Una breve lezione di arte di vivere

 

 

MONICA LANFREDINI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 26 ottobre 2019.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]

 

Il protagonista de L’Uomo senza Qualità (Der Mann ohne Eigenschaften), il capolavoro di Robert Musil che compone con La Ricerca del Tempo Perduto di Proust e l’Ulisse di Joyce il trittico delle massime opere letterarie del Novecento, possedeva intelligenza, curiosità, conoscenze, e abilità; tuttavia, non si decideva ad applicarle ed esercitarle secondo le convenzioni, i canoni, le forme sociali e le modalità necessarie a soddisfare le esigenze degli schemi comunemente adottati per interpretare i valori. Spesso Ulrich – questo era il suo nome – preferiva al senso della realtà quello della possibilità, che Musil definisce come “la capacità di pensare tutto quello che potrebbe ugualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è”[1], realizzando di fatto una dimensione creativa, ma anche generando nella propria mente sogni, entropia e inibizione.

Nella fase decostruttiva dei principali edifici del pensiero neoclassico che avevano improntato la cultura ottocentesca, si era andata affermando, pur secondo tesi differenti e talora opposte per ideologia, una tendenza a privare di valore tutte le espressioni di virtù dell’uomo celebrate dalla morale borghese. In questa temperie, si è spesso fatto del profilo di Ulrich un modello dell’uomo che si apprestava ad entrare nell’epoca post-moderna, assumendo quale descrizione reale del personaggio-simbolo, sulla base di un equivoco, il giudizio denigratorio di “uomo senza qualità”, nella trama di Musil formulato da suo padre, che era un perfetto interprete dei valori di senso e di ruolo della borghesia mitteleuropea. Ulrich le qualità le aveva, ma non le impiegava secondo convenzione.

In altri termini, il protagonista di questa straordinaria opera narrativa non può essere considerato l’emblema della distruzione del “soggetto della ragione neoclassica” o, come si è detto, il modello della personalità nevrotica che sostituisce tanto la perfezione apollinea dell’ideale dominante presso le classi agiate, quanto il mito efficientista del self-made man proveniente da oltreoceano e in grado di costituire una segreta alternativa per le coscienze devote alla rivoluzione proletaria. Se intendiamo la libertà come un potere d’agire, possiamo affermare che a Ulrich non mancava questa risorsa: non gli facevano difetto né i mezzi economici, in quanto godeva di stipendio e patrimonio di famiglia, né le energie psichiche, perché le sue facoltà non erano realmente compromesse da uno stato di sofferenza interiore. Ulrich, solo apparentemente, manca di determinazione perseverante per la realizzazione di scopi sociali; in realtà il problema è che rifiuta i modi e le forme precostituite per mettere a frutto i propri talenti e realizzare i propri desideri; pertanto, non trova le vie in cui far confluire passione costruttiva ed entusiasmo esecutivo, e così rimane sospeso o finisce per accettare senza convinzione il compromesso di aderire a quanto sente di non poter rimandare, accantonare o rifiutare, per obblighi interiori fondati dalla buona educazione e resi esecutivi dalla forza estorsiva delle circostanze. Visto il suo sentire, Ulrich dovrebbe trovare e creare modi propri per esprimere e realizzare nel mondo il sé stesso interiore, ma non ne ha la forza. Perché? Se ragionassimo come un antico Ateniese dei secoli aurei della cultura greca, potremmo dire che al personaggio di Musil manca il senso della vita come missione da compiere, e da compiere a tutti costi quale dovere del vivente. Se invece proviamo ad adottare la prospettiva morale assoluta del valore dell’uomo, secondo la tradizione giudaico-cristiana, non abbiamo dubbi: Ulrich non ha Dio.

In altre parole, secondo queste due visioni che costituiscono il riferimento principale del nostro lavoro nel campo dell’Arte del Vivere, realizzare la propria vita nel rapporto col mondo richiede una profonda adesione ad un valore che trascende le contingenze del tempo storico e prescinde dalle circostanze occasionali. La missione, che in Socrate stesso, così come lo trasmette Platone, viene riportata al dio e non a una figura dell’Olimpo, e nel cristianesimo si sostanzia nell’imitazione di Cristo, richiede l’esercizio di virtù.

