Necessità di virtù nel mondo di oggi
MONICA LANFREDINI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 09
novembre 2019.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il
cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]
Numerose
richieste da parte dei lettori della “breve lezione di arte di vivere” pubblicata
lo scorso 26 di ottobre, mi inducono a riprendere e proseguire il discorso sulle
virtù, secondo il senso della loro radice storico-antropologica in rapporto
alla necessità, spesso negata, trascurata e irrisa, del loro esercizio nella
realtà contemporanea.
Come abbiamo
visto, nell’antichità il rapporto delle virtù con la morale è tutt’altro che
scontato, e si va da un areté che era un virtuoso di una tecnica o di un’arte,
così come oggi lo si intende nella locuzione “un virtuoso del violino”, ad un agatòs
le cui virtù morali costituivano un patrimonio pubblico. Le società contemporanee,
nelle quali si possono riconoscere molti tratti di un neopaganesimo debole e
inclusivo nei confronti delle diverse sensibilità religiose, intese come
tradizioni culturali da rispettare e non quali visioni del mondo, diffusamente
conservano la stima e l’apprezzamento per l’areté sportivo o del mondo
dello spettacolo, soprattutto in quanto inclusi nel sistema economico che monetizza
il valore della loro attività, ma tende sempre meno a riconoscere il valore
esemplare delle virtù dell’artista e dello scienziato. Un’analisi delle ragioni
di questo mutamento, caratterizzato dall’affermazione de facto di modi e
forme ritenute in passato disvalori, quali la superficialità e l’approssimazione
santificate dal loro legame con la capacità di diffondersi per identificazione tra
le masse mediatiche e produrre enormi profitti, esula sicuramente dai confini di
questa trattazione; pertanto, mi limiterò a considerare quali dati di fatto che
oggi un tatuatore alla moda sia conosciuto e apprezzato molto più di un bravo
pittore, o che la trovata di una virgola come marchio sia ritenuta geniale,
mentre si ignorano le ingegnose soluzioni sperimentali che hanno portato a
scoperte in grado di salvare o prolungare la vita di milioni di persone.
Seguendo il
nostro intento seminariale di contribuire ad accrescere la consapevolezza individuale
e sociale, proporrò alcuni aspetti della cultura antica che generavano e
motivavano il valore delle virtù che ci hanno tramandato. Spero che i miei
riferimenti a culture che, pur con le contraddizioni proprie dei popoli di ogni
tempo, propongono una sostanziale coerenza tra valori concepiti e vissuti, possa costituire uno
stimolo alla presa di coscienza circa l’attuale acefala adesione ai modi diffusi
e alle mode correnti, compresa quella del passivo conformismo nel seguire un
anticonformismo di maniera, ormai divenuto un costume logoro che, tuttavia, pur
al suo estremo grado di usura, non sembra perdere il valore di tessera di
riconoscimento.
Per comprendere
a fondo il senso di quanto ricaviamo dagli scritti e dai documenti del mondo
antico è necessario aver presente che il campo della filosofia non consisteva
in un repertorio di edifici concettuali ideali, ciascuno dei quali costruito a
immagine e somiglianza del suo autore, e non era una raccolta di teorie nei
campi privilegiati dell’ontologia e della metafisica, come accade per la
materia filosofica insegnata nelle nostre università, ma era il campo non
delimitato della conoscenza che l’uomo riusciva a sottrarre all’ignoto, portare
alla ragione e impiegare per vivere.
Non
meraviglia, dunque, che gli interessi del filosofo andassero dall’indagine
sulla natura della terra e dell’animo umano allo sviluppo di tecniche e
pratiche per conferire serenità allo spirito e forza alla personalità. Quest’ultima,
dai Greci era identificata col carattere[1] e considerata la principale risorsa dello spirito, da
modellare durante la crescita e allenare per tutta l’esistenza, allo scopo di
proteggersi da rischi e pericoli provenienti sia dalle insidie della vita, sia
da una dissennata gestione di sé. Come era accaduto per la medicina
ippocratica, la cui impresa immane e disperata di conoscere le cause delle
malattie per curarle aveva nutrito una teoretica profilattica, tradotta poi in
un’igienistica, così accadeva che i grandi maestri del pensiero e le loro scuole
costituissero un riferimento per chiunque avesse voluto acquisire uno stile di
vita in grado di proteggerlo dai mali dell’anima e dalle sciagure che travolgono
gli stolti.
