Il tempo e il luogo delle virtù

 

 

MONICA LANFREDINI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 14 dicembre 2019.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE]

 

I Greci, nei secoli in cui hanno creato le basi di tutta la cultura occidentale, sono stati maestri nel concepire il senso del pensiero e dell’agire umano nel suo rapporto con un luogo e un tempo: ethos, nel suo significato originario di abitare, indica proprio il luogo dove la mente vive per solito il suo tempo. La mente, nell’esercizio del pensiero, si esprime nella dimensione simbolica di una sintesi fra ambiente e cronologia, che i filosofi di età classica avevano ben presente. Originariamente, prima della nascita della forma culturale di spettacolo che rappresenta una storia, la parola greca theatron indicava uno spazio mentale in cui si rappresenta un fatto dello spirito, ossia un luogo psichico nel tempo fenomenico di quel particolare vissuto[1]. Lo stretto rapporto fra i fatti della vita nel loro succedersi e lo sfondo costituito dalla città è riflesso in quella consuetudine interpretativa che aveva portato a fondere i due termini polis e ethica in un unico vocabolo che oggi, nell’italiano “politica”, non esprime più quel senso alto originario[2]. La coscienza della relazione di pensiero e fatti con una definita realtà spazio-temporale fa pensare al criterio adottato da Platone per distinguere l’opinione dalla scienza: secondo il filosofo greco, quest’ultima è consapevole di sé.

Nel seguire il corso della storia, soprattutto nella lunga transizione dal Medioevo all’Età Moderna, si nota che questo rapporto va indebolendosi nella consapevolezza collettiva, giungendo fino ad una vera e propria rimozione, ben evidente oggi, alla nostra distanza temporale. Nella coscienza dei cittadini, il progressivo distacco del proprio pensiero dallo spazio materiale e simbolico che ne ha ospitato la genesi, ossia il theatron della città, si compie probabilmente tra il III e il VI secolo, quando la traccia di quel mondo di città, che era il mondo greco-romano, si indebolisce sempre più[3]. La tradizione antica voleva che la ragione stessa fosse garantita dall’appartenenza ad una struttura materialmente delimitata e temporalmente vissuta: gli edifici costituivano, infatti, compartimentazioni specializzate della legittimità di senso conferita dall’appartenenza urbana. La casa con il suo giardino era separata da quelle vicine da un solco perimetrale scavato con una larghezza sufficiente ad ospitare il maiale di maggiori dimensioni, il lirium, dal quale prendeva il nome: andare oltre quel confine era detto delirare[4]. Tutto l’agire sociale dell’uomo, dalla libera interazione con gli altri all’esercizio dei diritti civili, è concepito nel mondo antico in rapporto al contesto urbano: l’interdetto è colui che viene portato fuori delle mura della città[5].

Leggendo Jacques Le Goff si desume che la similarità di processi e fenomeni che accompagnano il mutamento storico delle città sotto il dominio romano sia alle origini dell’identità europea[6].

L’evoluzione da quell’organizzazione in città-stato che caratterizzava il mondo antico alla complessità dei rapporti fra territorio e ordinamento sociale che caratterizza la condizione moderna, non è solo un grande fenomeno di transizione politica che passa attraverso l’Impero Romano e la costituzione degli stati nazionali, ma è soprattutto un radicale cambiamento di modello antropologico, le cui cause e il cui approdo ad una molteplicità polimorfa di stili esemplari possono essere intesi solo studiando il progressivo affermarsi del cristianesimo nel Vecchio Continente, dopo il III secolo con Costantino, e in particolare grazie al cosiddetto Editto di Milano sulla libertà religiosa.

Ma, così come accade per l’architettura, che in parte conserva e riadatta i templi e gli altri edifici antichi e in parte li abbandona come rovine o li demolisce riutilizzando i materiali per nuove costruzioni[7], la vicenda antropologica assume in sé e custodisce parti della concezione spazio-temporale della polis, ma in gran parte rielabora o perde le sue strutture caratterizzanti.

Gli storici concordano sulla connotazione positiva della città nell’immaginario collettivo greco di epoca aurea, riflesso nella concezione spesso idealizzata del luogo delle leggi o terra dei padri nelle parole di filosofi e poeti greci. Nella transizione romana, pur essendo implicita, l’immagine positiva della dimensione urbana è conservata. Si può supporre che alla coscienza di quei popoli non emergesse nel vissuto quotidiano l’organizzazione funzionale della città in quanto tale, ossia come oggetto di riflessione consapevole, perché lo spazio cittadino era costantemente implicato quale ambiente quasi naturale, tanto degli atti e dei gesti della vita personale, quanto dei fatti della storia[8].