L’esercizio delle virtù, quale chiave del governo di sé che consente la saggia interpretazione e gestione delle relazioni interumane, nonostante tutto il discredito cui è stato periodicamente soggetto nel corso della storia, sembra rimanere come un’istanza ineliminabile, forse perché prossima alla natura stessa dell’uomo.

Molti, fra coloro che hanno dismesso il paradigma delle virtù quale retaggio del mito mitteleuropeo della bildung, ossia della costruzione interiore, o, peggio ancora, quale residuo anacronistico di una pedagogia religiosa superata dalla coscienza collettiva del ventesimo secolo, hanno bollato la concezione di un agire virtuoso come effetto di quel moralismo esemplarmente condannato da Nietzsche, il filosofo che, arrivando a dire che tutto ciò che è naturale è morale, aveva definitivamente reciso i legami del pensiero filosofico dominante con l’etica spirituale. Eppure, costoro non avevano – e i loro epigoni che sono fra noi non hanno – tenuto conto di quanto Nietzsche stesso afferma in Umano troppo umano (II), ossia che un uomo che non voglia diventare signore della sua irascibilità, del suo rancore e della sua lussuria, e cerca di diventare signore di una qualsiasi altra cosa, è stolto come l’agricoltore che semina accanto a un torrente senza proteggere il campo dallo straripamento stagionale. A quanto pare, la pratica del dominio di sé, anche se non in nome di un credo che lo esige quale responsabilità della creatura verso il Creatore e il prossimo, è ritenuta essenziale anche da Nietzsche, se non altro quale prerequisito fondamentale nella pratica dell’intelligenza sociale.

L’esperienza di vita, alla luce delle riflessioni sviluppate nel nostro studio seminariale sull’Arte del Vivere, ha confermato la nostra convinzione che la cura di sé, nella ricerca del migliore equilibrio possibile per la fisiologia degli stati psico-fisici, è intimamente connessa con le pratiche ispirate a principi di saggezza nel rapporto affettivo e comunicativo con gli altri. Il percorso che abbiamo compiuto, ci ha portato a considerare la possibilità di vivere e interpretare un’estetica dell’esistenza che, di fatto, si è rivelata in grado di contribuire al nutrimento psichico, fornendo un sostegno non secondario per gli sforzi necessari a sopportare frustrazioni, delusioni, fastidi, soprusi, prepotenze, fatiche e sofferenze della vita quotidiana. Questo legame fra l’etica dei rapporti e l’estetica del vissuto nell’esercizio pratico è stato da noi più volte trattato anche in brevi esposizioni pubblicate nelle “Notule”, alle quali si rinvia anche per i numerosi riferimenti ad esperienze culturali concettualmente affini, quali quelle di Goethe e Dostoevskij (La bellezza salverà il mondo).

Le virtù sembrano, dunque, essere necessarie in ogni epoca, e originariamente nel pensiero greco, e a nostro avviso nell’ontogenesi psicologica, emergono dall’intreccio etico-estetico testimoniato dall’etimo e dall’estensione semantica della parola areté, che fa del buono morale naturalmente riconosciuto da ciascuno un fondamento del bello, ossia di ciò che è degno di ammirazione. È questo il termine impiegato da Platone nel Filebo, in cui si legge: “infatti la misura e la proporzione vengono a realizzare, dovunque, bellezza e virtù”[2]; e la parola, che appartiene alla stessa famiglia del verbo aretào che copre uno spettro semantico esteso da prosperare a essere fortunati, indica tanto la fertilità quanto la condizione di colui che, esercitando con costanza una dote naturale mediante una tecnica, raggiunge l’eccellenza. Per metonimia, Ulisse era un areté, in quanto era un virtuoso del tiro con l’arco e di tutte le arti militari. In questo senso la virtù è intesa come il prodotto di un lungo e intenso addestramento e non tanto come diretta conseguenza dell’essere estlòs, cioè nobile d’animo, o necessariamente aver raggiunto lo status di agatos, ossia colui che pone le abilità dell’areté al servizio di un superiore valore morale altruistico. In questo senso generico di abilità raggiunta con lunga e paziente pratica si intendono le virtù nei testi aristotelici. Un neo-aristotelico come Salvatore Natoli ha osservato che areté ha la medesima radice sanscrita ar del latino ars, che indica l’abilità nel costruire, nel fabbricare, denotando perizia e capacità d’invenzione, e da molti scritti si deduce che areté si impiegava anche per designare una pratica efficace, che dà risultati ed è quindi degna di merito.

