Perché la nostra salute richiede un
esercizio costante
GIOVANNI ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 23 marzo
2019.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a
notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la
sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: DISCUSSIONE/AGGIORNAMENTO]
L’importanza dell’attività fisica
per la salute dell’organismo è nozione acquisita e consolidata da decenni, così
non meraviglia che la pratica sportiva e l’esercizio motorio quotidiano
riguardino una percentuale sempre crescente della popolazione generale, con un
incremento esponenziale del numero di anziani che vi si dedicano.
Dagli studi pionieristici del
cardiologo Kenneth Cooper, che nel 1968 pubblicò il volume Aerobics, il suggerimento dei
10.000 passi al giorno è progressivamente divenuto una regola minima
inderogabile per la maggior parte dei praticanti di jogging e marcia nelle società post-industriali. E nei parchi, nei
giardini e nelle aree pedonalizzate delle nostre città, si vedono sempre più
spesso gruppi organizzati o spontanei di persone di ogni età impegnate in
complete sessioni di allenamento. La ragione è che il fenomeno non è più
riconducibile alla moda della ginnastica aerobica propagandata dal binomio
“benessere e bellezza”, ma a una consapevolezza diffusa, promossa dalla
costante prescrizione medica dell’esercizio motorio a scopo preventivo e
terapeutico. Col passare degli anni e il progredire delle conoscenze, è infatti
divenuto sempre più chiaro che un’attività fisica quotidiana non è una semplice
opzione che può giovare all’organismo, ma una necessità della nostra fisiologia.
Una realtà biologica che pone
interrogativi ai quali si è cercato di dare risposta in chiave evoluzionistica:
i primati a noi filogeneticamente più vicini ed adattati alla vita arboricola
hanno come noi questa necessità? Quali adattamenti hanno reso indispensabile un
regime di moto protratto per conservare in efficienza e salute l’organismo?
Per dare risposta alla prima
domanda, seguiamo idealmente il percorso compiuto da Herman Pontzer,
professore associato di antropologia evoluzionistica alla Duke University che, prendendo le mosse dallo studio dell’esercizio
quotidiano di arrampicata degli scimpanzé (Pan
troglodytes) del Kibale
National Park, aveva considerato essenziale quell’attività per il modellamento
dell’anatomia e della fisiologia di questi primati, e, assistendo in altri casi
ad episodi di lotta per la sopravvivenza di queste scimmie, aveva desunto un
adattamento basato su un’intensa attività quotidiana. In altre parole, un
modello da seguire come stile di vita, soprattutto per i membri della nostra
specie di età media o avanzata.
Ma, quando Pontzer
si è impegnato in uno studio sul campo, seguendo la vita degli scimpanzé
dall’alba al tramonto, si è dovuto ricredere: queste scimmie sono pigre. Gli
episodi di attività intensa costituiscono un’eccezione alla regola, che prevede
ritmi lenti e frequenti pause di riposo. In una giornata tipo di quell’osservazione, gli scimpanzé si svegliavano presto e
si recavano in giro per una prima colazione a base di frutta, mangiando fino a
saziarsi, poi cercavano un posto gradevole per un pisolino; dopo circa un’ora
cercavano un albero di fichi esposto al sole e facevano una scorpacciata dei
suoi frutti, spesso si incontravano fra loro e si dedicavano al grooming fino al
secondo sonnellino quotidiano; intorno alle cinque del pomeriggio un nuovo
pasto a base di frutta e foglie, e poi la ricerca di un albero per andare a
dormire, per nove o dieci ore[1].
Bassi livelli di attività sono stati
registrati anche in altre antropomorfe, come oranghi e gorilla. Con un simile
grado di moto giornaliero, nella nostra specie il livello di rischio è
altissimo per malattie cardiovascolari, per l’espressione del diabete di tipo 2
e la patologia metabolica in generale. I primati sub-umani, invece, anche in
cattività si ammalano rarissimamente di diabete, la loro pressione sanguigna
non aumenta con l’età e non sviluppano arteriosclerosi e trombo-embolie simili
alle nostre[2]. Dunque, siamo in presenza di un adattamento biologico diverso.