È l’irrompere della cultura giudaico-cristiana sulla scena della consapevolezza collettiva a porre in questione il distanziamento del soggetto dalla città mediante un giudizio morale complessivo. La conquista cristiana delle coscienze, dopo trecento anni di persecuzione, veicola nella realtà greco-romana la dicotomia fra le città perverse quali Sodoma, Gomorra, Babilonia e la città santa, ossia Gerusalemme. In particolare, il soggetto cristiano che si costituisce in antitesi con il mondo – inteso in senso giovanneo[9] – mette in crisi il valore assoluto dell’appartenenza territoriale del mondo classico, esemplarmente espresso dall’onore nell’essere cittadino ateniese, spartano o romano. Un attributo di identità che derivava direttamente dal guscio protettivo politico-militare della polis. La cultura classica aveva così sublimato l’istinto biologico di appartenenza territoriale nell’orgoglio di condivisione delle glorie della storia della nazione urbana concepita come stato di diritto.

Il pensiero cristiano, il cui potenziale eversivo dato dalla sottomissione a Dio e non all’imperatore aveva indotto le persecuzioni, svincolava la morale sociale dal luogo abituale della vita (ethos) e dal perimetro delle leggi (civitas) concependo l’intero genere umano quale ambito entro cui esprimere l’oblazione della propria vita e la Gerusalemme celeste (Civitas Dei) o Regno dei Cieli quale patria futura dopo la morte, rappresentando, nel giudizio dell’ateo, un’aspirazione idealistica assoluta.

 

Il luogo delle virtù dipende dalla loro radice antropologica di senso. Ho avuto modo di descrivere in occasioni precedenti gli aspetti salienti delle virtù presso gli antichi[10], sottolineando come nell’accezione più comune, adottata dallo stesso Aristotele che pure analizza la virtù morale del coraggio quale prototipo di tutte le qualità desiderabili, la virtù sia un’abilità esercitata: “In questo senso la virtù è intesa come il prodotto di un lungo e intenso addestramento e non tanto come diretta conseguenza dell’essere estlòs, cioè nobile d’animo, o necessariamente aver raggiunto lo status di agatos, ossia colui che pone le abilità dell’areté al servizio di un superiore valore morale altruistico”[11].

Presso i Greci, le virtù intese come abilità esercitate fino ad eccellere, come era proprio dell’areté, avevano due luoghi privilegiati di espressione: l’agone e il campo di battaglia[12]. Per l’atleta, in particolare, la circostanza della gara costituisce lo spazio-tempo in cui esibire le qualità virtuose esercitate ogni giorno. La differenza con le virtù morali del cristiano è radicale ed essenziale. La virtù dell’areté è un lungo tirocinio e un continuo allenamento per i momenti in cui sarà presentata in pubblico: il suo luogo è la mente collettiva di coloro che assistono all’evento. Nell’orizzonte cristiano, il luogo della virtù è l’hic et nunc dell’atto d’amore richiesto dalla circostanza: il referente è Dio, col quale l’uomo entra in sintonia mediante la coscienza. Più in generale, si può dire che il luogo della virtù è la vita stessa, se la si interpreta come totale adesione alla parola, al Logos[13], che è via, verità e vita, compiuta nella santità. In un paragone per sintesi estrema, che coglie però un aspetto essenziale, si può dire che le virtù degli antichi, come quelle di Aristide, esistono nella relatività del rapporto con dei testimoni e nella possibilità che siano trasferite in una memoria collettiva o, in qualche caso, storica.

Le virtù cristiane, nel loro avere per referente Dio ed essere nascoste e protette dall’occhio del mondo - secondo la celebre locuzione evangelica “non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra”[14] - raggiungono un valore assoluto, non essendo soggette alla volubilità delle mode, al gioco degli interessi o all’arbitrio dei singoli.

L’esercizio della virtù nel mondo antico è strettamente legato al riconoscimento umano secondo una forma evidente nel paradigma della competizione sportiva: si agisce per stupire un pubblico e ottenere un premio. Lo schema essenziale è conservato nel presente, ed è ragionevole supporre che esisterà anche in futuro, come suggerisce la diffusione delle sue forme estese ad abilità di vari altri campi, che vanno dai tornei di scacchi alle gare di ballo, canto, musica e abilità di ogni genere, per il Guinness dei primati o per le giurie televisive di programmi basati sull’esame di provini resi spettacolo.