Da questo studio linguistico, si deduce che nel mondo antico il concetto di virtù riferito a qualità morali individuali si era sviluppato a partire da esercizi volti a dominare i desideri generati dall’istinto per poter realizzare quanto la ragione, secondo le esigenze di quella speciale dimensione della saggezza espressa nel giudizio e designata dal termine fronesis, suggeriva all’intelletto. Tale tesi trova numerosissime conferme nei testi dei filosofi che narrano delle pratiche necessarie a diventare virtuosi. Una palestra che, secondo le conoscenze neuroscientifiche attuali, riusciva a tenere lontano il rischio di una iperattivazione del sistema a ricompensa che fa capo all’area tegmentale ventrale (VTA) e che, con differenze di soglia individuale, può indurre quella spinta imperiosa verso la ripetizione compulsiva dell’esperienza che rende “schiavi del vizio”, per dirla con un’espressione convenzionale di altri tempi. Gli Epicurei riducevano ogni giorno e poco per volta la quantità di piacere derivante da cibi, libagioni e sesso per conoscere il proprio desiderio e stabilire un limite fra necessario e voluttuario.

L’aspetto interessante di questa pratica e delle altre simili consiste nel costituire un esperimento vero e proprio condotto su sé stessi, per riuscire ad essere realmente liberi e non condizionati da un funzionamento interno evitabile, che trasforma il desiderio, conferendogli l’urgenza del bisogno e l’impellenza della necessità, per dirla col nostro presidente che, in proposito, sottolinea come la forzatura indotta dall’attivazione eccessiva dei meccanismi del piacere comporta l’alterazione dello schema fisiologico delle priorità ordinariamente attivo nel nostro cervello.

L’esperimento epicureo della riduzione progressiva dei piaceri ci riporta a un testo che forse per la prima volta aveva indagato il carattere conoscitivo e sperimentale dell’approccio alla sessualità nel mondo antico, ossia un saggio sull’uso dei piaceri che Michel Foucault aveva concepito quale parte di una raccolta dal titolo La volontà di sapere – storia della sessualità.

Conosciuto il potere della sessualità, che non è solo riproduttivo ma anche potenzialmente compulsivo, gli antichi ideavano strategie per sviluppare temperanza e conservarla con perseverante costanza, come e più di quanto facevano per resistere al desiderio di vino, altre bevande alcooliche contenenti sostanze psicotrope di uso empirico e, ovviamente, cibi e pietanze gustose. Il limite non era dato, come è possibile fare oggi sulla base delle conoscenze scientifiche, dal rischio di danneggiarsi la salute, di vivere di meno o sviluppare una “dipendenza”, ma era desunto dal giudizio empirico sullo stato della persona. Ad esempio, al tempo di Aristotele la maggior parte degli Ateniesi colti riconosceva la superiorità degli Spartani sui capi militari della propria città, e vari filosofi, attribuendo al maggior coraggio dei Lacedemoni questa maggiore forza di personalità, dedicavano non pochi sforzi al tentativo di concepire modi per accrescere la virtù del coraggio, sia quale parte della cura di sé del singolo – che in tal modo avrebbe potuto allontanare i circoli viziosi capaci di ridurre forza morale e generare ipocondria[3] – sia nell’interesse della città, perché si riteneva che fossero i cittadini virtuosi a rendere buona la propria patria e non viceversa.

