che più stupisce e incuriosisce e che un corvo estraneo, che voglia entrare in un gruppo di conspecifici di una diversa regione o territorio, tenderà ad imitare l’accento dei suoi nuovi “amici” per farsi accettare, rinunciando alla sua abitudine fonatoria.

Fra i comportamenti videoregistrati dei corvidi di città che hanno suscitato più scalpore, ve n’è uno veramente impressionante: questi volatili portano nocciole dal guscio resistente nel mezzo della via, poi aspettano che passino le macchine e le schiaccino sotto le ruote, facendo scoppiare i gusci, e subito dopo vanno a mangiare i frutti secchi sgusciati da questi schiaccianoci sui generis.

Abili nel problem-solving e nella comunicazione, anche inter-specie, i corvidi possono riconoscere un grande numero di persone, ricordano perfettamente le fisionomie e associano a un viso umano elementi positivi o negativi: non solo riconoscono ed evitano gli “antipatici”, ma trasmettono l’informazione circa l’antipatia ai membri del loro gruppo sociale, che poi si comportano di conseguenza.

Un aspetto molto suggestivo del comportamento di questi uccelli è di carattere affettivo: quando uno del gruppo muore, tutti gli altri si raccolgono intorno come colpiti da cordoglio, in un modo che ha indotto gli etologi a parlare di “funerale”. Un comportamento che, in chiave evoluzionistica, è considerato selettivamente vantaggioso, in quanto interpretato come un modo per conoscere la causa della morte dell’appartenente al gruppo ed evitarla.

Per quanto riguarda l’intelligenza, sono note le abilità aritmetiche, fra cui la capacità di contare ad alta voce (non solo ripetere i nomi dei numeri), e quella di comprendere il valore nullo dello zero nella computazione: cosa che in un modo suggestivo viene resa dall’espressione “hanno il concetto di zero”, che può far pensare erroneamente al grado umano di astrazione concettuale legato a questo simbolo. Per varie prestazioni cognitive il loro livello di resa è stato paragonato a quello di bambini di 2-3 anni; in alcuni compiti sperimentali hanno effettivamente superato le scimmie. Centinaia di ripetizioni degli esperimenti da parte di gruppi di ricerca diversi, in tutto il mondo, hanno confermato questi risultati.

Di recente abbiamo pubblicato nelle “Notule” un’importante scoperta paleozoologica che ci consente di trovare una ragione in termini evoluzionistici a queste prestazioni cognitive delle specie aviarie: i progenitori ancestrali dei moderni uccelli, per lunghe ere remote, hanno vissuto prevalentemente al suolo in competizione con varie specie di mammiferi. [BM&L-Italia, giugno-luglio 2025].

 

Cosa rende unica la specie umana? Scoperta una variante genica dal ruolo chiave. Nelle “Notule” dello scorso 31 maggio abbiamo trattato del nucleo cerebrale dell’unicità umana (v. Note e Notizie 31-05-25 Cosa rende unica la nostra specie: le neuroscienze hanno la risposta ma molti ancora la ignorano), ma la biologia evoluzionistica continua a considerare con molto interesse anche altri tratti, meno esclusivi e non da primato, come la nostra corteccia cerebrale e le nostre abilità cognitive, ma che hanno determinato la nostra distinzione dagli altri primati. Si tratta, pertanto, di caratteri definiti in termini relativi e non assoluti: importanti nel segnare differenze anatomiche e fisiologiche con le grandi scimmie. Due di questi tratti sono la maggiore altezza e il più alto livello di metabolismo basale: è stata scoperta un’antica variante genica che ha contribuito alla co-evoluzione di questi due tratti.

Yufeng Zhang e colleghi hanno identificato una variante regolatoria del gene ACSF3, denominata rs34590044-A e in grado di elevare l’espressione di ACSF3 nel fegato umano a livelli di molto superiori a quelli rilevati negli altri primati. Questa variante regolatoria contribuisce a far crescere in altezza soprattutto se si ha la carne per base alimentare. La selezione di questa variante è messa in relazione con il passaggio da una dieta quasi esclusivamente costituita da vegetali a una dieta ricca di proteine della carne animale e della polpa di pesce e molluschi. [Cfr. Cell Genomics – AOP doi: 10.1016/j.xgen.2025.100855, 2025].

 

Non è vero che la lebbra è stata portata in America dall’Europa: la scoperta in un nuovo studio. I numerosi studi multidisciplinari che hanno visto negli ultimi decenni collaborazioni straordinarie fra istituiti e laboratori di discipline storiche, antropologie e biologiche, hanno confermato e rafforzato la convinzione della necessità di impiegare le risorse dell’interdisciplinarietà per correggere errori e, soprattutto, per superare i limiti delle discipline isolate e giungere a nuove e più precise conoscenze. Uno dei limiti delle discipline umanistiche di carattere storico consiste nel fatto che un’idea plausibile, formulata come ipotesi e mai smentita per secoli, possa essere considerata alla pari di un fatto. È questo il caso della nozione secondo cui la lebbra sarebbe stata portata da conquistatori e colonizzatori europei in America, dopo la scoperta del continente da parte di Cristoforo Colombo nel 1492.

