Necessità di virtù nel mondo di oggi

 

 

MONICA LANFREDINI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 09 novembre 2019.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]

 

Numerose richieste da parte dei lettori della “breve lezione di arte di vivere” pubblicata lo scorso 26 di ottobre, mi inducono a riprendere e proseguire il discorso sulle virtù, secondo il senso della loro radice storico-antropologica in rapporto alla necessità, spesso negata, trascurata e irrisa, del loro esercizio nella realtà contemporanea.

Come abbiamo visto, nell’antichità il rapporto delle virtù con la morale è tutt’altro che scontato, e si va da un areté che era un virtuoso di una tecnica o di un’arte, così come oggi lo si intende nella locuzione “un virtuoso del violino”, ad un agatòs le cui virtù morali costituivano un patrimonio pubblico. Le società contemporanee, nelle quali si possono riconoscere molti tratti di un neopaganesimo debole e inclusivo nei confronti delle diverse sensibilità religiose, intese come tradizioni culturali da rispettare e non quali visioni del mondo, diffusamente conservano la stima e l’apprezzamento per l’areté sportivo o del mondo dello spettacolo, soprattutto in quanto inclusi nel sistema economico che monetizza il valore della loro attività, ma tende sempre meno a riconoscere il valore esemplare delle virtù dell’artista e dello scienziato. Un’analisi delle ragioni di questo mutamento, caratterizzato dall’affermazione de facto di modi e forme ritenute in passato disvalori, quali la superficialità e l’approssimazione santificate dal loro legame con la capacità di diffondersi per identificazione tra le masse mediatiche e produrre enormi profitti, esula sicuramente dai confini di questa trattazione; pertanto, mi limiterò a considerare quali dati di fatto che oggi un tatuatore alla moda sia conosciuto e apprezzato molto più di un bravo pittore, o che la trovata di una virgola come marchio sia ritenuta geniale, mentre si ignorano le ingegnose soluzioni sperimentali che hanno portato a scoperte in grado di salvare o prolungare la vita di milioni di persone.

Seguendo il nostro intento seminariale di contribuire ad accrescere la consapevolezza individuale e sociale, proporrò alcuni aspetti della cultura antica che generavano e motivavano il valore delle virtù che ci hanno tramandato. Spero che i miei riferimenti a culture che, pur con le contraddizioni proprie dei popoli di ogni tempo, propongono una sostanziale coerenza tra valori  concepiti e vissuti, possa costituire uno stimolo alla presa di coscienza circa l’attuale acefala adesione ai modi diffusi e alle mode correnti, compresa quella del passivo conformismo nel seguire un anticonformismo di maniera, ormai divenuto un costume logoro che, tuttavia, pur al suo estremo grado di usura, non sembra perdere il valore di tessera di riconoscimento.

Per comprendere a fondo il senso di quanto ricaviamo dagli scritti e dai documenti del mondo antico è necessario aver presente che il campo della filosofia non consisteva in un repertorio di edifici concettuali ideali, ciascuno dei quali costruito a immagine e somiglianza del suo autore, e non era una raccolta di teorie nei campi privilegiati dell’ontologia e della metafisica, come accade per la materia filosofica insegnata nelle nostre università, ma era il campo non delimitato della conoscenza che l’uomo riusciva a sottrarre all’ignoto, portare alla ragione e impiegare per vivere.

Non meraviglia, dunque, che gli interessi del filosofo andassero dall’indagine sulla natura della terra e dell’animo umano allo sviluppo di tecniche e pratiche per conferire serenità allo spirito e forza alla personalità. Quest’ultima, dai Greci era identificata col carattere[1] e considerata la principale risorsa dello spirito, da modellare durante la crescita e allenare per tutta l’esistenza, allo scopo di proteggersi da rischi e pericoli provenienti sia dalle insidie della vita, sia da una dissennata gestione di sé. Come era accaduto per la medicina ippocratica, la cui impresa immane e disperata di conoscere le cause delle malattie per curarle aveva nutrito una teoretica profilattica, tradotta poi in un’igienistica, così accadeva che i grandi maestri del pensiero e le loro scuole costituissero un riferimento per chiunque avesse voluto acquisire uno stile di vita in grado di proteggerlo dai mali dell’anima e dalle sciagure che travolgono gli stolti.