La
comprensione di questo ruolo del sapere filosofico nel mondo greco e
greco-romano ci consente di apprezzare la portata e comprendere il valore pratico
delle “palestre dei saggi” quali luoghi in cui le virtù si apprendono attraverso
una pratica che include l’affrontare con l’aiuto del maestro i problemi e i disagi
causati dai moti dello spirito e dalle vicissitudini quotidiane. Una differenza
profonda con la realtà del mondo contemporaneo, in cui dello spirito si occupa
la religione e della dimensione psicologica, in genere, si tiene conto solo
quando vi sono dei disturbi che richiedono una diagnosi psicopatologica e un
trattamento psicoterapico.
In proposito
leggiamo in Paul Veyne: “Ora, presso gli Antichi, regole di vita ed esercizi
spirituali erano l’essenza della filosofia, non della religione, e la religione
era pressappoco separata dalle idee sulla morte e sull’aldilà[2]. Esistevano delle sette, ma erano filosofiche, perché
la filosofia era la materia delle sette che proponevano, agli individui a cui
la cosa potesse interessare, convinzioni e regole di vita; ci si faceva stoici
o epicurei e ci si conformava più o meno alle proprie convinzioni, come presso
di noi si è cristiani o marxisti, col dovere morale di vivere la propria
fede o militare”[3].
Proprio
questa affascinante dimensione della “conduzione di sé” ci consente di
comprendere il valore della pratica delle virtù quale esercizio dello
spirito per prevenire i mali dell’anima e svolgere un’efficace
azione per evitare o almeno ridurre il rischio di diventare preda di quegli
eccessi che causano perdita di armonia interiore, con conseguente perdita di
forza, senno e direzione, ovvero lucidità di coscienza nel perseguire gli
obiettivi prioritari decisi alla luce della ragione.
A differenza
di quanto accade nel mondo ebraico e accadrà nel mondo cristiano, ossia realtà
nelle quali il senso di colpa generato dalla trasgressione dei comandamenti è inciso
nell’intimo come imperativo interiore che porta ad evitare, quali condizioni
prossime di peccato, gli stati di ridotta coscienza associati all’abbandono
edonistico, all’ubriachezza e alla promiscuità, nel mondo classico la maggioranza
delle dottrine includeva l’esperienza di questi stati della mente allo scopo di
imparare a dominarli e a non divenirne schiavi.
Esempi interessanti
sono i banchetti, gli spettacoli e i bagni pubblici.
Il banchetto,
che in generale costituiva una circostanza in cui si godeva dei piaceri della
tavola, dai cibi al vino, fin dalle epoche più antiche era stato sottratto all’ideologia
bacchica ed era divenuto un’occasione filosofica, nota con il nome di simposio
presso i Greci e di convivio presso i Romani.
Il
banchetto, quale evento per molti versi pubblico, organizzato da potenti o
emergenti nelle società antiche, incluse quelle ebraiche, non ha mai una
considerazione uniforme: rifuggito dagli stoici, dalla maggioranza degli epicurei
e da molti seguaci di dottrine dai costumi rigorosi, è invece apprezzato da
molti altri filosofi e personaggi pubblici che nella polis greca e nelle
città romane lo considerano segno di civiltà, promuovendo lo sviluppo dell’arte
culinaria e della presentazione artistica delle portate in un contesto dove
musici, poeti e pensatori potevano esibirsi. Orazio, nonostante fosse
influenzato dal pensiero epicureo che prescriveva esercizi di progressiva riduzione
del piacere della tavola, ad ogni ritorno nella sua terra natìa[4] organizzava banchetti ai quali invitava cantanti o
attrici note. Presso i Romani, il potere imperiale favoriva le occasioni conviviali,
ma condusse una dura battaglia durata quattro secoli contro le osterie (cauponae)
che servivano vivande calde da asporto ai viandanti nella funzione di thermopolium[5], perché si riteneva che prendere cibo per strada
potesse, per molti versi, favorire la corruzione dei costumi e contribuire alla
temuta mollitia.