Prima di dare risposta alla domanda
sulle peculiarità della nostra specie che impongono un elevato regime di
attività motoria, riprendiamo alcune recenti acquisizioni delle ricerca
neuroscientifica.
Le virtù dell’esercizio aerobico[3] non sono limitate al noto miglioramento della fisiologia cardiovascolare e
metabolica, ma includono importanti effetti sul sistema nervoso centrale, come la
promozione della plasticità delle connessioni cerebrali[4]. La conoscenza della molteplicità delle influenze e delle sinergie che si
creano fra i sistemi interessati, consente di comprendere la globalità
dell’impatto sull’organismo di un regime costante di attività motoria elevata, che
accresce la neurogenesi, riduce l’attività neuroendocrina dei sistemi dello stress e può giungere a modellare,
almeno in senso quantitativo, il connettoma cerebrale[5].
Nella recensione di uno studio di
Talukdar e colleghi su questo argomento, si legge: “Numerose evidenze neuroscientifiche hanno dimostrato
che il fitness aerobico accresce la
plasticità strutturale del cervello, con conseguenze davvero impressionanti:
promozione dello sviluppo della materia grigia, con aumento misurabile del suo
volume, e mantenimento dell’integrità della sostanza bianca dei cilindrassi
delle cellule nervose che costituiscono le reti alla base della funzione esecutiva, dell’attenzione, dell’apprendimento e della memoria”[6].
Gli autori dello
studio avevano indagato i meccanismi degli effetti sul cervello dell’esercizio
motorio aerobico e, in particolare, avevano messo in rapporto il volume massimo
di O2 ematico con differenze individuali di connettività funzionale
dell’intero cervello, rilevate mediante fMRI. Impiegando uno studio di
associazione esteso a tutto il connettoma,
hanno identificato interessanti rapporti in un campione significativo,
costituito da 242 volontari adulti, giovani e sani. Ecco come abbiamo
sintetizzato l’esito di queste osservazioni: “I risultati hanno evidenziato
varie regioni all’interno dei lobi frontali, parietali e temporali del
cervello, e all’interno della corteccia del cervelletto, con una significativa
associazione strutturale all’esercizio aerobico. I ricercatori hanno poi
rilevato l’influenza di queste regioni su 7 reti di connettività intrinseca,
dimostrando la maggiore associazione con le reti che sono note mediatrici degli
effetti benefici dell’aerobica sulla funzione
esecutiva (rete fronto-parietale), sulle funzioni necessarie all’attenzione e all’apprendimento (rete dell’attenzione ventrale e dorsale) e sulla memoria (rete di default)”[7]. Infine, Talukdar e colleghi hanno rilevato un
rapporto diretto della cosiddetta intelligenza
fluida con la forza della
connettività esistente tra queste regioni e la rete fronto-parietale.
Dopo aver
riferito questi dati di grande rilievo neuroscientifico, non possiamo esimerci
dal rilevare una caratteristica che rappresenta un limite della ricerca attuale
in questo campo, ossia la focalizzazione pressoché esclusiva sull’esercizio
aerobico[8]; una prospettiva diversa, quale quella della
fisiologia evoluzionistica, può essere interessante anche perché prende in
considerazione ogni aspetto del riposo e del movimento. Infatti, proprio la
ricerca paleoantropologica sull’assunzione della stazione eretta da parte degli
ominidi divenuti bipedi, ha suggerito di verificare se le differenti posizioni
assunte dal corpo influiscono sul regime metabolico del muscolo. È emerso che
lo stare in piedi protratto, comparato al rimanere seduti durante lo stesso
segmento temporale, è sufficiente a determinare mutamenti nelle fibrocellule
muscolari: si rileva un incremento degli enzimi che contribuiscono alla
riduzione dei grassi circolanti.
