Esce dal coma dopo 27 anni e riapre questioni mai realmente risolte

 

 

LORENZO BORGIA & GIUSEPPE PERRELLA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 28 settembre 2019.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO/DISCUSSIONE]

 

Il sole può tramontare e poi risorgere. Noi, invece, una volta che il nostro

breve giorno si spegne, abbiamo il sonno di una notte senza fine.

[Gaio Valerio Catullo, Carme V, I sec. a.C.]

 

Anche non regge l’ipotesi che col mutare del corpo l’anima, eterna, si muti,

 per questo che si disgrega tutto ciò che si trasforma, quindi perisce.

[Lucrezio, De Reurm Natura 753-755, I sec. a.C.]

 

 

Tra le cose impossibili all’uomo la più desiderata è il ritorno in vita dalla morte, e l’unica esperienza reale che si avvicina a tale evento prodigioso è l’uscita da uno stato di coma. Fin dai tempi più remoti si è temuta la morte apparente, come si desume da una ricca aneddotica che ha riempito pagine della narrativa di ogni epoca, circa persone credute morte e poi risvegliatesi nel sepolcro. La diagnosi di morte rimane per questo un delicato accertamento medico e uno dei compiti più importanti del medico legale. Nel decorso di uno stato di coma si può verificare la perdita delle caratteristiche funzioni elettriche della corteccia cerebrale, con una virtuale quiescenza di tutto l’encefalo, incluso il tronco encefalico che assicura gli automatismi fisiologici necessari all’attività cardiaca e alla respirazione, determinando una condizione che Mollaret e Goulon definirono prudentemente coma dépassé, ossia “oltre il coma”, e che implica una sopravvivenza dipendente da mezzi artificiali[1]. Approfondendo lo studio di questo stato, una commissione della Harvard Medical School introdusse il concetto di morte cerebrale (brain death)[2] nel 1968 e, da allora, passando per una migliore definizione dei criteri di accertamento secondo le linee guida dell’Accademia Americana di Neurologia del 1995 e del 2010, si è equiparata la morte cerebrale alla morte del soggetto[3]. È a nostro avviso importante avere sempre presente, in particolare per la riflessione e le analisi di carattere bioetico, che a differenza della diagnosi di morte e di vita, che costituiscono l’accertamento per evidenza e con mezzi scientifici di due stati biologici naturali, la diagnosi di morte cerebrale è una convenzione basata su dati interpretati secondo logica, ragionevolezza e probabilità. È pertanto inevitabile, quando si verifica un evento pur isolato di ripresa funzionale del cervello in coma, che torni di attualità il dibattito sui limiti intrinseci alla concezione di tale diagnosi.

Più in generale, anche quando non si configura uno stato di morte cerebrale, il recupero della coscienza dopo un tempo che rende l’evento altamente improbabile solleva dubbi sulla validità dei criteri prognostici attualmente seguiti. In particolare, è noto che la stragrande maggioranza dei casi in uno stato di compromissione della coscienza che dura da mesi o anni arriverà fino al decesso senza miglioramenti. Eppure, due serie di studi, pubblicati da Estraneo e colleghi e Luaté e colleghi nel 2010, hanno registrato delle eccezioni alla regola del recupero quasi impossibile dopo oltre un anno di coma: nella prima serie, costituita da 50 pazienti in stato vegetativo persistente da un anno, 10 hanno presentato un miglioramento tardivo in un tempo medio di circa due anni, anche se in tutti la condizione è rimasta complessivamente molto grave; nella seconda serie, nessuno dei 12 pazienti in stato vegetativo ha presentato segni di miglioramento nei successivi 5 anni, ma un terzo dei casi in stato di minima coscienza (13 su 39) ha recuperato consapevolezza di sé, pur rimanendo in una condizione di disabilità.

