Il senso dello spirito nel cervello
ROBERTO COLONNA
NOTE
E NOTIZIE - Anno XV – 17 febbraio 2018.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio
dei soci componenti lo staff dei
recensori della Commissione Scientifica
della Società.
[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]
Prendendo le mosse dall’ancora
attualissimo saggio La ricerca dello
spirito nel cervello[1], si è
sviluppata tra i membri della nostra società scientifica una discussione sulla
natura, sul senso biologico e sul significato evoluzionistico dello stato funzionale cui si è scelto di dare
nome “spirito”, come già in passato, per facilitare l’intesa sulla sostanza
semantica del concetto. Non è ancora possibile, infatti, ridurre questa
espressione funzionale ad una precisa base biologica, quale ad esempio un
correlato cerebrale codificato, perché non c’è ancora conoscenza sufficiente ed
accordo di opinioni al riguardo. Basti pensare che una delle ipotesi sulla sua
natura, sostenuta da molti di noi, pone al centro la reciprocità di informazioni
tra encefalo e periferia.
Una separazione non
componibile fra credenti, da una parte, e agnostici e atei dall’altra, è
relativa all’esistenza di un’entità o ente
supremo posto fuori della realtà biologica dei nostri organismi che darebbe
valore e senso a ciò che chiamiamo spirito, e ne giustificherebbe l’immortalità
in base all’appartenenza ad una sostanza immortale, secondo quanto tramandato
dalle principali religioni.
Un punto di incontro, in
particolare con ricercatori ebrei e cristiani di ogni confessione, si può
trovare nell’indagine sui fenomeni cerebrali espressione di una globalità
psichica e di un’esperienza cosciente del trascendente: l’oggettività dei
rilievi mette tutti d’accordo, anche se i credenti vi leggono la traccia
dell’esistenza dell’anima, mentre i non credenti si fermano al valore biologico
dei dati. Proprio a questo riguardo sono stati proposti affascinanti
interrogativi: qual è il valore evoluzionistico di una funzione come quella
dello spirito? Perché il cervello umano, anche fuori delle grandi influenze
culturali di tradizione storica, tende (bias) a concepire l’esistenza di un ente immortale o di
personificazioni immortali (demoni, spiriti disincarnati, divinità
politeistiche, extraterrestri con poteri assoluti, ecc.), è un esercizio di
fantasia accostabile al pensiero artistico o ha una radice biologica più
profonda?[2] In
altre parole, esiste un vantaggio selettivo derivante dalla concezione di
questi pensieri, o il loro sussistere è un epifenomeno dell’affermarsi della
specie umana per ragioni diverse?[3]
Nella ricerca sulle basi
neurobiologiche dell’esperienza spirituale individuale e dei processi mentali
legati alle pratiche religiose, le convinzioni personali dei ricercatori spesso
hanno influenzato tanto l’impostazione dello studio quanto la lettura dei
risultati. Anche se oggi si è riusciti ad ottenere un più basso grado di
condizionamento, è preferibile conoscere almeno culturalmente gli autori delle
osservazioni e degli esperimenti. Fra i credenti, alcuni sembrano voler cercare
prove oggettive di ciò in cui credono per fede; fra i non credenti, si possono
riconoscere due principali atteggiamenti mentali: quello di chi ritiene che i
fenomeni osservati derivino da una particolare interazione delle grandi reti
neuroniche del cervello, e tale correlato esaurisca tutto quanto è alla base
dei fenomeni psichici; quello di chi intende il riduzionismo come
localizzazionismo, e perciò ipotizza la concentrazione dei processi evocatori
di spiritualità in un’area circoscritta del cervello (God spot).
