Reti attive nel cervello di bilingue
di cinese e giapponese
DIANE
RICHMOND
NOTE E NOTIZIE - Anno XXI – 27 aprile
2024.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Leonard Bloomfield, fondatore di una corrente
linguistica americana che si contrapponeva allo strutturalismo europeo[1], nel
1933 coniò il termine “logografica” per definire un tipo di scrittura non
alfabetica, come quella del cinese mandarino e del giapponese, in cui ogni elemento
sta a simboleggiare una parola della lingua. Bloomfield intendeva correggere le
espressioni “ideogramma” e “scrittura ideografica” fino allora impiegate per riferirsi
alle scritture non alfabetiche, da quella egiziana a quelle dell’Estremo
Oriente. Infatti, dire che ogni elemento rappresenti un’idea non è esatto: i
criteri seguiti nell’invenzione di queste scritture sono vari e sono stati
sviluppati nel corso dei secoli, man mano che gli scribi hanno sentito l’esigenza
di migliorare la resa della lingua parlata, di semplificare le operazioni di
scrittura o di risolvere delle ambiguità. Gli elementi pittografici cinesi e
giapponesi non hanno più gli evidenti tratti analogici delle scritture egizie
più antiche, ma non sempre un elemento corrisponde a una parola; per questo
motivo, la definizione di lingue logografiche è stata criticata, pur
essendo ancora ufficialmente adottata.
Numerose evidenze hanno confermato l’intuizione che
le lingue logografiche non si limitano a essere diverse nella scrittura da
quelle alfabetiche, ma si caratterizzano per processi cerebrali specifici nella
codifica del linguaggio. In molti studi sulle basi neurali della comunicazione
verbale, si fa il confronto tra una lingua logografica come il cinese mandarino
e l’inglese; la maggior parte degli studi sul bilinguismo analizza persone che
parlano due lingue di origine europea o, al massimo, uno di questi idiomi e una
lingua asiatica. Ma cosa avviene nel cervello di persone che parlano cinese e
hanno il giapponese per seconda lingua o viceversa? In altri termini, quali
sono le basi neurofunzionali del bilinguismo per due idiomi logografici?
Uno studio condotto da Zhenglong
Lin e colleghi affronta questo problema ottenendo
risultati di notevole interesse.
(Lin
Z. et al., Phonological properties of logographic words modulate brain
activation in bilinguals: a comparative study of Chinese characters and
Japanese Kanji. Cerebral Cortex – Epub ahead of print doi: 10.1093/cercor/bhae150, 2024).
La provenienza degli autori
è la seguente: School of Psychology, Shenzhen University,
Guangdong (Cina); School of Computer Science and Technology, Jilin (Cina); Department
of Psychology, College of Education Science, Inner Mongolia Normal University, Huhhot, Inner Mongolia (Cina); Cognitive Neuroscience
Laboratory, Okayama University, Okayama (Giappone);
Department of Radiology, China Medical University, Liaoning (Cina); Key
Laboratory of Biomimetic Robots and System, State Key Laboratory of Intelligent
Control and Decision of Complex Systems, Beijing (Cina).
Per introdurre il lettore non specialista all’affascinante
campo di studi delle basi neurofunzionali del linguaggio verbale, come abbiamo
fatto in una recente occasione (Note e Notizie 10-02-24 Le parole
sono codificate da singoli elementi neuronici), proponiamo
alcuni brani tratti da nostri articoli precedenti.
“Il
tradizionale modello neurologico del linguaggio, originato dagli studi
anatomo-clinici, con le aree corticali di Broca e di Wernicke dell’emisfero
sinistro collegate da un fascio unidirezionale, ha a lungo condizionato il modo
di concepire le basi della funzione comunicativa e, sebbene oggi si disponga di
una vasta mole di dati a sostegno di una realtà molto più complessa, si stenta
a definire nuovi modelli. Sulla base della fisiologia del controllo corticale e
dei deficit derivanti dalla sua patologia, si è concepita la funzione comunicativa
come una facoltà rigidamente compartimentata e localizzata. Si distingueva,
come nell’organizzazione del midollo spinale, un versante motorio ed uno
recettivo.