Attualmente si intende per coma uno stato in cui un paziente è incapace di reagire a stimoli esterni e bisogni interni; clinicamente si distinguono vari stadi, corrispondenti alla gravità della compromissione funzionale: nel coma profondo non è possibile ottenere alcun tipo di reazione significativa o intenzionale, e sono ridotte le risposte corneali, pupillari e faringee, mentre negli stadi meno gravi possono essere evocati molti riflessi, inclusi quelli plantari, talvolta sia flessori che estensori (segno di Babinski).

In alcuni casi, dopo una settimana o due di coma profondo indotto da un danno cerebrale, spesso dovuto a intossicazione, ictus o trauma cranico, i pazienti cominciano ad aprire gli occhi, prima per stimoli dolorosi, poi spontaneamente e per tempi crescenti, battendo le palpebre e dirigendo i globi oculari dal un lato all’altro, come se seguissero un oggetto, dando qualche volta l’impressione erronea di riconoscere. In questa condizione, la respirazione può accelerare per effetto di stimoli esterni e compaiono riflessi posturali, piccoli movimenti degli arti e automatismi quali ingoiare, digrignare i denti, contrarre i muscoli del viso secondo schemi espressivi parziali ed emettere versi bassi e profondi o lievi gemiti; tuttavia, il paziente non controlla gli sfinteri, non parla e non è cosciente: è in stato vegetativo. In questa forma di coma, una parziale apertura degli occhi può verificarsi ciclicamente secondo la cronologia delle fasi sonno/veglia, ma si tratta di una semplice memoria oculomotoria senza connessione con stati globali del cervello. Se tale condizione permane per oltre 3 mesi, o 12 in caso di danno traumatico, si parla di stato vegetativo persistente (PSV, persistent vegetative state secondo Jennett e Plum, 1972)[4].

In un certo numero di pazienti si può avere una transizione dallo stato vegetativo ad una condizione in cui la persona può eseguire semplici atti che gli sono richiesti, come compiere un gesto o articolare singole parole o perfino brevi frasi. Le risposte adeguate alle richieste cambiano sempre da un esame all’altro, tuttavia rivelano un grado rudimentale di consapevolezza o stato di minima coscienza (MCS, minimally conscious state secondo Giacino e colleghi, 2002)[5]. Tale stato può essere temporaneo ma può anche divenire permanente, e la persistenza fino al decesso diviene molto probabile quando sono trascorsi alcuni anni. Infatti, quel terzo di casi in MCS che è andato incontro a un miglioramento nel campione precedentemente citato non perdurava da lungo tempo.

Il caso di cui ci occupiamo, ossia l’uscita dal coma di Munira Abdullà, è straordinario perché avvenuto dopo 27 anni, ma anche per la probabile causa del recupero della coscienza.

Nata nella città-oasi di Al Ain negli Emirati Arabi Uniti, all’età di 32 anni Munira Abdullà è sopravvissuta ad un grave incidente stradale, riportando un trauma cranico che l’ha precipitata in uno stato comatoso di ridotta coscienza. Palko Karasz e Christopher F. Schuetze, nel loro report divulgativo dello scorso 24 aprile, notano che all’epoca dell’incidente da poco era cessata la Guerra del Golfo, esisteva ancora l’Unione Sovietica e George Bush era al suo primo mandato di presidente degli Stati Uniti[6]. Intanto, il mondo è cambiato e Munira, da giovane che era, ritrova sé stessa alle soglie della vecchiaia.

Al momento dell’incidente, accortasi dell’impatto imminente, aveva preso tra le braccia il suo bambino di quattro anni e, facendogli scudo col corpo, gli aveva salvato la vita. Il figlio, Omar Webair, che ora ha l’età che aveva sua madre al momento dell’incidente, da quando è cresciuto l’ha sempre assistita e non ha mai perso la speranza di vederla uscire dal coma, come lui stesso ha raccontato ai cronisti del sito web giornalistico degli Emirati Arabi The National. Omar ha continuato a sperare anche quando i medici gli hanno detto che dopo oltre vent’anni le possibilità erano pressoché nulle, perché si conosceva un solo caso di coscienza recuperata dopo circa venti anni, ossia quello di Terry Wallis, un ragazzo dell’Arkansas caduto da un ponte in un pickup truck che, inaspettatamente, nel 2003 aveva pronunciato la parola “Mamma”[7]. Ha continuato a sperare anche quando è morta nel 2015 senza mai recuperare la coscienza Shanbaug, un’infermiera indiana sopravvissuta per oltre quarant’anni in stato vegetativo persistente allo strangolamento con una catena dopo uno stupro. Omar non ha disperato nemmeno quando sono comparse crisi epilettiche, rigidità muscolare e contorsioni, che non consentivano più alla madre di usare la sedia a rotelle come alternativa al letto e sembravano minacciare la fine ad ogni istante.