Anche al tempo dei Greci, in cui le virtù erano più spesso legate all’agilità, alla potenza e alla velocità del corpo nudo, e tale era il significato di gimnòs (γυμνός = nudo), esisteva un rapporto diretto del valore col divino. In origine, i giochi consistevano in cerimonie religiose in cui il ludo agonistico aveva il senso di una rappresentazione simbolica; dai giochi in onore di Bacco deriva l’uso di premiare i vincitori con una coppa d’oro. Ma anche la virtù militare era premiata con gradi, cariche, incarichi, onori, titoli o governo di interi territori, a seconda del merito dell’impresa.

Nella concezione cristiana il luogo della virtù è lo spazio-tempo della prova: la vita, durante la quale non è previsto premio, ma solo grazia; perché il premio, se ci sarà, apparterrà alla dimensione che segue la morte del corpo.

Le virtù morali degli antichi, massimamente espresse nell’agatos, possono essere accostate alle quattro virtù cardinali cristiane, ossia prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, e al pari di queste richiedevano dominio di sé, ossia quella enkràteia che Platone celebra attraverso le parole di Socrate. La prudenza e la giustizia possono essere ricondotte al concetto greco di phronesis, cioè la saggezza nella sua realizzazione operativa, descritta come un’accorta prudenza che conferisce equilibrio nel giudizio e può essere accostata alla sapienza di Salomone della tradizione ebraica. Per la fortezza e la temperanza è facile rilevare alcune importanti differenze, comprese quelle che si possono desumere da quanto esposto in precedenza, ma ciò che più conta è comprendere la sostanza delle due concezioni.

L’uomo che aspira a raggiungere lo status di agatos coltiva lo spirito, come il ginnasta fa con il corpo, per realizzarsi secondo uno stile sublime in una concezione estetica dell’esistenza, per ammirarsi e, soprattutto, essere ammirato da tutti coloro che, per cultura, conoscono e apprezzano le virtù. Tendere a divenire esemplare per farsi idolo per gli altri, secondo il motto attribuito al comico Cecilio: homo homini deus[15]. All’opposto, la precondizione per l’esercizio delle virtù cristiane consiste proprio nella rinuncia a questa concezione idolatrica, eleggendo l’unico Dio Creatore quale allocutore[16] , e rivolgendo a lui l’ideazione e la pratica delle virtù.

Nella concezione del valore individuale in epoca antica è possibile riconoscere la componente ludica, o almeno la sua radice, consistente nell’atto che non si compie per bisogno o necessità, e si sceglie in vista di una gratificazione prevedibile. Il referente del pagano è eletto fra i propri simili o, al più, è implicitamente sottinteso nella doxa. Per il cristiano, invece, sono in questione coscienza e responsabilità, che legano il bisogno individuale di salvezza a quello collettivo, alla presenza del Signore, seguendo quanto Gesù Cristo stesso ha insegnato: “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”[17].

Dunque, questa prospettiva esclude la strumentalità dell’agire per una ricompensa umana, bandisce la vanità del divismo come l’idolatria del successo, e colloca l’agire del giusto sul piano dei doveri dell’uomo verso il proprio Creatore: trasgredire i suoi comandamenti vuol dire peccare, ossia entrare in una dimensione di colpa che allontana dal luogo della Civitas Dei. In altri termini, l’agire virtuoso è semplicemente un dovere del cristiano.

Riprendendo la traccia iniziale del tempo e luogo delle virtù, si può notare che il modello cristiano sposta il valore dalla contingenza del contesto umano alla dimensione assoluta, immutabile e interminabile dello spazio-tempo divino.

È stato osservato che la civiltà di Abraham (Abramo), che diede origine alle tre fedi, ebraica, cristiana e islamica, aveva in sé la tendenza culturale all’astrazione della materialità del mondo fisico naturale in una dimensione extrasensibile. Tale tendenza sarebbe testimoniata dalla concezione dell’ambiente naturale presente nei popoli di antica tradizione islamica; ma altri hanno dimostrato che l’Islam – termine che vuol dire “sottomissione a Dio” – sviluppa solo apparentemente questo rapporto sui generis con i luoghi topografici e geografici, quale conseguenza di un’interpretazione letterale del divieto di attribuire nomi ai luoghi da parte dell’uomo, in quanto tale prerogativa sarebbe stata riservata alla divinità.