Un nuovo studio, avviato sulla base di un progetto dell’Istituto Pasteur (Parigi), del CNRS, della University of Colorado, in collaborazione con numerose istituzioni europee e americane, ha smentito questa nozione storica, dimostrando che l’infezione era diffusa da molti secoli prima dell’arrivo degli Europei. I dubbi erano già nati nel 2008, quando si scoprì l’esistenza di Micobacterium lepromatosis, identificato per la prima volta in un paziente messicano, e poi nel 2016, quando lo stesso micobatterio fu isolato nello scoiattolo rosso delle British Isles.

Ricordiamo che l’agente eziologico della lebbra, considerato fino a tempi recenti pressoché unico responsabile della malattia, è Micobacterium leprae, che causa in tutto il mondo 200.000 nuovi casi accertati ogni anno. Sebbene il M. leprae portato dagli Europei rimanga il batterio principale per numero di casi, lo studio ha focalizzato l’attenzione su Micobacterium lepromatosis, giungendo a scoprire una realtà mai prefigurata prima. Un ruolo chiave lo ha avuto il Laboratorio di Paleogenomica dell’Istituto Pasteur, che ha diretto oltre 40 ricercatori provenienti da istituzioni internazionali e includenti genetisti, archeologi, antropologi e storici, in collaborazione con Comunità Indigene Americane, in una ricerca che ha analizzato circa 800 campioni di DNA, provenienti da una gamma di soggetti che va da casi clinici di lebbra diagnosticati di recente a corpi umani rinvenuti in scavi archeologici.

I risultati confermano in modo inoppugnabile che M. lepromatosis con la sua virulenza (capacità di moltiplicazione in vivo) e patogenicità (potere di indurre le lesioni caratteristiche) era estesamente diffuso nel Nord America e nel Sud America molti secoli prima dell’arrivo di M. leprae portato dagli Europei, e hanno anche focalizzato l’attenzione sulla diversità genetica dei micobatteri patogeni e su numerosi aspetti rilevanti per la diagnosi precoce, che ancora non sono contemplati nei protocolli clinici. [Cfr. Science – AOP doi: 10.1126/science.adu7144, 2025].

 

Il mistero del tesoro di Nagy-Szent-Miklos del Regno di Ungheria si infittisce, ma una traccia scritta, che sembrava poter aprire uno spiraglio, ora sembra complicare ulteriormente il quadro. Il nucleo principale del tesoro è costituito da 23 splendidi vasi d’oro massiccio di circa 10 kg di peso risalenti all’Alto Medioevo, ritrovati nel 1799 nella località Nagy-Szent-Miklos (“Grande San Nicola”) appartenente a quel tempo al Regno di Ungheria, ma che oggi è Sannicolau Mare in Romania.

Subito dopo il rinvenimento, il tesoro fu trasferito a Vienna, la capitale dinastica della Monarchia degli Asburgo, e fin da allora è considerato proprietà del Museo di Storia delle Belle Arti di Vienna, uno dei più importanti musei d’arte del mondo, che lo espone in mostra permanente. In attesa di risolvere i problemi relativi alla provenienza, al valore simbolico e al significato storico delle singole opere d’arte che costituiscono il tesoro, dal 2008 è in corso una battaglia per il diritto di proprietà: la Romania ha ufficialmente chiesto all’Austria la restituzione, ma l’obiezione austriaca, sostenuta da molti studiosi anche italiani, è che all’epoca del ritrovamento il territorio in cui sono state rinvenute le opere orafe era austro-ungarico.

Intanto è stata sviluppata, a suon di saggi, convegni e conferenze, una tesi fondata e rispettabilissima a proposito del ruolo di quelle opere nella ricostruzione dell’identità storica del popolo precursore dei moderni ungheresi. In particolare, si tratterebbe del rinvenimento delle prime tracce di valori artistici e culturali presso gli Unni, quei sanguinari barbari massacratori di gente inerme e indifesa, incendiari distruttori di vegetazione, animali, villaggi e città, tenuti in gran dispregio dai Romani che, al contrario, avevano costruito il loro diritto sui valori dell’umanesimo greco e sull’onore del rispetto delle donne, dei civili, degli anziani e dei bambini. Gli Unni, nella massima espansione del loro impero, che includeva gli Ostrogoti e altre quattro etnie dell’Europa, non erano solo dei bruti razziatori e predatori, ma annoveravano nelle loro fila di perenni guerrieri, anche artigiani e artisti capaci – a quanto pare – di realizzare opere quali quelle del tesoro.