Per fare fronte a queste complicanze, Munira Abdullà è stata ricoverata presso la Schön Clinic di Monaco, un policlinico universitario privato con varie sedi in Germania e istituti specializzati nel trattamento del coma. Friedemann Müller, il primario responsabile del reparto, dopo aver confermato la diagnosi di minimally conscious state (MCS) posta ventisette anni prima, ha stabilito posologia e modalità del trattamento delle complicanze che avevano creato l’emergenza. Quale parte essenziale dell’intervento di cura, è stata eseguita la procedura operativa per l’inserimento di un dispositivo al livello del midollo spinale, che ha consentito l’erogazione diretta dei farmaci nel sistema nervoso centrale.

Dopo non molto, Munira ha cominciato a pronunciare il nome di suo figlio, prima in modo inintelligibile, poi articolandolo in maniera sempre più chiara. Müller, che attribuisce ai farmaci e alla modalità di somministrazione diretta nel midollo spinale un ruolo decisivo nel determinare l’uscita dallo stato comatoso, non si aspettava un tale recupero della coscienza[8]. Circa due settimane dopo la prima articolazione del nome “Omar”, la paziente è stata in grado di ripetere versetti del Corano imparati in gioventù.

Accettando la tesi, peraltro molto verosimile, dell’uscita dalla condizione di MCS per effetto della terapia anticonvulsiva, non possiamo augurarci altro che il sollecito avvio, valutati i rischi e i limiti dei mezzi terapeutici adottati in questo caso, di una sperimentazione volta al fine di trovare una terapia efficace per tutti pazienti nel medesimo stato. Ma, per comprendere in quale realtà viene a porsi l’esito positivo della vicenda che ha visto la sospensione della vita di Munira per circa tre decenni, proponiamo alcune nozioni fisiopatologiche e cliniche, e alcuni aspetti rilevanti delle problematiche neurologiche del coma.

Lo studio della fisiopatologia del coma si basa soprattutto sulla nozione del ruolo nel risveglio, nella veglia e nell’allerta del sistema reticolare attivatore (SRA) scoperto da Moruzzi e Magoun e costituito prevalentemente dalla formazione reticolare mesencefalica e dai nuclei talamici a proiezione diffusa, che inviano impulsi a tutta la corteccia cerebrale, determinandone l’attivazione necessaria ai processi mentali coscienti. Coerentemente con questa concezione neurofisiologica, la distruzione o la grave compromissione funzionale del sistema reticolare attivatore o di un gran numero di neuroni corticali in entrambi gli emisferi causa gradi diversi di perdita della coscienza. Una base patologica comune, con differenze prevalentemente quantitative tra i vari gradi di perdita della funzione psichica che esprime la consapevolezza del soggetto, giustifica uno studio non separato per stati clinici, anche se si comprende la necessità e l’utilità di indagini strumentali specificamente riferite al coma profondo, allo stato vegetativo e alla condizione di minima coscienza.

L’anatomia patologica ci fornisce un vero e proprio paradigma di base che riconduce tutte le alterazioni responsabili del coma a due tipologie: 1) danno macroscopico; 2) danno submicroscopico.

Nella categoria del danno macroscopico, caratterizzato da lesioni strutturali circoscritte al tronco encefalico superiore e al diencefalo inferiore o diffuse negli emisferi, si possono distinguere tre tipi o configurazioni della patologia.