Ma, il
contributo più importante degli studi concepiti secondo la ratio filogenetica e sviluppati in termini di comparazione,
consiste nell’aver fornito le probabili ragioni del differente adattamento
genetico-metabolico della nostra specie.
Il paragone con
le scimmie antropomorfe, cui si è accennato prima, ha rappresentato una traccia
significativa: i tassi di colesterolo ematico degli scimpanzé sono elevati, ma
l’eccesso di glucosio circolante tende ad essere convertito maggiormente in
glicogeno muscolare e molto meno in lipidi di riserva; il rapporto tra massa
magra e massa grassa, pur con un basso grado di attività motoria quotidiana,
rimane eccellente. Nel 2016 Steve Ross, Herman Pontzer
e colleghi, lavorando presso il Lincoln Park Zoo di Chicago, hanno rilevato che
il grasso corporeo nei gorilla e negli oranghi costituisce in media dal 14% al
23% della massa corporea, e negli scimpanzé meno del 10%, ossia un rapporto che
nella realtà umana si può accostare a quello dei giovani atleti olimpionici.
Si ritiene che
gli ominidi abbiano avuto un progenitore ancestrale comune con scimpanzé e
scimpanzé pigmei (bonobo o Pan Paniscus) e siano apparsi tra i 7 e i 6 milioni di anni
fa, verso la fine del Miocene. A lungo, si sono conosciute quasi solo le cinque
specie delle Australopitecine (Genere Australopithecus),
collocate tra i 4 e i 2 milioni di anni fa e note al grande pubblico grazie all’Australopithecus afarensis “Lucy”[9]. Nel nuovo millennio, altri tre ominidi sono stati
scoperti: Sahelanthropus,
Orrorin e Ardipithecus. Trovato
in depositi fossili di 4.4 milioni di anni fa in Etiopia, Ardipithecus è l’ominide più
conosciuto, caratterizzato da braccia lunghe, dita curve e piedi prensili per
l’adattamento arboricolo, presenta dei caratteri anatomici della pelvi adatti a
una piena stazione eretta e a una deambulazione energeticamente efficiente,
come ha dimostrato Elaine Kozma della City University di New York[10]. Una caratteristica che accomuna questi ominidi è
l’adattamento doppio, alla vita al suolo e sugli alberi.
Le Australopitecine, invece, hanno perso la capacità prensile
dei piedi, con l’alluce in linea con le altre dita come noi, e con la nostra
stessa ratio nel rapporto tra
lunghezza degli arti inferiori e massa corporea. Analisi della pelvi, associate
allo studio condotto a Laetoli (Tanzania) sulle orme
dei piedi fossilizzate, indicano che queste creature avessero le
caratteristiche anatomiche necessarie e sufficienti alla biomeccanica di un
passo quale il nostro[11]. La loro dieta, come ha rivelato l’analisi
microscopica della patina dentale, era costituita da cibo vegetale, come quella
degli ominidi più primitivi, con la sola variante della probabile scelta di una
tipologia più dura e fibrosa, suggerita dalla struttura dei loro denti.
La svolta per la
comprensione della tappa evolutiva che ha segnato il cambiamento fisiologico
alla base dell’adattamento umano, si è avuta con la scoperta nel 2015, da parte
di Sonia Harmand e colleghi della Stony
Brook University, dei resti
fossili di una macelleria primordiale datata 3.3 milioni di anni fa, nei
sedimenti della sponda occidentale del Lago Turkana in Kenia.
Gli strumenti di pietra, alcuni di circa 14 chili di peso, erano associati ad
ossa di animali. Nei quindici anni precedenti, scavi in siti datati 2.6 milioni
di anni fa avevano già dato esito a reperti inequivocabilmente riportabili alla
macellazione di animali, con vari strumenti specifici per le diverse
operazioni. Per l’epoca collocata intorno a 1.8 milioni di anni fa, le ossa
spaccate di animali e gli strumenti di pietra per questa operazione sono
ritenute la norma nei ritrovamenti da parte dei paleoantropologi.