Al riguardo, si faceva notare
nel saggio citato: “Alcuni ricercatori agnostici ritengono che i processi
neurobiologici responsabili dello stato affettivo-emotivo che caratterizza le
esperienze mistiche siano all’origine delle religioni. In altre parole, per
costoro tutta la cultura religiosa non sarebbe altro che letteratura, filosofia
ed arte sviluppate quale conseguenza di esperienze insolite o francamente
patologiche che hanno riguardato lontani progenitori e che ancora oggi
interessano il cervello di molte persone. Si comprende che per tali studiosi la
definizione del profilo neurofunzionale di un’esperienza mistica equivale a
decifrare l’origine biologica del sacro e del divino nei termini di uno
stereotipo funzionale minoritario o patologico, perciò non sorprende che
possano essere tentati di trascurare le differenze individuali e l’attività
cerebrale “neutra”, enfatizzando il dato che si avvicina ai reperti patologici”[4].
La discussione è stata alimentata
dalla presentazione di casi in cui la sollecitazione di aree della corteccia
del lobo temprale o di aree mediali tradizionalmente ascritte al lobo limbico,
in assenza di una patologia comiziale, sembra possa aver indotto uno stato di
coscienza caratterizzato da un’ideazione di responsabilità verso il prossimo e
verso Dio. Questi casi, che in assenza dei crismi della condizione sperimentale
si considerano “aneddotici”, contengono delle informazioni affidabili e
l’attribuzione ad un’influenza dell’attività di particolari aree cerebrali sullo
stato di coscienza e sui contenuti ideativi sembra, dai dati esposti, più di
una semplice ipotesi.
Naturalmente, l’indicazione di
questa sede cerebrale richiama alla mente la tradizionale attribuzione dell’esperienza
mistica ad anomalie funzionali di regioni del lobo temporale, che è stata
richiamata dai partecipanti ed è espressa in sintesi nel brano che segue:
“Senza avventurarci in un tentativo
di ricostruzione storica delle origini di questi studi, proponiamo un breve
cenno alle condizioni culturali in cui appare per la prima volta un legame
scientificamente fondato fra funzioni cerebrali ed esperienze ricondotte
all’ambito religioso: l’epilessia del lobo temporale.
Il positivismo ottocentesco, dominante nelle scienze
mediche, bandiva il soprannaturale dagli oggetti del proprio interesse e
tendeva a ricondurre al patologico le esperienze di rapporto col divino. Una
tale visione non si limitava alle applicazioni cliniche relative a casi di
disturbi mentali, ma costituiva un atteggiamento culturale esteso
all’interpretazione dei fatti della storia. Così, le voci di Giovanna d’Arco
erano allucinazioni uditive, le apparizioni della Madonna, allucinazioni visive,
e le estasi mistiche, null’altro che fenomeni para-ipnotici auto- od
etero-indotti. Nel 1892, l’associazione fra religiosità emotiva (religious emotionalism)
ed epilessia è inclusa nei trattati di malattie nervose e mentali[5].
Nel 1975 Norman Geschwind, il
celebre neurologo e studioso di neuroanatomia funzionale del Boston Veterans Administration Hospital, per primo descrisse una
forma clinica di crisi epilettiche originate da alterazioni elettriche del lobo
temporale, in cui i pazienti riferivano intense esperienze spirituali. Geschwind ed altri, fra cui David Bear della Vanderbilt University,
ipotizzarono che scariche elettriche sincrone di gruppi neuronici della
corteccia temporale potessero essere all’origine di pensieri ed ossessioni dai
contenuti religiosi o attinenti a questioni morali.
Questa ipotesi è stata esaminata, venti anni dopo, da Vilayanur S. Ramachandran
dell’Università della California a San Diego, un ricercatore che ha a lungo
studiato i rapporti fra percezione e coscienza, indagando le basi neurali di
fenomeni come la sinestesia[6].
Ramachandran ha supposto che la
chiave del fenomeno sia da ricercare nelle funzioni del sistema limbico, in
stretta associazione morfo-funzionale con le formazioni del lobo temporale.