La comprensione di questo ruolo del sapere filosofico nel mondo greco e greco-romano ci consente di apprezzare la portata e comprendere il valore pratico delle “palestre dei saggi” quali luoghi in cui le virtù si apprendono attraverso una pratica che include l’affrontare con l’aiuto del maestro i problemi e i disagi causati dai moti dello spirito e dalle vicissitudini quotidiane. Una differenza profonda con la realtà del mondo contemporaneo, in cui dello spirito si occupa la religione e della dimensione psicologica, in genere, si tiene conto solo quando vi sono dei disturbi che richiedono una diagnosi psicopatologica e un trattamento psicoterapico.

In proposito leggiamo in Paul Veyne: “Ora, presso gli Antichi, regole di vita ed esercizi spirituali erano l’essenza della filosofia, non della religione, e la religione era pressappoco separata dalle idee sulla morte e sull’aldilà[2]. Esistevano delle sette, ma erano filosofiche, perché la filosofia era la materia delle sette che proponevano, agli individui a cui la cosa potesse interessare, convinzioni e regole di vita; ci si faceva stoici o epicurei e ci si conformava più o meno alle proprie convinzioni, come presso di noi si è cristiani o marxisti, col dovere morale di vivere la propria fede o militare[3].

Proprio questa affascinante dimensione della “conduzione di sé” ci consente di comprendere il valore della pratica delle virtù quale esercizio dello spirito per prevenire i mali dell’anima e svolgere un’efficace azione per evitare o almeno ridurre il rischio di diventare preda di quegli eccessi che causano perdita di armonia interiore, con conseguente perdita di forza, senno e direzione, ovvero lucidità di coscienza nel perseguire gli obiettivi prioritari decisi alla luce della ragione.

A differenza di quanto accade nel mondo ebraico e accadrà nel mondo cristiano, ossia realtà nelle quali il senso di colpa generato dalla trasgressione dei comandamenti è inciso nell’intimo come imperativo interiore che porta ad evitare, quali condizioni prossime di peccato, gli stati di ridotta coscienza associati all’abbandono edonistico, all’ubriachezza e alla promiscuità, nel mondo classico la maggioranza delle dottrine includeva l’esperienza di questi stati della mente allo scopo di imparare a dominarli e a non divenirne schiavi.

Esempi interessanti sono i banchetti, gli spettacoli e i bagni pubblici.

Il banchetto, che in generale costituiva una circostanza in cui si godeva dei piaceri della tavola, dai cibi al vino, fin dalle epoche più antiche era stato sottratto all’ideologia bacchica ed era divenuto un’occasione filosofica, nota con il nome di simposio presso i Greci e di convivio presso i Romani.

Il banchetto, quale evento per molti versi pubblico, organizzato da potenti o emergenti nelle società antiche, incluse quelle ebraiche, non ha mai una considerazione uniforme: rifuggito dagli stoici, dalla maggioranza degli epicurei e da molti seguaci di dottrine dai costumi rigorosi, è invece apprezzato da molti altri filosofi e personaggi pubblici che nella polis greca e nelle città romane lo considerano segno di civiltà, promuovendo lo sviluppo dell’arte culinaria e della presentazione artistica delle portate in un contesto dove musici, poeti e pensatori potevano esibirsi. Orazio, nonostante fosse influenzato dal pensiero epicureo che prescriveva esercizi di progressiva riduzione del piacere della tavola, ad ogni ritorno nella sua terra natìa[4] organizzava banchetti ai quali invitava cantanti o attrici note. Presso i Romani, il potere imperiale favoriva le occasioni conviviali, ma condusse una dura battaglia durata quattro secoli contro le osterie (cauponae) che servivano vivande calde da asporto ai viandanti nella funzione di thermopolium[5], perché si riteneva che prendere cibo per strada potesse, per molti versi, favorire la corruzione dei costumi e contribuire alla temuta mollitia.