Nel primo tipo si riscontra sempre una grande massa sviluppata nella compagine degli emisferi o intorno alla superficie emisferica, interessando una parte relativamente limitata della corteccia e della sostanza bianca. Tale massa, nella maggior parte dei casi di natura neoplastica, può essere costituita da un ascesso, da un massiccio infarto edematoso, da un’emorragia intracerebrale, subaracnoidea, subdurale o epidurale, oppure da un idrocefalo ostruttivo. Il meccanismo che genera il coma sembra consistere in una compressione secondaria del sistema reticolare attivatore nel mesencefalo o nella regione subtalamica, sia per dislocazione laterale sia per schiacciamento di queste formazioni da parte del lobo temporale erniato nel forame tentoriale[9]. Un meccanismo simile a questo, che è il più studiato, si ritiene intervenga nel coma generato da masse cerebellari: la pressione determina la dislocazione in avanti e in alto della regione reticolare troncoencefalica.

Nel secondo tipo, peraltro meno frequente del primo, si rileva un danno diretto e circoscritto al talamo o al mesencefalo dei neuroni del sistema reticolare attivatore, per ictus troncoencefalico da occlusione dell’arteria basilare, per emorragie o danno traumatico.

Il terzo tipo è l’esatto opposto in termini anatomopatologici, perché presenta un danno bilaterale diffuso della corteccia e della sostanza bianca emisferica per encefaliti, meningiti, ipossia, infarti bilaterali, emorragie, ischemia globale e, più spesso, traumi estesi. La causa del coma è nell’interruzione delle vie di attivazione o nella distruzione massiccia e bilaterale dei neuroni bersaglio della corteccia. In proposito è opportuno precisare che anche una perdita di cellule nervose estremamente rilevante, se è circoscritta ad un solo emisfero, non determina compromissione globale della coscienza, perché si verificano forme di compenso, con meccanismi che sono stati compresi soprattutto grazie alla ricerca condotta su pazienti con cervello diviso.

Uno studio eseguito da Josef Parvizi e Antonio Damasio su 9 casi di lesioni circoscritte ad aree pontine dorsali bilaterali ha suggerito che un danno a valle del mesencefalo può causare coma, ed ha esteso le aree del sistema reticolare del tronco encefalico implicate nel risveglio[10]. Concettualmente questa possibilità è stata spiegata sulla base della perdita dell’input noradrenergico del locus coeruleus[11].

Dopo questa esposizione sintetica delle principali forme di danno anatomopatologico macroscopico associato al coma, ricordiamo che nel maggior numero di casi non è possibile rilevare alcuna lesione strutturale mediante l’impiego delle tecniche di studio convenzionali, pertanto la fisiopatologia del deficit di funzione psichica globale è attribuita ad alterazioni submicroscopiche. Scariche elettriche generalizzate (crisi convulsive), anomalie tossiche o metaboliche causano insufficienza neuronica al livello subcellulare o molecolare.

L’anatomia patologica ci presenta una base di conoscenza costituita da cause macroscopiche, emblematicamente rappresentate dai processi meccanici di erniazione cerebrale[12], e cause molecolari, che andrebbero accertate caso per caso.

A questi dati di base si possono aggiungere i correlati elettrofisiologici e morfo-funzionali rilevati nei vari stadi, tuttavia non si dispone ancora di conoscenze che consentano precise stime prognostiche quoad vitam. In altri termini, se si applicassero modelli previsionali ai pazienti in coma per prevedere l’epoca della morte, non si andrebbe molto oltre il grado di probabilità cui si può giungere per le previsioni nella popolazione generale. Inoltre, poiché non si dispone di biomarker indicatori della transizione in una fase irreversibile, come si notava nelle considerazioni introduttive, lo stato in cui l’encefalo non potrà più recuperare la sua fisiologia vitale può essere soltanto presunto o desunto da segni clinici, e mai dichiarato con assoluta certezza diagnostica. La recente sperimentazione con il sistema di perfusione pulsatile “BrainEx” (da ex vivo), che ha consentito di riattivare funzioni vitali nei neuroni dei cervelli di maiali macellati da ore, ha riacceso il dibattito sulla correttezza della definizione di morte cerebrale e, soprattutto, sulla sua equiparazione alla morte dell’intero organismo[13].