Le analisi delle ossa macellate in Olduvai Gorge, in
Tanzania, hanno mostrato che gli animali in quel sito erano giovani ungulati.
Proprio in quell’epoca, secondo le tracce fossili, è cominciata la diffusione
degli ominidi dall’Africa all’Eurasia[12]. Si ritiene, dunque, che le strategie di raccolta,
caccia e macellazione, con la necessità di percorrere molti chilometri al
giorno per raggiungere le prede e il progressivo adattamento a una dieta a base
di carne, abbiano costituito l’elemento decisivo nel determinare la
caratterizzazione fisiologica del genere Homo.
Si è stimato che
i cacciatori-raccoglitori, recentemente basandosi sullo studio degli Hadza, una popolazione della Tanzania settentrionale che
conserva quello stile di vita, percorressero dai 9 ai 14 chilometri al giorno,
ossia dai 12.000 ai 18.000 passi. Si può dedurre che i nostri progenitori
ancestrali, non disponendo di arco e frecce come i cacciatori primitivi attuali,
fossero costretti a coprire distanze ancora maggiori.
È doveroso
ricordare che molte delle idee e dei progetti di ricerca sviluppati in questi
anni sul probabile cambiamento nello stile di vita che ha accompagnato l’evoluzione
della nostra specie, hanno tratto origine da un articolo del 2004 di Dennis Bramble (University of Utah) e
Daniel Lieberman (Harvard), ormai divenuto un riferimento di fondamentale
importanza nello studio dell’evoluzione umana. In tale scritto si indicano gli
elementi anatomici dello scheletro di Homo
erectus che lo rendono adatto alla corsa di
resistenza, e su questa base si propone la tesi secondo cui il nostro genere si
sia evoluto per rincorrere la preda fino all’esaurimento.
Sebbene da oltre
mezzo secolo sia nota l’utilità e l’efficacia dell’esercizio motorio per la
prevenzione cardiovascolare, solo di recente si è intrapreso lo studio
sistematico di tutti gli adattamenti connessi con lo stile di vita dei nostri
progenitori. Ogni organo ed apparato, così come ogni tessuto e tipo cellulare,
costituisce un potenziale oggetto di interesse per queste indagini, ma per ovvi
motivi la ricerca che riguarda il cervello attrae l’interesse maggiore.
Il nostro
encefalo si è evoluto con un bisogno di sonno inferiore a quello degli altri
primati, ma soprattutto, come hanno dimostrato Raichlen
e colleghi, ha sviluppato un meccanismo che genera ricompensa per l’esercizio
aerobico protratto e continuativo, mediante il rilascio di endocannabinoidi, che
contribuiscono all’effetto noto negli USA come runner’s high: una sensazione piacevole che si accompagna a miglioramento
del tono affettivo e dello stato psichico complessivo, inducendo poi il
desiderio di ripetizione dell’esperienza.
Le ragioni
all’origine dell’espansione della corteccia cerebrale che ha portato al volume
tipico dell’encefalo umano – il fenomeno che Haldane
definì il cambiamento più rapido nell’evoluzione animale – sono oggetto di
teorie ormai classiche, alle quali Raichlen e
colleghi hanno aggiunto una loro ipotesi: l’esercizio motorio protratto avrebbe
contribuito in maniera significativa all’espansione della corteccia cerebrale
umana e la nostra dipendenza dall’attività fisica si è evoluta per garantire un
normale sviluppo e funzionamento del cervello durante tutta la vita.
L’esercizio fisico determina il rilascio di neurotrofine,
l’accresciuta espressione dei loro recettori e la promozione, per vie diverse,
della neurogenesi post-embrionaria nelle tre sedi individuate
nel cervello adulto: parete ventricolare, giro dentato dell’ippocampo e bulbo
olfattivo. Tale produzione di nuovi neuroni supporta i processi di memoria e
contrasta il declino cognitivo causato dall’invecchiamento.