In epoca cristiana, sebbene i banchetti fossero banditi per l’esplicita condanna che si desume dalla parabola evangelica del ricco Epulone punito col tormento del fuoco eterno, la contraddizione non è del tutto risolta. I cristiani praticavano con regolarità il digiuno penitenziale, organizzavano mense pubbliche per i poveri, alle quali avevano destinato specifici addetti - come si legge negli Atti degli Apostoli di Luca - cui era stato dato il nome di diaconi. San Lorenzo, martire a 33 anni dell’Imperatore Valeriano, era uno dei sette diaconi di Roma[6]. Tuttavia, gli inviti a pranzo con numerosi convitati, anche al di fuori dei festeggiamenti per le nozze ed altri lieti eventi, sono documentati anche in questo periodo.

La possibilità di cedere al piacere della tavola[7], senza farne un vizio ma cercando di creare un compromesso con gli austeri costumi dei seguaci di Cristo, motiva un’interpretazione meno severa e restrittiva del brano di Luca[8]: il ricco Epulone non è condannato all’inferno perché cedeva quotidianamente al piacere della tavola, senza apparentemente fare del male a nessuno, ma perché non invitava Lazzaro alla sua mensa a sfamarsi, e non lo ospitava nella sua casa per curarlo dei suoi mali.

Nascono così a Firenze confraternite con lo scopo dichiarato della devozione per la Vergine o per un santo ma, come racconta Davidsohn, oltre alla grande solennità pubblica con la quale celebravano i funerali dei loro membri, erano noti per lo smodato amore dei banchetti. Una traccia di un’antica arciconfraternita dei cuochi si trova nella chiesa di Dante in Firenze. San Cipriano scrive: il banchetto e la sepoltura sono i due oggetti delle confraternite. A Fano, sull’Adriatico, nacque la confraternita dei “Bontemponi che cenano insieme”.

Ma, tornando al mondo antico, un altro ambito di cimento della capacità di esercitare la base di ogni virtù, ossia trovare il giusto mezzo per non essere asserviti dal piacere, era quello degli spettacoli.

Nel mondo greco la tradizione dei Giochi Olimpici ha rappresentato un paradigma di importanza assoluta, che poi ha segnato tutta cultura occidentale, investendo il mondo intero in epoca moderna[9]. Ma, al di là di questo evento straordinario, vi erano normali campionati o concorsi atletici, distinti per dimensioni: isolympicòi e periodicòi, i maggiori, poi venivano gli stephanitài, limitati al solo mondo greco e collegati ad una celebrata fiera, e infine i themidès, di portata locale.

Si trattava di un piacere pubblico, condiviso da tutte le classi sociali e raramente oggetto di riprovazione; al contrario, la censura era spesso pronunciata, su base platonica, per vari tipi di spettacolo teatrale. Infatti, finita l’egemonia del teatro filosofico tipico dell’epoca aurea, la satira di costume che poneva in scena la lascivia, la volgarità delle forme presenti nel teatro minore, gli spettacoli con canzoni da cantare in coro dopo abbondanti bevute di vino e pasti consumati sulle gradinate, erano divenuti la regola.

Agli spettacoli i saggi assistevano, ma si tenevano a distanza critica e non diventavano mai assidui frequentatori. Cicerone, ad esempio, riferiva di impiegare i giorni di pubblica vacanza dedicati allo spettacolo per la stesura dei suoi libri, ma non se ne privava in assoluto, come si legge nella sua corrispondenza. Seneca combatteva la tendenza depressiva andando all’anfiteatro per divertirsi, ed era egli stesso autore di opere teatrali. Mecenate, che pure era un sofisticato epicureo, chiedeva il programma dei combattimenti a Orazio per non rischiare di perderne alcuno. Marco Aurelio, imperatore e filosofo, assisteva per dovere istituzionale a tutti gli incontri di gladiatori, ma ne prendeva le distanze definendoli ripetitivi.

I cristiani dei primi secoli, peraltro oggetto di persecuzione e massacri da parte dei Romani, escludono gli spettacoli dalla loro dimensione esistenziale e ne pronunciano una condanna senza appello: “Il Teatro è lascivia, il Circo è ansia, l’Arena è crudeltà”[10]. La religione dell’amore non poteva accettare dei volontari dell’assassinio e del suicidio, quali erano i gladiatori.