Quello
motorio, coincidente con un territorio corticale anteriore, sito presso il
piede della terza circonvoluzione frontale di sinistra[2], nell’area 44 della mappa di Brodmann
e detto area di Broca, dal nome del
neurologo ed antropologo francese che nel 1861 descrisse per primo l’afasia non
fluente dovuta alla sua lesione[3]. Quello recettivo, coincidente con
un territorio corticale posteriore, contiguo all’area uditiva temporale, prossimo
al giro angolare e alla corteccia occipitale, detto area di Wernicke, dal nome
del giovane neurologo che nel 1874 descrisse l’afasia fluente dovuta alla sua
lesione[4].
Per
circa un secolo, sebbene vi fossero teorie alternative come quella di
Pierre-Marie, si è pensato alle basi cerebrali della facoltà di comunicazione
verbale umana come a due moduli: uno di elaborazione recettiva per la
comprensione della parola udita o letta, ed uno di programmazione esecutiva per
la produzione vocale della lingua parlata. A questi due moduli principali,
uniti da un fascio di connessione[5] e costituiti dalle due aree
corticali dell’emisfero sinistro, venivano aggiunte ipotetiche aree secondarie
per compiti specializzati, il cui ruolo era desunto dai deficit derivanti da
loro lesioni e solo raramente da stimolazione elettrofunzionale. Naturalmente, un
tale complesso specializzato per il linguaggio era concepito in connessione con
le aree sensoriali dell’udito e della vista, con le aree motorie per
l’articolazione della parola, con le aree associative e con un ipotetico centro del pensiero, sede
dell’elaborazione cognitiva.
Questo
modello era stato proposto da Carl Wernicke nel 1874[6] ed aggiornato con nuove
connessioni e dettagli negli anni Sessanta del Novecento da Norman Geschwind, dando
luogo allo schema detto di Wernicke–Geschwind.
Le
comode certezze ispirate da questa concezione modulare, semplice e schematica,
hanno cominciato a vacillare con gli studi funzionali condotti durante
l’esecuzione di compiti linguistici mediante tomografia ad emissione di
positroni (PET), risonanza magnetica funzionale (fMRI), elettroencefalografia
(EEG) e magnetoencefalografia (MEG) che hanno rivelato schemi di attivazione
estesi e complessi che, combinati con le nozioni emergenti dalla ricerca
neuroscientifica, hanno suggerito l’esistenza di una complessa architettura
funzionale che include l’emisfero destro.
La
complessità rende ragione di una qualità speciale della facoltà di parola umana
che non è resa dal semplice paragone con le abilità comunicative delle altre
specie. Le api codificano e trasmettono la distanza e la direzione del miele
mediante una danza, i maschi di molte specie di uccelli attraggono le femmine
con il canto, gli scimpanzé ed altre scimmie hanno un repertorio di suoni
vocali specifici per comunicare stati affettivi ed emozionali legati al
desiderio sessuale, alla paura, all’aggressività. L’invenzione, l’apprendimento
e l’uso delle lingue verbali umane, che include come traccia paradigmatica di
base queste abilità animali, va molto oltre. Ogni lingua può essere definita
come un insieme finito di suoni che può essere combinato con un numero
illimitato di possibilità.
In
realtà, il nostro cervello impiega in entrata e in uscita, anche nella codifica
grafica (scrittura), delle unità di informazione elementari corrispondenti ai
singoli suoni o fonemi, che combina
in piccole unità semantiche chiamate morfemi.
Rispettando le regole trasmesse e apprese di una lingua, può combinare i
morfemi in parole, e queste, secondo
la sintassi, in un numero potenzialmente infinito di frasi. Lo sviluppo del linguaggio nel bambino segue un piano
universale e, secondo studi recenti, non può essere ricondotto né al paradigma
di Skinner basato eccessivamente su modellamento e rinforzo esterno, né alla
visione di Chomsky troppo genericamente legata ad una ipotesi innatista. Proprio
lo studio dei processi che consentono l’acquisizione della lingua madre da
parte dei bambini, ha aperto orizzonti nuovi di comprensione della funzione
comunicativa umana, che meritano di essere conosciuti ed ulteriormente
indagati. Sicuramente oggi si ha una visione più chiara delle abilità
linguistiche nella prima infanzia, soprattutto grazie ai progressi nelle
conoscenze relative allo sviluppo cognitivo, che hanno fornito strumenti per
andare oltre la semplice osservazione fenomenica e comportamentale. Sappiamo
che, quando un bambino di un anno pronuncia le prime parole, è in grado di conferire
un valore semantico associativo a non meno di 60-90 termini. Se a 15 mesi
comprende il senso di frasi bitermine concretistiche (bevi-latte), a 16, quando
pronuncia 50 parole distinte, comprende da 170 a 230 termini della lingua madre.