Sulla base di tale traccia, con i suoi collaboratori, ha allestito degli
esperimenti volti a valutare, nei pazienti affetti da epilessia temporale, il
rapporto fra contenuti psichici e risposte mediate da strutture limbiche.
E’ noto che il contenuto emozionale di uno stato mentale,
grazie alla mediazione limbico-ipotalamica, è trasmesso dal sistema nervoso
vegetativo alla cute, nella quale determina una variazione della resistenza
elettrica o risposta galvanica, proporzionale all’intensità
dell’emozione. Il gruppo di Ramachandran ha sfruttato
questo fenomeno secondo un collaudato modello sperimentale, facendo ascoltare a
pazienti affetti da epilessia temporale una serie di parole dal significato
sessuale, religioso o neutro, e poi rilevandone la risposta cutanea. E’
risultato che parole come “Dio”, producevano una reazione insolitamente
intensa, che non aveva riscontro nelle persone non affette.
I ricercatori di San Diego hanno ritenuto gli esiti di
questa sperimentazione una conferma della maggiore propensione alla
manifestazione di sentimenti religiosi in questi pazienti. Secondo Ramachandran, l’attività elettrica patologica ha rafforzato
le connessioni fra le aree corticali temporali e le formazioni del sistema
limbico, producendo questo effetto[7].
Si può osservare che una tale interpretazione non è una
spiegazione neurofisiologica del fenomeno perché, se è accettabile che
l’epilessia determini una maggiore influenza delle strutture limbiche su quelle
temporali, non si comprende perché questo debba aumentare la propensione al
sacro o al divino. Infatti, una maggiore attivazione dell’amigdala, complesso
nucleare sito nella profondità dorso-mediale del lobo temporale e principale
componente limbica nella mediazione delle emozioni, può aumentare, ad esempio,
l’intensità di risposta negli stati di paura, rabbia, innamoramento o
eccitazione sessuale e, dunque, in questo caso avrebbe potuto tutt’al più
produrre maggiori effetti sulla cute per parole offensive o erotiche.
Perché la tesi di Ramachandran possa ritenersi una spiegazione, è necessario accettare l’ipotesi che i sentimenti legati al sacro e al divino siano generati da una particolare forma di emotività con una base limbica non ancora definita.
D’altra parte, da una sperimentazione che desume attività
cerebrali da variazioni della resistenza elettrica della pelle, non si poteva
pretendere di più”[8].
Sebbene oggi siano in pochi ad
immaginare l’esistenza di un “God spot” quale quello
teorizzato da Persinger, ancora molti sostengono la
necessità di spiegare il perché di effetti spirituali e mistici indotti dalla
stimolazione cerebrale circoscritta. La discussione ha ricalcato gli argomenti
che sono esposti in questo paragrafo intitolato, appunto, Persinger e il “God
Helmet”:
“L’ipotesi dell’importanza del lobo
temporale, la cui lunga tradizione è stata tenuta viva dalla scuola di Geschwind, è stata messa alla prova, in esperimenti ben più
articolati, da Michael Persinger della Laurentian University in Ontario
(Canada).
Persinger e il suo gruppo hanno
realizzato un apposito strumento in grado di generare campi elettromagnetici
deboli e focalizzarli in aree circoscritte della superficie corticale. Simile
ad un casco da motociclista, di un vistoso colore giallo, il copricapo in grado
di stimolare parti discrete del lobo temporale, ha ricevuto il suggestivo nome
di “God helmet”.
E’ difficile sintetizzare in poche righe il lavoro di Persinger e dei suoi collaboratori, perché i loro
esperimenti sono stati condotti per anni su centinaia di volontari e con
diversi paradigmi sperimentali; per questo ci limiteremo a considerare solo il
risultato più rilevante ottenuto dal team canadese: il “casco divino” è
in grado di indurre la sensazione di una presenza spirituale e materiale al
contempo, in assenza di altre persone nella stanza in cui avviene l’esperimento.