Probabilmente il cimento maggiore per gli esercizi di temperanza era costituito dal piacere dei bagni pubblici, soprattutto quelli molto frequentati.

Cicerone dice che il suono del discus, ossia del grande gong che annunciava ogni giorno l’apertura dei bagni pubblici, era all’orecchio più dolce della voce dei filosofi nella loro scuola. Il bagno, che non era certo una semplice pratica di pulizia, era considerato un piacere complesso, per certi versi accostabile alla nostra vita di spiaggia durante le vacanze al mare. Lo stato di benessere legato all’attivazione di processi fisiologici che contrastano gli effetti neurormonali degli stati di stress, tensione, irritazione, preoccupazione, ansia e umore depresso, non era certo noto agli antichi nei termini scientifici delle basi biologiche che lo generano, ma era empiricamente ben noto ai filosofi, la maggior parte dei quali lo considerava un piacere lecito e utile, se praticato nei limiti di una moderazione che gli assegnava una parte limitata nel tempo della giornata e nell’interesse della persona.

Il bagno pubblico, che migliorava la condizione di percezione del proprio corpo e accresceva la propensione sociale e la ricerca di relazione con l’altro sesso, poteva essere accostato alle principali esperienze di piacere e, dunque, doveva essere gestito con saggezza. Un antico proverbio, conosciuto a Sparta tanto quanto ad Atene, recitava: “I bagni, il vino e Venere logorano il corpo, ma sono la vera vita”[11]. L’equilibrio nel piacere era considerato parte integrante della pratica delle virtù.

Lo stile, trasmesso con l’educazione familiare e compiuto attraverso l’apprendimento comportamentale delle convenzioni sociali, costituisce il principale legame fra psicologia individuale e identità sociale. Per Omero, si sa, “lo stile è l’uomo” e denota la forza del carattere, che può giungere ad assicurare un perfetto controllo di sé in ogni circostanza, senza lasciare trasparire lo sconvolgimento interiore dovuto al dolore morale e materiale: Ulisse è l’eroe che soffre nel cuore. Acquisire uno stile non è solo temprare un carattere, ma è temperare l’istinto creando – come diremmo oggi – delle memorie procedurali e d’abitudine, tali da contenere, incanalare e modulare gli eccessi, nella forma di un agire saggio, ponderato e sempre appropriato alle circostanze, lette e interpretate secondo le esigenze della fronesis[12].

Sviluppare e conservare uno stile era senz’altro un lavoro personale che richiedeva un grande impegno individuale, ma l’aiuto che veniva dalla polis, con le sue leggi, le regole, le convenzioni, le tradizioni e i suoi cittadini modello che le interpretavano spesso in forma esemplare, aveva un peso determinante. Il pepaidèumenos, ossia il cittadino bene educato al dovere del saper vivere caratteristico dell’urbanità[13], che rispetta ogni persona e si comporta con i suoi pari senza viltà né tracotanza, era per antonomasia un nobile di città o un notabile, ma a tale stile aderiva, con differenze individuali, la maggioranza di coloro che abitavano nel luogo delle regole del vivere sociale, secondo l’etimo più antico del termine ethos, che designava, appunto, l’abitare.

L’ideale di urbanità, desunto dal modello greco, impronta anche i primi tre secoli dell’Impero Romano, in cui l’urbanesimo costituiva una sorta di prerequisito indispensabile per il vivere civile. Paul Veyne afferma in proposito: “Gli uomini sono pienamente sé stessi solo in città, e una città non è fatta di strade familiari e di folle calorose e anonime, ma piuttosto di comodità materiali (commoda) come i bagni pubblici, e di edifici pubblici che ne rialzano il tono agli occhi dei suoi abitanti e dei viaggiatori e che fanno di essa qualcosa di ben più significativo di un volgare centro abitato. Pausania si chiede: «si può chiamar città un luogo che non ha né edifici pubblici, né ginnasio, né teatro, né piazza, né fontane e dove la gente vive in capanne che sono dei tuguri (kalybài) collocati sul margine di un burrone?». In campagna non si era del tutto se stessi”[14].

Dunque, l’identità dell’uomo si compiva solo nello stile del cittadino. E tale stile costituiva premessa, modo e forma per l’esercizio di ogni virtù.