Ritornando
al superato modello Wernicke–Geschwind, ci si può chiedere cosa rimanga oggi di
valido in quella visione, oltre al riconoscimento delle due aree corticali che,
seppure non più ritenute dei “centri” esclusivi, si sa che svolgono un’importante
funzione specializzata al livello della funzione integrativa corticale. Si può
rispondere che il ruolo privilegiato dell’emisfero sinistro rimane un fatto
certo, con la sola eccezione della piccola percentuale di mancini veri che
presentano un’inversione con controllo corticale a destra e la quota ancora più
bassa dei rari casi di cosiddetta “dominanza doppia” (ambidestri). La specializzazione dell’emisfero sinistro per
l’elaborazione fonetica, delle parole e delle frasi, non ha un esatto compenso in un ruolo specifico ed esclusivo
dell’emisfero destro per la prosodia,
come si era creduto due decenni fa. L’elaborazione prosodica impegna entrambi
gli emisferi, con variazioni che dipendono dall’informazione veicolata.”[7]
“La tradizionale concezione anatomo-clinica, basata
sul confronto tra lesioni cerebrali autoptiche e profilo prestazionale ai test
neuropsicologici, conferiva estrema importanza alle aree di Broca e Wernicke
nell’ottica di una semplificazione localizzatrice della funzione verbale secondo
un modello con due versanti uno esecutivo e l’altro recettivo
uniti dal fascio di conduzione.
Già gli studi tomografici e mediante PET condotti
negli anni Ottanta avevano minato la validità di questo modello, mostrando casi
che presentavano “lesioni inattese”, come nella serie di 63 pazienti studiati da
Anna Basso con Lecours, Moraschini e Vanier (1985), in cui si rilevarono 4 casi di afasia non
fluente tipo Broca con lesioni retro-rolandiche e area 44 assolutamente
indenne; anche se Tramo Bayes e Volpe notarono in uno
di questi casi un recupero della comprensione sintattica a un anno dall’ictus,
che non si verificava nei pazienti con lesione dell’area di Broca, era evidente
la realtà di basi morfo-funzionali del linguaggio molto più complesse di quelle
definite dal modello anatomo-clinico ipotizzato per la prima volta da Wernicke.
Alcuni studi PET in pazienti con afasia di Broca
cronica mostrarono riduzione del metabolismo nell’emisfero cerebellare destro,
così che si parlò di “diaschisi cerebellare crociata”. Seguirono negli anni
Novanta gli studi di Antonio e Anna Damasio, dai quali emerse un nuovo modello
di organizzazione funzionale del linguaggio nel cervello, poi riportato come
standard nel trattato di neuroscienze di Kandel, Schwartz, Jessell, Siegelbaum,
Hudspeth (2013). Negli ultimi anni sono emersi dati che hanno reso ancora più
complesso il quadro delle reti funzionali attive per la comprensione e l’esecuzione
della parola nella comunicazione verbale umana”[8].
Dopo questa introduzione che ci ha condotto dalle
nozioni anatomocliniche della neuropsicologia classica
alla visione attuale, ritorniamo allo studio sul bilinguismo cinese e
giapponese.
Nel cervello bilingue si formano dinamicamente
specifiche reti, per la prima lingua o lingua madre (L1) e per la seconda
lingua (L2), anche se appresa precocemente. Lin e
colleghi hanno indagato i meccanismi neurali accessibili, associati al bilinguismo
logografico-logografico, in cui entrambe le lingue apprese e parlate
adottano rappresentazioni simboliche logografiche visualmente
complesse e concettualmente ricche.