In epoca
cristiana, sebbene i banchetti fossero banditi per l’esplicita condanna che si
desume dalla parabola evangelica del ricco Epulone punito col tormento del
fuoco eterno, la contraddizione non è del tutto risolta. I cristiani
praticavano con regolarità il digiuno penitenziale, organizzavano mense
pubbliche per i poveri, alle quali avevano destinato specifici addetti - come
si legge negli Atti degli Apostoli di Luca - cui era stato dato il nome
di diaconi. San Lorenzo, martire a 33 anni dell’Imperatore Valeriano,
era uno dei sette diaconi di Roma[6]. Tuttavia, gli inviti a pranzo con numerosi convitati,
anche al di fuori dei festeggiamenti per le nozze ed altri lieti eventi, sono
documentati anche in questo periodo.
La
possibilità di cedere al piacere della tavola[7], senza farne un vizio ma cercando di creare un
compromesso con gli austeri costumi dei seguaci di Cristo, motiva un’interpretazione
meno severa e restrittiva del brano di Luca[8]: il ricco Epulone non è condannato all’inferno perché
cedeva quotidianamente al piacere della tavola, senza apparentemente fare del
male a nessuno, ma perché non invitava Lazzaro alla sua mensa a sfamarsi, e non
lo ospitava nella sua casa per curarlo dei suoi mali.
Nascono così
a Firenze confraternite con lo scopo dichiarato della devozione per la Vergine
o per un santo ma, come racconta Davidsohn, oltre alla grande solennità
pubblica con la quale celebravano i funerali dei loro membri, erano noti per lo
smodato amore dei banchetti. Una traccia di un’antica arciconfraternita dei
cuochi si trova nella chiesa di Dante in Firenze. San Cipriano scrive: il
banchetto e la sepoltura sono i due oggetti delle confraternite. A Fano, sull’Adriatico,
nacque la confraternita dei “Bontemponi che cenano insieme”.
Ma, tornando
al mondo antico, un altro ambito di cimento della capacità di esercitare la
base di ogni virtù, ossia trovare il giusto mezzo per non essere asserviti dal
piacere, era quello degli spettacoli.
Nel mondo
greco la tradizione dei Giochi Olimpici ha rappresentato un paradigma di
importanza assoluta, che poi ha segnato tutta cultura occidentale, investendo
il mondo intero in epoca moderna[9]. Ma, al di là di questo evento straordinario, vi
erano normali campionati o concorsi atletici, distinti per dimensioni: isolympicòi
e periodicòi, i maggiori, poi venivano gli stephanitài, limitati
al solo mondo greco e collegati ad una celebrata fiera, e infine i themidès,
di portata locale.
Si trattava
di un piacere pubblico, condiviso da tutte le classi sociali e raramente
oggetto di riprovazione; al contrario, la censura era spesso pronunciata, su
base platonica, per vari tipi di spettacolo teatrale. Infatti, finita l’egemonia
del teatro filosofico tipico dell’epoca aurea, la satira di costume che poneva
in scena la lascivia, la volgarità delle forme presenti nel teatro minore, gli
spettacoli con canzoni da cantare in coro dopo abbondanti bevute di vino e
pasti consumati sulle gradinate, erano divenuti la regola.
Agli
spettacoli i saggi assistevano, ma si tenevano a distanza critica e non
diventavano mai assidui frequentatori. Cicerone, ad esempio, riferiva di
impiegare i giorni di pubblica vacanza dedicati allo spettacolo per la stesura
dei suoi libri, ma non se ne privava in assoluto, come si legge nella sua
corrispondenza. Seneca combatteva la tendenza depressiva andando all’anfiteatro
per divertirsi, ed era egli stesso autore di opere teatrali. Mecenate, che pure
era un sofisticato epicureo, chiedeva il programma dei combattimenti a Orazio
per non rischiare di perderne alcuno. Marco Aurelio, imperatore e filosofo, assisteva
per dovere istituzionale a tutti gli incontri di gladiatori, ma ne prendeva le
distanze definendoli ripetitivi.
I cristiani
dei primi secoli, peraltro oggetto di persecuzione e massacri da parte dei
Romani, escludono gli spettacoli dalla loro dimensione esistenziale e ne
pronunciano una condanna senza appello: “Il Teatro è lascivia, il Circo è ansia,
l’Arena è crudeltà”[10]. La religione dell’amore non poteva accettare dei
volontari dell’assassinio e del suicidio, quali erano i gladiatori.
Probabilmente
il cimento maggiore per gli esercizi di temperanza era costituito dal piacere
dei bagni pubblici, soprattutto quelli molto frequentati.