Gli studiosi ungheresi del popolo loro precursore hanno soffermato l’attenzione sul “Vaso di Attila”: una delle coppe d’oro, caratterizzata dalla rappresentazione di una testa di toro volta verso l’interno della coppa, che sarebbe appartenuta al condottiero soprannominato il “Flagello di Dio”. Addirittura, il tesoro è stato proposto quale “icona del nazionalismo ungherese”.

Ma queste attribuzioni sono fortemente contestate da altri studiosi. Perché, se nel pezzo dedicato alla figura del “Principe vincitore” è raffigurata la scena di un uomo che trascina per i capelli un prigioniero, in perfetto costume barbaro, è pur vero che simili rappresentazioni avevano antecedenti presso popoli bulgari e russi. Poi, la rigorosa analisi artistica dei reperti ha rinvenuto e classificato influenze stilistiche dell’Asia Centrale, dell’arte persiana-sassanide e bizantina. Per molti esperti è improbabile che gli autori fossero di origine unna. Scontato che sulle opere vi sono stati interventi in epoche diverse e che per questioni tecniche la precisa datazione degli interventi presenta non pochi problemi, si è passati all’analisi linguistica delle iscrizioni. E su questo punto è stata chiesta l’opinione di alcuni nostri soci, che si sono dedicati per interesse personale a questi studi[1].

Tralasciando per ovvi motivi le iscrizioni in greco, ci siamo occupati della scrittura runica ungherese presente su un’opera. Si tratta di una forma scritta che è conosciuta dagli studiosi del settore col nome di rovasiras, che letteralmente vuol dire “scrittura intagliata”, perché i primi esemplari rinvenuti erano incisioni nel legno. Ma, l’attesa per messaggi in ungherese, ugrofinnico o forme medievali della lingua dei popoli d’Ungheria, è stata subito delusa: le rune in cui erano incise le parole non avevano alcun senso. Era come se con quella forma di scrittura fosse stato rappresentato un altro codice, ossia un’altra lingua.

A questo punto è necessaria una breve spiegazione sulla scrittura runica: “Su tutta l’area di influenza germanica, dalla Scandinavia al bacino del Danubio, al Reno e alle isole britanniche, è stato a lungo usato (fino al sec. XVII) un sistema di scrittura di ventiquattro o in qualche caso trentatré segni, detti rune, incisi su pietra o osso, su stele, oggetti, armi, per notare varie lingue germaniche. Il nome di runa sembra significasse «mistero»: in gotico, la parola runa vale «mistero» e «decisione» giacché i Germani, come sappiamo anche da Tacito (Germania 10, 11), usavano affidarsi alla consultazione delle rune quando si trattava di prendere decisioni importanti. […] Con la diffusione del Cristianesimo ad opera di Ulfila, l’area di uso delle rune, legate alla religione germanica, si restrinse; esse rimasero nell’uso nelle zone più settentrionali, nella Scandinavia (dove sono ben 2500 iscrizioni runiche) e in area anglosassone”[2].

Dunque, le rune dell’iscrizione del tesoro sembrano veramente un mistero, perché non codificano le parole di un idioma parlato dagli Ungheresi o dai loro progenitori etnici, ma quelle di una lingua che non è stato difficile riconoscere: il turco. Si tratta di una forma antica di turco, nota agli studiosi di iscrizioni. In effetti: “I Magiari hanno adoperato una scrittura runica di tipo turco prima della conversione al Cristianesimo”[3]. Ma qui si tratta della lingua turca scritta in rune. Non è superfluo osservare che il turco, lingua ufficiale dell’Impero Ottomano, è una lingua di presunta ma non dimostrata origine altaica, scritta per secoli in arabo.

Dunque, per cercare di spiegare il mistero della scrittura, si è invocata la partecipazione di un popolo non meno misterioso, ossia quello dei Turchi siberiani. Si è quindi sostenuto che l’iscrizione runica del tesoro di Nagy-Szent-Miklos potrebbe costituire uno degli anelli mancanti nella trasmissione delle rune dai Turchi siberiani alle aree dell’Europa centro-meridionale. Ma questo non ci dice nulla sull’identità del popolo cui appartenevano i possessori del tesoro e sugli eventi storici connessi. [BM&L-Italia, giugno-luglio 2025].

 

Notule

BM&L-21 giugno 2025

www.brainmindlife.org

 

 

 

________________________________________________________________________________

 

La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 



[1] Lo studio linguistico, in particolare secondo le metodologie diacroniche, fornisce elementi che consentono di ricavare informazioni di carattere psicologico e psico-antropologico.

[2] Giorgio Raimondo Cardona, Storia Universale della Scrittura, p. 215, CDE, su licenza Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1986.

[3] Giorgio Raimondo Cardona, op. cit., p. 180.