 

Proviamo ora a sottoporre le virtù alla prova della morale.

Ulisse, nell’orizzonte morale greco, è un modello di virtù, intese come abilità esercitate con perizia, portate al livello di eccellenza e poi impiegate con acuta intelligenza e accorta prudenza; nella concezione morale cristiana, Ulisse è privo delle virtù fondamentali che esprimono e compiono l’amore per il prossimo, ossia il comandamento che include tutti gli altri e dà la misura dell’amore di Dio: Dante Alighieri nella Divina Commedia lo colloca all’inferno.

La dicotomia fra mondo classico e cultura cristiana si rende evidente se si pensa che coltivare l’essere e l’agire virtuoso, in ogni caso, fa riferimento ad un modello ideale: una delle divinità dell’Olimpo per gli antichi, Gesù Cristo per tutti, nel cristianesimo.

Proviamo a mettere a confronto tra Greco-Romani (GR) e Cristiani (C), in sintesi concettuale, alcuni passi sul cammino per diventare virtuosi che si possono evincere da quanto fin qui esposto:

 

GR: Diventare competenti del proprio desiderio, esperti della sua gestione equilibrata.

C: Educarsi all’oblazione per non desiderare secondo la carne, ma secondo lo Spirito.

 

GR: Esercitare le abilità che sviluppano equilibrio interiore, stile e forma della persona.

C: Praticare l’amore come dono di sé, amando il prossimo per amore di Dio.

 

GR: La mancata soddisfazione dei desideri è considerata un esercizio, che può essere praticato per accrescere la forza di volontà necessaria a trovare la giusta misura.

C: La mancata soddisfazione dei desideri originati dal corpo e dalla cupidigia è una rinuncia a sé stessi secondo il precetto dell’obbedienza, necessaria con povertà e castità per salvare l’anima.

 

Le differenze fra questi due modelli antropologici sono evidenti e, nella loro essenza, inconciliabili; eppure, le forme che oggi li esprimono appaiono spesso mescolate e confuse nelle rappresentazioni sociali e, come tali, spesso emergono nella coscienza dei singoli.

Private della loro radice di senso, le forme del comportamento perdono il fusto di ragione della loro esistenza, di cui sono rami recisi, e rischiano di divenire oggetti barattabili, beni negoziabili o semplicemente rinunciabili, in luogo di equivalenti più allettanti, meno impegnativi e più in sintonia con le richieste della maggioranza o di chi, per conformismo, ne media le istanze nelle più strette relazioni interpersonali.

Solo sviluppare una perfetta consapevolezza delle radici antropologiche di senso e meditare profondamente sulla propria vita consente, a mio avviso, una reale titolarità delle scelte. Anche se per molti il percorso è diverso e, talvolta, il modello da seguire deriva da profonde ragioni di fede che sembrano conferire un’intelligenza dell’uomo che può apparire in grado di fare a meno della storia. Non si può concepire un’idea delle virtù, del loro profilo e della loro utilità prescindendo da una visione dell’uomo e del mondo: chi crede di poterlo fare sta implicitamente adottando concezioni di cui non è consapevole.

Il pensiero giudaico-cristiano, dal racconto biblico di Caino e Abele al sacrificio redentivo del Servo Sofferente di Jahvé, stabilisce precisi legami di responsabilità fra gli uomini, che nel messaggio evangelico sono estesi a tutti i membri del consesso umano. Molte forme di pensiero filosofico contemporaneo e varie ideologie hanno assunto in sé questa radice, pur negando le verità di fede ebraiche e cristiane.

In questa ottica, l’umanità può essere considerata una gigantesca rete per le invisibili connessioni tra i singoli, realizzate da legami di appartenenza, occultati dalla routine individualistica e mortificati dalla durezza della realtà quotidiana, ma rivelati dalla solidarietà. È questa contiguità, che spesso diventa vera e propria continuità, che richiede le virtù del singolo, perché l’altro sia sempre un fine e mai un mezzo, come già voleva Immanuel Kant, perché non sia mai reificato, anche quando ci odia, perché non sia mai dimenticato, anche quando non ci assomiglia.