A proposito della discussa diagnosi di morte cerebrale, si ricorda che è basata su tre capisaldi: 1) assenza di tutte le funzioni del cervello (inteso come l’insieme di diencefalo e telencefalo); 2) assenza di tutte le funzioni del tronco encefalico; 3) giudizio di irreversibilità.

Per la verifica dell’esistenza delle due prime condizioni si impiegano specifici protocolli neurologici[14]. Per la stima dell’irreversibilità si procede inizialmente per esclusione, considerando l’overdose di sostanze psicotrope d’abuso e l’ipotermia estrema quali tipiche cause di coma reversibile, e poi si valutano i danni potenzialmente catastrofici di traumi, arresto cardiaco ed emorragie cerebrali, che spesso non lasciano scampo ai pazienti.

È divenuta una prassi costante, nell’accertamento di morte cerebrale, l’esecuzione di un Test dell’Apnea che, rilevando la mancata risposta dei nuclei bulbari ad alte concentrazioni di CO2, conferma la virtuale perdita delle funzioni del bulbo e, con questa, della morte dell’encefalo[15]. Di fatto, l’ipercapnia che si crea agisce da stimolo estremo alla respirazione naturale e, dunque, la mancata risposta conferma che la respirazione autonoma non potrà più essere ripristinata. Ma, durante l’esecuzione del test, può verificarsi un fatto drammaticamente impressionante nel paziente già dichiarato morto nel cervello: d’improvviso solleva entrambe le braccia e le incrocia davanti al petto o al collo, lasciando di stucco i presenti. Ropper, che per primo ha descritto questa sorprendente reazione nel 1984, l’ha denominata “segno di Lazzaro”. Ma non si tratta dell’unica risposta motoria che si verifica durante la prova, perché si può avere la spinta all’indietro del tronco in opistotono, con un’espansione del torace che simula un’inspirazione, si possono avere rotazioni del capo e sollevamento delle spalle.

Si comprende la raccomandazione inclusa nel protocollo del test di non far presenziare alcun familiare o persona in altro modo legata affettivamente al paziente: è difficile convincere qualcuno che non abbia nozioni mediche che una persona che compia quei movimenti sia morta e pronta per l’espianto degli organi.

Un altro aspetto molto rilevante nel giudizio di cessazione irreversibile dell’attività encefalica è l’accertamento mediante EEG del silenzio elettrofunzionale, ossia il rilievo di un tracciato elettroencefalografico isoelettrico o piatto. Tecnicamente, tale reperto corrisponde all’assenza di potenziali elettrici maggiori di 2 mV durante una registrazione della durata di 30 minuti. Sono numerosi gli istituti scientifici e clinici che richiedono questo esame, ma è in costante crescita, soprattutto negli USA, il numero delle istituzioni mediche che non includono più nel protocollo l’EEG isoelettrico, per l’incostante significatività del rilievo. Sono stati infatti documentati numerosi casi in cui il silenzio elettrofisiologico della corteccia cerebrale e l’assenza di reazione dell’insieme diencefalo/telencefalo si associava all’integrità dei riflessi del tronco encefalico, che impediva di porre la diagnosi di morte cerebrale.

L’EEG piatto, da solo, non indica una perdita di funzione irreversibile, anzi, soprattutto a seguito di intossicazione da sedativi-ipnotici (tentato suicidio), grave ipotermia o arresto cardiaco, lo stato acuto di coma è reversibile e l’EEG può tornare normale nell’arco di poche ore o, al massimo, della giornata. Per tale ragione, prima di emettere una diagnosi di morte cerebrale, si consiglia la ripetizione dell’esame dei riflessi troncoencefalici ad una distanza temporale congrua in rapporto alla causa.