Durante i tre minuti di stimolazione temporale mirata, le
persone sottoposte all’esperimento riferiscono ciò che provano traducendolo nel
linguaggio della propria religione e della propria cultura. Alcuni dicono di
sentire la presenza di Dio, altri di Budda, altri ancora parlano di una
presenza benevolente o del miracolo dell’universo. In questo stato mentale,
qualcuno riferisce di sentire come una beatitudine cosmica che rivela una
verità universale.
Persinger conclude che
l’esperienza religiosa e la fede in Dio, non sono altro che la conseguenza di
anomalie elettriche cerebrali, e la vocazione, anche delle figure più
carismatiche delle grandi religioni, quali Mosè, San Paolo, Maometto e Budda,
sia originata da tali disturbi neurologici.
Studiando attentamente i resoconti delle prove sperimentali
condotte con il “God helmet”,
non si può aggiungere molto, in chiave concettuale, alla sintesi appena
riferita e, dunque, sulla base di quanto appena esposto, si può affermare che
le conclusioni di Michael Persinger non sono
desumibili dal risultato degli esperimenti; in altre parole, non sono la
conseguenza logica ed obbligata della lettura degli esiti della
sperimentazione.
Infatti, che una sensazione sia prodotta da condizioni
patologiche o artificiali, non vuol dire che solo queste la possano produrre,
ma solo che il cervello è predisposto a generarla. Lesioni ipotalamiche possono
causare fame intensa, e lesioni dell’amigdala causano desiderio sessuale, ma
non per questo diciamo che l’appetito per i cibi e il desiderio di accoppiarsi
non siano altro che il prodotto di danni cerebrali. Si può dunque supporre che,
come per le pulsioni alimentari ed erotiche esiste una fisiologia, esista una
condizione fisiologica degli stati mistici e spirituali, che non ha bisogno
dell’epilessia o del “God helmet”
per manifestarsi, e della quale si sa ancora poco in termini biologici[9].
La tesi di Persinger, che ricalca
ed amplia quella di Norman Geschwind, era già bene
espressa venti anni or sono, quando lo studioso dell’Ontario spiegava che la
base neuropatologica delle esperienze mistiche di alcuni, aveva creato un
pensiero che, formalizzato e custodito nelle religioni, si era sviluppato e
consolidato attraverso una serie di condizionamenti psicologici ad associare il
positivo ed il piacevole con il sacro[10].
In tal modo, nelle società pervase dalla cultura religiosa, ogni vissuto
paragonabile a quelli ottenuti con il casco erogatore di campi magnetici,
sarebbe stato ricondotto ad una interpretazione obbligata secondo principi,
dogmi e tematiche della religione professata in quella comunità. Come esempio
delle associazioni del piacere al soprannaturale, lo studioso della Laurentian University, cita l’uso
ebraico e cristiano di recitare una preghiera prima dei pasti, ed afferma che
Dio non è nulla di più mistico di ciò.
Nonostante numerose critiche, la tesi e le interpretazioni
di Persinger hanno goduto di un notevole credito fino
al 2005, quando un gruppo di ricercatori svedesi ha condotto uno studio di
verifica provando a ripetere i risultati ottenuti con il “God
helmet”. Il rigore e l’impegno del team
scandinavo ha consentito l’allestimento di procedure ottimali, ma gli
esperimenti non hanno riprodotto i risultati canadesi[11],
che pertanto non sono stati confermati.
Una critica più generale, che è stata mossa alle ricerche
basate sull’ipotesi del lobo temporale, consiste nel rilevare che
l’esperienza spirituale include elementi vari e di diversa natura, e nella vita
di molti può essere del tutto priva di stati mentali collegati alla dimensione
mistica e, perciò, rimane lontana dalle suggestioni prodotte dal disturbo
epilettico o dalla stimolazione con campi magnetici deboli.