Cicerone dice
che il suono del discus, ossia del grande gong che annunciava
ogni giorno l’apertura dei bagni pubblici, era all’orecchio più dolce della
voce dei filosofi nella loro scuola. Il bagno, che non era certo una semplice
pratica di pulizia, era considerato un piacere complesso, per certi
versi accostabile alla nostra vita di spiaggia durante le vacanze al mare. Lo
stato di benessere legato all’attivazione di processi fisiologici che
contrastano gli effetti neurormonali degli stati di stress, tensione, irritazione,
preoccupazione, ansia e umore depresso, non era certo noto agli antichi nei
termini scientifici delle basi biologiche che lo generano, ma era empiricamente
ben noto ai filosofi, la maggior parte dei quali lo considerava un piacere
lecito e utile, se praticato nei limiti di una moderazione che gli assegnava una
parte limitata nel tempo della giornata e nell’interesse della persona.
Il bagno
pubblico, che migliorava la condizione di percezione del proprio corpo e accresceva
la propensione sociale e la ricerca di relazione con l’altro sesso, poteva
essere accostato alle principali esperienze di piacere e, dunque, doveva essere
gestito con saggezza. Un antico proverbio, conosciuto a Sparta tanto quanto ad
Atene, recitava: “I bagni, il vino e Venere logorano il corpo, ma sono la vera
vita”[11]. L’equilibrio nel piacere era considerato parte
integrante della pratica delle virtù.
Lo stile,
trasmesso con l’educazione familiare e compiuto attraverso l’apprendimento comportamentale
delle convenzioni sociali, costituisce il principale legame fra psicologia
individuale e identità sociale. Per Omero, si sa, “lo stile è l’uomo” e denota
la forza del carattere, che può giungere ad assicurare un perfetto controllo di
sé in ogni circostanza, senza lasciare trasparire lo sconvolgimento interiore
dovuto al dolore morale e materiale: Ulisse è l’eroe che soffre nel cuore. Acquisire
uno stile non è solo temprare un carattere, ma è temperare l’istinto creando – come
diremmo oggi – delle memorie procedurali e d’abitudine, tali da contenere,
incanalare e modulare gli eccessi, nella forma di un agire saggio, ponderato e
sempre appropriato alle circostanze, lette e interpretate secondo le esigenze
della fronesis[12].
Sviluppare e
conservare uno stile era senz’altro un lavoro personale che richiedeva
un grande impegno individuale, ma l’aiuto che veniva dalla polis, con le
sue leggi, le regole, le convenzioni, le tradizioni e i suoi cittadini modello
che le interpretavano spesso in forma esemplare, aveva un peso determinante. Il
pepaidèumenos, ossia il cittadino bene educato al dovere del saper vivere
caratteristico dell’urbanità[13], che rispetta ogni persona e si comporta con i suoi
pari senza viltà né tracotanza, era per antonomasia un nobile di città o un
notabile, ma a tale stile aderiva, con differenze individuali, la maggioranza
di coloro che abitavano nel luogo delle regole del vivere sociale,
secondo l’etimo più antico del termine ethos, che designava, appunto, l’abitare.
L’ideale di
urbanità, desunto dal modello greco, impronta anche i primi tre secoli dell’Impero
Romano, in cui l’urbanesimo costituiva una sorta di prerequisito indispensabile
per il vivere civile. Paul Veyne afferma in proposito: “Gli uomini sono pienamente
sé stessi solo in città, e una città non è fatta di strade familiari e di folle
calorose e anonime, ma piuttosto di comodità materiali (commoda) come i
bagni pubblici, e di edifici pubblici che ne rialzano il tono agli occhi dei
suoi abitanti e dei viaggiatori e che fanno di essa qualcosa di ben più
significativo di un volgare centro abitato. Pausania si chiede: «si può chiamar
città un luogo che non ha né edifici pubblici, né ginnasio, né teatro, né
piazza, né fontane e dove la gente vive in capanne che sono dei tuguri (kalybài)
collocati sul margine di un burrone?». In campagna non si era del tutto se
stessi”[14].
Dunque, l’identità
dell’uomo si compiva solo nello stile del cittadino. E tale stile costituiva
premessa, modo e forma per l’esercizio di ogni virtù.
Proviamo ora
a sottoporre le virtù alla prova della morale.