Mediante la metodica di neuroimmagine della risonanza
magnetica funzionale (fMRI, da functional
magnetic resonance imaging)
i ricercatori hanno studiato l’attivazione di reti neuroniche nel cervello di volontari
bilingue, sia di madre lingua cinese e di seconda lingua giapponese, sia di
madre lingua giapponese e seconda lingua cinese, mentre costoro eseguivano
compiti sperimentali di rima fra parole con caratteri cinesi classici
standard e giapponesi Kanji.
Le immagini hanno subito rivelato una differenza
suggestiva:
1)
I Giapponesi
bilingue, con il cinese per seconda lingua, elaboravano entrambe le lingue
adoperando aree cerebrali comuni, mostrando un pattern di assimilazione;
2)
I Cinesi
bilingue, col giapponese come seconda lingua, reclutavano nuove aree del
cervello nella corteccia prefrontale laterale di sinistra per elaborare
il Kanji, rivelando una soluzione morfo-funzionale per la più alta complessità
fonologica di L2.
Un’altra interessante differenza è che il cervello
dei parlanti giapponese si affidava maggiormente alla linea di connessioni per
l’elaborazione fonologica, mentre il cervello dei parlanti cinese preferiva l’analisi
delle forme visive per entrambe le lingue. Questo dato individua due differenti
strategie neurali preferenziali nei due gruppi. L’analisi mediante MPA (multivariate
analysis pattern) ha dimostrato che, nonostante la
considerevole sovrapposizione neurale, ciascun gruppo di bilingue formava distinte
e specifiche rappresentazioni neurali per ciascuna delle due lingue
logografiche.
Dunque, è risultato evidente che le proprietà
fonologiche delle parole di queste lingue logografiche modulano l’attivazione
cerebrale nei bilingue.
Questi risultati evidenziano la capacità del
cervello di adattamento e specificità neurale nell’elaborazione di complesse
lingue logografiche, e ci forniscono nuovi elementi per la comprensione delle
caratteristiche delle basi neurali necessarie per la comprensione e l’uso di
due lingue così complesse.
L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e
invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del
sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Diane
Richmond
BM&L-27 aprile 2024
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presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio
2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale
non-profit.
[1] La corrente linguistica è il distribuzionalismo,
che si basa su una teoria che classifica gli elementi della lingua in base alla
loro distribuzione.
[2] Il piede della terza
circonvoluzione frontale corrisponde alla parte
opercolare del giro frontale
inferiore.
[3] Paul Broca era già celebre,
quando comunicò alla Società di Antropologia di Parigi la scoperta del “centro
motore del linguaggio” dall’esame autoptico di un paziente capace di ripetere
sono il monosillabo “tan”. Chiamò afemia,
quella che sarà poi definita afasia
motoria. Nel 1865 pubblicò un’osservazione decisiva per stabilire la
localizzazione esclusiva a sinistra, introducendo la concezione di un emisfero
“dominante”.
[4] Fu la prima pubblicazione di
Carl Wernicke, un allievo di Theodor Meynert di 26 anni che lavorava come assistente
neurologo presso il reparto di neurologia dell’ospedale di Bratislava. Wernicke
proponeva uno schema in cui il fascicolo
arcuato portava l’informazione dall’area recettiva deputata alla
comprensione della parola a quella esecutiva contenente i programmi motori che
consentono di parlare.
[5] È solo di recente che è stata
descritta la via indiretta di connessione da Marco Catani e colleghi (si veda
in “Note e Notizie 07-10-05 Nuove vie e
nuove basi neurali per il linguaggio”).
[6] Il modello area di Broca-fascicolo arcuato-area di Wernicke è considerato il
prototipo dei modelli connessionisti.
[7] Note e Notizie 25-10-14 Nuova
visione del linguaggio nel cervello.
[8] Note e Notizie 02-10-21 Area
di Broca umana rivela nuovi aspetti nel confronto col macaco. Si consiglia
la lettura dall’inizio di questo articolo anche per introdursi all’afasiologia.
Altri spunti interessanti e recenti sulle basi cerebrali del linguaggio si
trovano in Note e Notizie 18-02-23 Il cervello di poliglotti e superpoliglotti. Nelle “Note e Notizie” si può
consultare una vera banca dati della ricerca degli ultimi due decenni in questo
campo.