L’etnogenesi dei Greci, come spiega Assmann, è eroica: basti pensare che la coscienza panellenica dell’antichità si fonda sull’Iliade e sulla sua diffusione. Non meraviglia, dunque, che Aristotele, nella sua disamina sulle virtù, prenda le mosse proprio dal coraggio. Dopo aver ripartito le qualità in etiche, riguardanti il dominio delle passioni, e dianoetiche, riguardanti la capacità e lucidità di giudizio, e aver distinto le virtù intellettuali, come sapienza, senno e saggezza, da quelle morali, quali generosità e temperanza, traccia il profilo del coraggio. Il giusto mezzo (mesòtes) fra paura inibitoria e temerarietà irriflessiva è il modo più proficuo e saggio di amministrare l’energia psichica di cui si dispone, a beneficio personale e pubblico. Il coraggio aristotelico non è l’ardimento in imprese belliche, ma soprattutto un’attiva e laboriosa esecutività contrapposta all’ignavia timorosa e alla fuga irresponsabile dai propri doveri.

Nell’analisi della virtù, Aristotele prende in considerazione cinque categorie di coraggio, secondo la cultura corrente, ma la trattazione è in gran parte critica: 1) il coraggio civico; 2) il coraggio che deriva dall’esperienza del pericolo; 3) il coraggio che scaturisce dall’impetuosità; 4) il coraggio di chi è abituato a vincere; 5) il coraggio degli ignari.

Aristotele descrive ogni virtù come giusta misura tra due estremi: la moderazione, tra l’insensibilità e l’incontinenza; la liberalità tra l’avarizia e la prodigalità; la magnanimità tra pusillanimità e vanità; la mitezza tra l’indifferenza e l’iracondia; la veracità tra dissimulazione e millanteria.

La virtù nell’orizzonte della cultura cristiana, oltre ad essere sempre una qualità morale e mai un’abilità esercitata, assume un valore paradigmaticamente diverso da quello che abbiamo tracciato per la tradizione filosofica greca, e anche se in dottrina si elencano le virtù teologali (fede, speranza e carità) e le virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza), la loro conoscenza e la loro pratica non devono essere concepite come uno studio teorico seguito dall’esercizio ripetuto di tecniche o strategie, ma come la conseguenza di un percorso spirituale di purificazione e avvicinamento sempre maggiore a Dio attraverso l’amore del prossimo.

Un altro aspetto precipuo dell’ispirazione cristiana che non nasce come una religione ma quale conseguenza di un fatto, ossia l’incarnazione di Gesù Cristo avvenuta presso il popolo ebraico di osservanza mosaica, consiste nell’essere virtualmente indipendente dal tempo storico che, pur se influisce su aspetti dei costumi dei religiosi e dei fedeli (secolarizzazione), nella sostanza rimane fissato alla parola annunciata nei Vangeli, quale verità rivelata come verbo pronunciato dalla Seconda Persona della SS. Trinità, e pertanto non mutabile da mano umana.

È noto che nella visione cristiana l’uomo, nella sua intima natura, non cambia nel tempo e, ad ogni generazione, ciascuno ha la possibilità di diventare nuovo in un modo non caduco ma assoluto, liberandosi dai vincoli del mondo che legano istinti e bisogni alle logiche del potere dominante in quel luogo e in quel tempo. Nel cristianesimo, l’annuncio della buona novella della resurrezione di Cristo, che prelude alla resurrezione di tutti coloro che lo seguano durante la vita, chiama tutti, in ogni epoca e in ogni giorno dell’esistenza di ciascuno, alla conversione. E questo convertirsi alla dottrina dell’amore è ciò che cambia e radicalmente rinnova, generando ogni virtù.

Non poteva trovare modo migliore, Michelangelo Buonarroti, di figurare nella Cappella Sistina l’Uomo Nuovo, che rappresentarlo senza indumenti o altri segni di un particolare tempo della storia, proteso in uno slancio che congiunge il mondo antico a quello futuro, la Gerusalemme dei padri a quella celeste: è un Cristo senza più la croce, un sofferente che non patisce più, e trionfa sul dolore, sul male, sul tempo ed entra nella gloria di una gioia senza fine.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Monica Lanfredini

BM&L-26 ottobre 2019

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Robert Musil, L’Uomo senza Qualità, vol. I, p. 12, Einaudi, Torino 1972.

[2] Platone, Filebo, 64e, 5-7, Rusconi, Milano 1995.

[3] Oggi potremmo dire che ritenevano l’esercizio della virtù del coraggio, insieme con il costante esercizio fisico di addestramento, un modo per prevenire i disturbi depressivi.