Ulisse, nell’orizzonte
morale greco, è un modello di virtù, intese come abilità esercitate con
perizia, portate al livello di eccellenza e poi impiegate con acuta
intelligenza e accorta prudenza; nella concezione morale cristiana, Ulisse è
privo delle virtù fondamentali che esprimono e compiono l’amore per il prossimo,
ossia il comandamento che include tutti gli altri e dà la misura dell’amore di
Dio: Dante Alighieri nella Divina Commedia lo colloca all’inferno.
La dicotomia
fra mondo classico e cultura cristiana si rende evidente se si pensa che
coltivare l’essere e l’agire virtuoso, in ogni caso, fa riferimento ad un
modello ideale: una delle divinità dell’Olimpo per gli antichi, Gesù Cristo per
tutti, nel cristianesimo.
Proviamo a
mettere a confronto tra Greco-Romani (GR) e Cristiani (C), in sintesi
concettuale, alcuni passi sul cammino per diventare virtuosi che si possono
evincere da quanto fin qui esposto:
GR: Diventare
competenti del proprio desiderio, esperti della sua gestione equilibrata.
C: Educarsi all’oblazione
per non desiderare secondo la carne, ma secondo lo Spirito.
GR:
Esercitare le abilità che sviluppano equilibrio interiore, stile e forma della
persona.
C: Praticare
l’amore come dono di sé, amando il prossimo per amore di Dio.
GR: La
mancata soddisfazione dei desideri è considerata un esercizio, che può essere
praticato per accrescere la forza di volontà necessaria a trovare la giusta misura.
C: La
mancata soddisfazione dei desideri originati dal corpo e dalla cupidigia è una
rinuncia a sé stessi secondo il precetto dell’obbedienza, necessaria con
povertà e castità per salvare l’anima.
Le
differenze fra questi due modelli antropologici sono evidenti e, nella loro
essenza, inconciliabili; eppure, le forme che oggi li esprimono appaiono spesso
mescolate e confuse nelle rappresentazioni sociali e, come tali, spesso
emergono nella coscienza dei singoli.
Private
della loro radice di senso, le forme del comportamento perdono il fusto di
ragione della loro esistenza, di cui sono rami recisi, e rischiano di divenire
oggetti barattabili, beni negoziabili o semplicemente rinunciabili, in luogo di
equivalenti più allettanti, meno impegnativi e più in sintonia con le richieste
della maggioranza o di chi, per conformismo, ne media le istanze nelle più
strette relazioni interpersonali.
Solo
sviluppare una perfetta consapevolezza delle radici antropologiche di senso e meditare
profondamente sulla propria vita consente, a mio avviso, una reale
titolarità delle scelte. Anche se per molti il percorso è diverso e, talvolta,
il modello da seguire deriva da profonde ragioni di fede che sembrano conferire
un’intelligenza dell’uomo che può apparire in grado di fare a meno della storia.
Non si può concepire un’idea delle virtù, del loro profilo e della loro utilità
prescindendo da una visione dell’uomo e del mondo: chi crede di poterlo fare
sta implicitamente adottando concezioni di cui non è consapevole.
Il pensiero
giudaico-cristiano, dal racconto biblico di Caino e Abele al sacrificio redentivo
del Servo Sofferente di Jahvé, stabilisce precisi legami di responsabilità
fra gli uomini, che nel messaggio evangelico sono estesi a tutti i membri del
consesso umano. Molte forme di pensiero filosofico contemporaneo e varie
ideologie hanno assunto in sé questa radice, pur negando le verità di fede
ebraiche e cristiane.
In questa
ottica, l’umanità può essere considerata una gigantesca rete per le invisibili
connessioni tra i singoli, realizzate da legami di appartenenza, occultati dalla
routine individualistica e mortificati dalla durezza della realtà
quotidiana, ma rivelati dalla solidarietà. È questa contiguità, che spesso diventa
vera e propria continuità, che richiede le virtù del singolo, perché l’altro
sia sempre un fine e mai un mezzo, come già voleva Immanuel Kant, perché non
sia mai reificato, anche quando ci odia, perché non sia mai dimenticato, anche
quando non ci assomiglia.