Gli apparati
metabolici delle nostre cellule hanno sviluppato la capacità di supportare una
quantità di lavoro quotidiano di gran lunga superiore a quello degli altri
primati: la nostra VO2max è almeno quattro volte superiore a quella
dello scimpanzé. Tale potere origina principalmente dai muscoli degli arti
inferiori, che hanno una dimensione maggiore del 50% e una proporzione
notevolmente più alta di fibre muscolari Tipo I (slow twitch muscle fibers) che sono molto efficienti nell’uso dell’O2
per generare ATP nel lavoro muscolare protratto, garantendo una straordinaria
resistenza alla fatica. A ciò si aggiunga il maggior numero di globuli rossi
che possono raggiungere il muscolo umano veicolando volumi di O2 maggiori
durante la contrazione. Ma l’adattamento della nostra specie va oltre: Pontzer, lavorando con Ross e Raichlen,
ha dimostrato che l’uomo ha evoluto un metabolismo
notevolmente più rapido, in grado di far
fronte alle richieste energetiche intense di un’elevata attività motoria e garantire
il funzionamento del nostro encefalo, ossia l’organo che assorbe più energia in
tutto il regno animale. Si ricorda, di passaggio, che circa il 20%
dell’ossigeno del nostro organismo è utilizzato dal cervello.
Recenti
progressi nello studio del metaboloma hanno dimostrato che l’esercizio muscolare induce
il rilascio di centinaia di molecole, la cui analisi biochimica e fisiologica è
solo agli inizi, e allo stesso tempo riduce i livelli a riposo di estrogeni,
testosterone e progesterone, abbassando in modo drastico il tasso di
riproduzione delle neoplasie dell’apparato riproduttivo che dipendono da questi
ormoni. L’esercizio quotidiano può ridurre i picchi di cortisolo mattutini, che
sono responsabili di risvegli precoci, accentuazione dei sintomi ansiosi,
sofferenza psichica nei pazienti depressi ed accentuazione dello stato
fisiopatologico in tutti i disturbi cronici da stress. Un altro importante effetto positivo noto da tempo è la
riduzione della resistenza all’insulina, che è parte del meccanismo del diabete
di tipo 2. Ugualmente da decenni si conoscono vari effetti positivi sui meccanismi
dell’immunità umorale e cellulo-mediata, ed è noto
che una branca della psiconeuroimmunologia, la
scienza fondata da Rober Ader,
indaga specificamente gli effetti dell’esercizio motorio sia negli atleti
professionisti sia in coloro che seguono pratiche spontanee per fini preventivi
o terapeutici.
Uno studio
recente è stato condotto sui postini di Glasgow, fra i quali vi sono uomini e
donne addetti alla consegna della posta, che percorrono ogni giorno molti
chilometri a piedi. Coloro che compivano percorsi per oltre 15.000 passi o, fra
il camminare e lo stare fermi in piedi, raggiungevano le sette ore al giorno,
presentavano i migliori parametri cardiovascolari e la completa assenza di
malattie metaboliche. È evidente l’analogia con i 12.000-18.000 passi degli Hazda e con la loro buona salute cardiovascolare e
metabolica.
Lo studio in termini di fisiologia evoluzionistica
introduce una prospettiva diversa da quella consueta e banale dell’attività
fisica quale mezzo per ridurre il grasso di deposito ottenendo un calo
ponderale: l’esercizio motorio regola il modo in cui l’organismo impiega
l’energia[13] e influisce su
un numero straordinario di meccanismi biochimici ed equilibri vitali, attivando
intere vie di segnalazione che riguardano i rapporti fra sistema nervoso,
sistema immunitario, sistema endocrino ed ogni altro tessuto del corpo. Il
nostro organismo si è evoluto con e per l’esercizio motorio, che non è
un’aggiunta opportuna allo stile di vita, ma un elemento essenziale intrinseco alla nostra costituzione naturale.