Martin Buber così esprime:

“L’uomo si muove, parla, guarda e ciascuno dei suoi movimenti, ciascuna delle sue parole, ciascuno dei suoi sguardi muove l’accadere del mondo, senza che egli sappia quanto forti e ampie siano le onde di quel moto […]. Così ogni atto umano è un vaso di responsabilità infinita”[15].

Le virtù sono necessarie per riconoscere e conservare questi legami. Reciderli, e non accorgersi che al taglio sanguinano, non vuol dire solo perdere il proprio posto in un consesso civile, ma anche perdere l’umanità che c’è in noi.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Monica Lanfredini

BM&L-09 novembre 2019

www.brainmindlife.org

 

 

 

________________________________________________________________________________

 

La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 



[1] Attualmente, seguendo una tradizione sviluppata in seno alla psichiatria e alle altre discipline di studio della mente, si intende per carattere quella parte della personalità che si mette in comune nella relazione.

[2] La religione, nella sua eminente funzione di controllo sociale, non rivestiva l’ambito spirituale, centrato nei popoli della Bibbia dal rapporto intimo con un unico Dio creatore, ma riguardava piuttosto strumentalità simboliche di tradizione culturale: le divinità possono essere blandite, minacciate o ricattate, facendo leva sulle loro umanissime debolezze. Non si stenta a riconoscere negli dei dell’Olimpo esseri umani assurti a idoli per il loro potere o per qualità eccezionali. Basti pensare alle lotte per il potere compiute da Zeus nella celebre narrazione di Apollodoro.

[3] Paul Veyne, L’Impero Romano, in La Vita Privata dall’Impero Romano all’Anno Mille a cura di Philippe Ariès e Georges Duby (Peter Brown, Eveline Patlagean, Michel Rouche, Yvon Thébert e Paul Veyne), p. 151, Edizione CDE Spa (su licenza di Giuseppe Laterza e Figli), Milano 1987. Il corsivo è dell’autrice del testo, per sottolineare la coerenza tra valori concepiti e vissuti rilevata anche da Paul Veyne.

[4] Venosa, colonia romana in posizione strategica fra Apulia e Lucania, oggi nel territorio della Basilicata.

[5] Il Thermopolium di Asellina, ben conservato nella Pompei archeologica, con il suo banco di vasi termici costituisce il prototipo dei fast food ante litteram.

[6] La tradizione lo vuole santo protettore di cuochi, rosticcieri, pastai, pasticcieri, oltre che di librai, bibliotecari, vetrai e, ovviamente, diaconi.

[7] Naturalmente, oggi riconosciamo in questo tratto antropologico la spinta biologica legata all’attivazione del sistema a ricompensa cerebrale da parte di cibo, libagioni e circostanze gratificanti.

[8] Luca: 16, 19-31.

[9] Giuseppe Perrella ricorda spesso che ai Giochi Olimpici si deve la nascita della parola “theoria”. I giochi, infatti, erano materialmente eseguiti dagli atleti che scendevano nell’agone, col ruolo di agonisti, ma la cronaca che faceva conoscere a tutti coloro che non avevano potuto presenziare, e soprattutto ai posteri, quanto fosse accaduto, era redatta da scribi esperti della materia ed acuti interpreti dei fatti, che vestivano una tunica che si chiamava teorica, per la quale erano detti teorici. I loro scritti erano collettivamente indicati come la teoria dei giochi.

[10] Paul Veyne, op. cit., p. 146.

[11] Paul Veyne, op. cit., p. 132.

[12] Al concetto di phronesis, che letteralmente indicava nel greco antico l’atto mentale del giudizio ispirato alla più profonda e meditata saggezza, abbiamo dedicato uno speciale approfondimento nel Seminario sull’Arte del Vivere, che per un periodo lo ha eletto tra i riferimenti privilegiati nella costruzione di un “ambiente mentale di armonico equilibrio” per la gestione delle istanze intrapsichiche e relazionali del vissuto quotidiano.

[13] Cfr. Paul Veyne, op. cit., p. 133.

 

[14] Paul Veyne, op. cit., p. 135.

[15] Martin Buber, La mia vita al chassidismo. Ricordi, cit. in S. Natoli, L’edificazione di sé, p. 72, Laterza, Roma-Bari 2010.