Martin Buber
così esprime:
“L’uomo si
muove, parla, guarda e ciascuno dei suoi movimenti, ciascuna delle sue parole,
ciascuno dei suoi sguardi muove l’accadere del mondo, senza che egli sappia
quanto forti e ampie siano le onde di quel moto […]. Così ogni atto umano è un
vaso di responsabilità infinita”[15].
Le virtù
sono necessarie per riconoscere e conservare questi legami. Reciderli, e non
accorgersi che al taglio sanguinano, non vuol dire solo perdere il proprio
posto in un consesso civile, ma anche perdere l’umanità che c’è in noi.
L’autrice della nota ringrazia la
dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli
scritti di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare
il motore interno nella pagina “CERCA”).
Monica Lanfredini
BM&L-09 novembre 2019
________________________________________________________________________________
La Società Nazionale di Neuroscienze
BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è
registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in
data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1] Attualmente, seguendo una
tradizione sviluppata in seno alla psichiatria e alle altre discipline di
studio della mente, si intende per carattere quella parte della personalità che
si mette in comune nella relazione.
[2] La religione, nella sua eminente
funzione di controllo sociale, non rivestiva l’ambito spirituale, centrato nei
popoli della Bibbia dal rapporto intimo con un unico Dio creatore, ma
riguardava piuttosto strumentalità simboliche di tradizione culturale: le
divinità possono essere blandite, minacciate o ricattate, facendo leva sulle
loro umanissime debolezze. Non si stenta a riconoscere negli dei dell’Olimpo
esseri umani assurti a idoli per il loro potere o per qualità eccezionali.
Basti pensare alle lotte per il potere compiute da Zeus nella celebre
narrazione di Apollodoro.
[3] Paul Veyne, L’Impero Romano,
in La Vita Privata dall’Impero Romano all’Anno Mille a cura di Philippe
Ariès e Georges Duby (Peter Brown, Eveline Patlagean, Michel Rouche, Yvon
Thébert e Paul Veyne), p. 151, Edizione CDE Spa (su licenza di Giuseppe Laterza
e Figli), Milano 1987. Il corsivo è dell’autrice del testo, per sottolineare la
coerenza tra valori concepiti e vissuti rilevata anche da Paul Veyne.
[4] Venosa, colonia romana in posizione
strategica fra Apulia e Lucania, oggi nel territorio della Basilicata.
[5] Il Thermopolium di Asellina, ben
conservato nella Pompei archeologica, con il suo banco di vasi termici
costituisce il prototipo dei fast food ante litteram.
[6] La tradizione lo vuole santo
protettore di cuochi, rosticcieri, pastai, pasticcieri, oltre che di librai,
bibliotecari, vetrai e, ovviamente, diaconi.
[7] Naturalmente, oggi riconosciamo
in questo tratto antropologico la spinta biologica legata all’attivazione del sistema
a ricompensa cerebrale da parte di cibo, libagioni e circostanze
gratificanti.
[8] Luca: 16, 19-31.
[9] Giuseppe Perrella ricorda spesso
che ai Giochi Olimpici si deve la nascita della parola “theoria”. I giochi,
infatti, erano materialmente eseguiti dagli atleti che scendevano nell’agone,
col ruolo di agonisti, ma la cronaca che faceva conoscere a tutti coloro che
non avevano potuto presenziare, e soprattutto ai posteri, quanto fosse accaduto,
era redatta da scribi esperti della materia ed acuti interpreti dei fatti, che
vestivano una tunica che si chiamava teorica, per la quale erano detti teorici.
I loro scritti erano collettivamente indicati come la teoria dei giochi.
[10] Paul Veyne, op. cit., p. 146.
[11] Paul Veyne, op. cit., p. 132.
[12] Al concetto di phronesis,
che letteralmente indicava nel greco antico l’atto mentale del giudizio
ispirato alla più profonda e meditata saggezza, abbiamo dedicato uno speciale
approfondimento nel Seminario sull’Arte del Vivere, che per un periodo lo ha
eletto tra i riferimenti privilegiati nella costruzione di un “ambiente mentale
di armonico equilibrio” per la gestione delle istanze intrapsichiche e
relazionali del vissuto quotidiano.
[13] Cfr. Paul Veyne, op. cit., p. 133.
[14] Paul Veyne, op. cit., p. 135.
[15] Martin Buber, La mia vita al
chassidismo. Ricordi, cit. in S. Natoli, L’edificazione di sé, p.
72, Laterza, Roma-Bari 2010.