L’autore della nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle numerose recensioni di argomento connesso che appaiono
nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella
pagina “CERCA”).
Giovanni Rossi
BM&L-23 marzo 2019
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data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione
scientifica e culturale non-profit.
[1] Pontzer H.,
Evolved to exercise. Scientific American
320 (1): 20-27, 2019.
[2] Pontzer
H., The Crown Joules: Energetics, Ecology, and Evolution in Humans and Other
Primates. Evolutionary Anthropology
26 (1): 12-24, 2017.
[3] Si ricorda che la definizione, introdotta da Kenneth Cooper, indica un esercizio motorio di intensità tale (lieve o moderata) da poter essere supportato interamente dal metabolismo aerobico del glucosio nel muscolo (corsa, marcia, nuoto, ecc.). Le attività esclusivamente aerobiche possono essere praticate per durate temporali protratte (endurance) perché non generano segnali che indicano la necessità di recupero, quali il lattato del metabolismo anaerobico tipicamente rilasciato per lo sforzo di contrazione muscolare isotonica contro elevata resistenza, né generano sensazioni algiche (bradichinine, callicreine, ecc.) come accade nello sforzo anaerobico massimale.
[4] Note e Notizie 07-10-17 Come il fitness aerobico modella le connessioni cerebrali.
[5] La bontà dell’aforisma degli antichi, mens sana in corpore sano, che giustificava la pratica sportiva ed era originato e confermato dall’esperienza, è stata suffragata nel tempo dalle conoscenze scientifiche di volta in volta attuali: l’influenza della saturazione di O2 del sangue sull’attività della corteccia cerebrale; l’entrata in azione dei recettori di deflazione polmonare nell’esperienza del “rompere il fiato”; il rilascio di endorfine ed endocannabinoidi associato ad esercizio protratto; la modificazione delle connessioni cerebrali.
[6] Note e Notizie 07-10-17 Come il fitness aerobico modella le connessioni cerebrali.
[7] Note e Notizie 07-10-17 Come il fitness aerobico modella le connessioni cerebrali.
[8] Per quanto riguarda il rapporto fra attività motoria ed assetto funzionale del cervello si devono prendere in considerazione gli effetti dell’alternanza e della combinazione di fasi aerobiche ed anaerobiche, come accade in molti tipi di lavoro manuale, e la differenza fra attività svolta all’aria aperta e in palestra. Come ha osservato di recente il nostro presidente, l’influenza della luce solare sull’assetto neuroendocrino cerebrale è impressionante: lo studio dei meccanismi molecolari delle sinergie e dei cicli a feed-forward tra attività fisica e risposta cerebrale è solo all’inizio, ma la ricerca ha già fornito tracce significative. Si veda anche Note e Notizie 17-01-15 Esporsi al sole per abbronzarsi produce effetti stupefacenti sul cervello.
[9] Scoperta nel 1974 in Etiopia: si tratta del 40% dello scheletro fossile di una femmina così chiamata dai paleontologi dalla canzone dei Beatles, Lucy In The Sky With Diamonds, che ascoltavano nel campo della spedizione.
[10]
Cfr. Pontzer H., op cit. (2019), p.24.
[11] Cfr. Pontzer H., op cit. (2019), ibidem.
[12] Si veda in Pontzer H., The Crown Joules: Energetics, Ecology, and Evolution in Humans and Other Primates. Evolutionary Anthropology 26 (1): 12-24, 2017; Pontzer H., Economy and Endurance in Human Evolution. Current Biology 27 (12): R613-R621, June 19, 2017. A questi due articoli sono da riferire anche le nozioni paleoantropologiche che compaiono nel testo senza citazione della fonte.
[13] Pontzer H., Economy and Endurance in Human Evolution. Current Biology 27 (12): R613-R621, June 19, 2017.