Per i seguaci di Maometto, tutto il mondo a quel tempo conosciuto era ripartito in due territori: Islam e Jihad. In altri termini, luogo dei fedeli e luogo della guerra santa. All’uomo islamico era concesso solo l’impiego di un generico riferimento di geografia fisica; infatti, il nome di origine islamica “Libano”, significava “il monte”, il nome “Giordano” voleva dire “il fiume”, e così via.

Di fatto, gli Arabi furono costretti a fare ricorso alla geografia dei Romani per poter urbanizzare i territori da loro occupati. Anche la concezione romana del valore fu importata in ambito militare e, nel corso dei secoli, si andò affermando presso quei popoli una concezione della virtù sportiva di impronta greco-romana. Le virtù morali, invece, rimasero esclusiva prerogativa di coloro che erano rigorosamente fedeli alla Sharia’a. Poiché nella visione islamica il peccato è determinato dal verificarsi del comportamento o del fatto vietato dalla Legge religiosa, indipendentemente dalla volontà del soggetto[18], in quella realtà la virtù può essere imposta con la forza, ottenendo grazia presso Allah.

In Arabia Saudita dal 1940 è attivo il “Comitato per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio”, che impiega agenti di polizia religiosa detti mutawwi’a, con ampi poteri, incluso quello di irrompere improvvisamente in case private per controllare il grado di virtù di coloro che vi abitano.

Nel cristianesimo la centralità della coscienza con la sua intenzionalità costituisce un valore assoluto. L’esercizio del libero arbitrio è fondamentale, sia nella scelta di seguire Cristo sia perché vi sia colpa nella trasgressione: non è la forma dell’azione che conta, ma la sostanza della volontà della persona. Allo stesso modo, il luogo della virtù – che è sempre incontro con Dio – non conta in quanto ambiente materiale, ma quale dimensione dello spirito. Illuminante, in proposito, l’episodio della Samaritana del Vangelo di Giovanni. La donna, incontrata da Gesù presso un pozzo, dice: “Signore, vedo che tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”. Gesù le dice: “Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”[19].

 

 L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la collaborazione e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Monica Lanfredini

BM&L-14 dicembre 2019

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Per questo etimo originario si vedano gli studi citati al Seminario sull’Arte del Vivere (2005-2019) dal nostro presidente, che di qui in avanti sigleremo “G. Perrella, AdV”.

[2] G. Perrella, AdV.

[3] Questa indicazione temporale, prevalente tra i medievalisti, è riportata nelle opere di Jacques Le Goff (cfr. Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale, Einaudi, Torino 1981; Le Goff (a cura di), L’uomo medievale, Laterza, Roma-Bari 1988).

[4] G. Perrella, AdV.

[5] G. Perrella, AdV.

[6] Le Goff, Il Medioevo – Alle origini dell’identità europea, Editori Laterza, Roma-Bari 2002.

[7] Cfr. Le Goff, Il Medioevo – Alle origini dell’identità europea, p. 49, Editori Laterza, Roma-Bari 2002.

[8] Non meno di quanto un bambino dia per scontata la propria casa nell’organizzazione della vita familiare.

[9] È il “mondo” inteso come la comunità umana non sottomessa a Dio, che idolatra il profitto e il vantaggio egoistico, e sviluppa strutture gerarchiche basate sul valore del denaro e su logiche di potere dell’uomo sull’uomo. Come si legge nel Vangelo, il principe di questo mondo è Satana.

[10] Note e Notizie 09-11-19 Necessità di virtù nel mondo di oggi; Note e Notizie 26-10-19 Una breve lezione di arte del vivere.

[11] Note e Notizie 26-10-19 Una breve lezione di arte del vivere.

[12] Gli elementi essenziali della struttura dei giochi sono ancora conservati nei tornei e nelle giostre medievali e rinascimentali, con i canti in onore del dio sostituiti dalle stanze per la giostra.

[13] In greco indica il linguaggio-pensiero; qui è inteso, secondo la tradizione che risale al testo greco del Vangelo di San Giovanni, come “Parola incarnata nella Persona del Cristo”.

[14] Matteo 6: 3.

[15] Dagli antichi congiunto spesso al motto di Plauto, homo homini lupus, diffuso in epoca moderna da Hobbes.

[16] Termine introdotto da Edouard Pichon (pediatra, psicoanalista e linguista) per indicare un interlocutore interiore, mentale o spirituale. In questo caso, indica il Testimone per eccellenza della coscienza di ciascuno.

[17] Luca 14: 10.

[18] Ad esempio, un turista arabo in Europa che consumi inavvertitamente un cibo contenente grasso di maiale commette peccato a sua insaputa.

[19] Giovanni 4: 19-24.