Abbiamo voluto dettagliare questi aspetti della clinica neurologica del coma e della diagnosi di morte cerebrale per fornire, anche al lettore non specialista, gli elementi sui quali concretamente si basano le procedure mediche, con la loro ratio e il loro grado di certezza, che sono all’origine dei dubbi e del dibattito bioetico.

È evidente che le opinioni contrapposte, radicate in visioni differenti dell’uomo e della vita, rimangono inconciliabili; tuttavia, indipendentemente dall’orientamento filosofico-morale di ciascuno, crediamo si possa convenire su un punto: allo stato attuale delle conoscenze ogni interruzione di cure a un paziente in coma equivale all’assunzione di responsabilità circa la sua morte.

 

Gli autori della nota ringraziano la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invitano alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo Borgia & Giuseppe Perrella

BM&L-28 settembre 2019

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Mollaret P., Goulon M., Le coma dépassé. Rev Neurol (Paris) 101: 3, 1959.

[2] Beecher H. K., et al. A definition of irreversible coma: Report of the Committee of Harvard Medical School to examine the definition of brain death. JAMA 205: 85, 1968.

[3] La definizione di “morte cerebrale” è tradizionalmente attribuita a R. D. Adams, membro della Commissione della Harvard Medical School. L’Accademia Americana di Neurologia ha definito le linee guida per la diagnosi, promuovendo lo studio che ha portato agli aggiornamenti: cfr. Adams and Victor’s Principles of Neurology (Ropper, Samuels, Klein), 10th ed., p. 363 (Cap. 17), McGrawHill, New York 2014.

[4] Jennett B. & Plum F., Persistent vegetative state after brain damage. Lancet 1: 734, 1972.

[5] Giacino J. T., et al. The minimally conscious state. Definition and diagnostic criteria. Neurology 58: 349, 2002.

[6] New York Times, 24 aprile 2019.

[7] Il caso di Terry Wallis, che fece grande scalpore negli USA, è stato studiato approfonditamente nel tentativo di individuare gli elementi necessari a formulare una prognosi di recupero in pazienti comatosi con un danno cerebrale grave quanto il suo.

[8] Friedemann Müller ha dichiarato al New York Times (24 aprile 2019): “In principio non ci credevamo, ma poi è stato molto chiaro che stava pronunciando il nome di suo figlio”.

[9] Si veda ai capitoli 17 e 31 di Adams and Victor’s Principles of Neurology (Ropper, Samuels, Klein), 10th ed., pp. 368-370 (Cap. 17), McGrawHill, New York 2014.

[10] Parvizi J. & Damasio J. R., Neuroanatomical correlates of brainstem coma. Brain 126: 1524, 2003. Si consiglia anche la lettura del dettagliato e ben illustrato studio sulle basi troncoencefaliche della coscienza: Parvizi J. & Damasio A., Consciousness and the brainstem. Cognition 79: 135-159, 2001.

[11] Adams and Victor’s Principles of Neurology (Ropper, Samuels, Klein), 10th ed., p. 368, McGrawHill, New York 2014.

[12] Per le erniazioni si veda: Adams and Victor’s Principles of Neurology, op. cit., pp. 368-370.

[13] Note e Notizie 21-09-19 La riattivazione di cervelli morti mette in crisi la morte cerebrale.

[14] Si rinvia alle trattazioni cliniche specialistiche per i contenuti di tali protocolli.

[15] Si procede con una pre-ossigenazione di alcuni minuti che elimina l’azoto dagli alveoli e crea una riserva di ossigeno, poi si interrompe la connessione del paziente con il respiratore automatico per vari minuti, durante i quali si invia O2 al 100%. La disconnessione porta la pressione arteriosa di CO2 fino a 60 mm Hg. Il test è innocuo secondo il documento dell’American Academy of Neurology (2010), tuttavia sono state registrate aritmie cardiache, ipotensione, ipossiemia e barotrauma.