Hanno accolto questa critica i gruppi di ricerca che
indagano, nel corso di esperienze dello spirito e di pratiche religiose, i
correlati neurofunzionali degli stati mentali, considerando la possibilità che
a condizioni, pratiche ed esperienze differenti, possano corrispondere quadri
di attività diversi, potenzialmente localizzati in qualsiasi lobo del cervello o
area dell’encefalo.
In questo tipo di studi, i ricercatori hanno spesso
confrontato i rilievi ottenuti studiando stati mentali accostabili in termini
di apparenza funzionale, anche se generati in realtà culturali diverse. Ad
esempio, la calma indotta dalla recita del rosario nei cattolici, è stata
paragonata all’effetto prodotto nei seguaci di altre religioni da pratiche
caratterizzate dalla ripetizione di specifiche formule. Naturalmente,
l’accostamento può difficilmente essere accettato dai praticanti, ma l’intento
è quello di definire e mettere alla prova un’ipotesi di lavoro un po’ più
generale, circa i processi che operano quando si è assorti e concentrati in
preghiera, magari verificando se le caratteristiche o i contenuti di pratiche
buddiste, cattoliche, indù o islamiche, inducono differenti schemi di attività
cerebrale.”[12]
Nel prosieguo del dibattito,
si è concordato circa la necessità di escludere dai nostri interessi
un’improbabile ricerca sulle basi neurobiologiche delle pratiche religiose che,
al di là di fornire correlati neurofunzionali di processi cognitivi e
psicomotori indipendenti dai contenuti astratti attribuiti non possono andare,
e concentrarsi sui rapporti fra esperienze spirituali e quadri funzionali, non
esclusivamente cerebrali.
L’autore della nota invita alla lettura di Lanfredini M., Cardon N., Perrella G., La
ricerca dello spirito nel cervello. BM&L-Italia, Firenze 2008. Nella
sezione “IN CORSO” del sito nei formati PDF e HTML.
La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Lanfredini M., Cardon N., Perrella G., La ricerca dello spirito nel cervello. BM&L-Italia, Firenze 2008. Nella sezione “IN CORSO” del sito nei formati PDF e HTML.
[2] Ricordiamo che in psicoanalisi questa ideazione è considerata la conseguenza del processo di difesa inconscio, e perciò automatico e involontario, consistente nel diniego della morte, ossia nel non voler accettare la sua esistenza.
[3] Nella discussione, l’interrogativo è stato esteso a tutti quei contenuti del pensiero religioso, quali rinunciare a questa vita per quella eterna o dare la vita per i propri fratelli, che apparentemente vanno contro i principi darwiniani.
[4] Lanfredini M., et al., op. cit., p. 2.
[5] A
distanza di quasi un secolo, il maggiore trattato di psichiatria americano, in
una descrizione della personalità epilettica, includeva la “religiosità
sentimentale” [Silvano Arieti (a cura di), Manuale di Psichiatria in 3
volumi, vol. II, p. 1270, Boringhieri, Torino 1969-1987, traduzione
italiana dell’American
Handbook of Psychiatry, Basic Books, New York 1959-1966].
[6] L’associazione costante di una qualità non presente in uno stimolo percepito, come ad esempio il colore verde al numero 3 e il rosso al numero 10, oppure un dato sapore ad un dato colore, è generalmente definita sinestesia. Considerata a lungo una semplice curiosità, il primo studio scientifico della sinestesia risale alla pubblicazione sulla rivista Nature, nel 1880, di un articolo firmato da Francis Galton. Attualmente per sinestesia si intende una condizione in cui una persona sperimenta l’associazione o la commistione di due o più sensazioni per effetto di un’anomala interazione fra aree cerebrali che in condizioni normali agiscono separatamente. Si veda su questo argomento: Note e Notizie 30-12-05 Sinestesia come finestra sulla natura del pensiero.
[7] Vilayanur
S. Ramachandran & Sandra Blakeslee, Phantoms in the Brain: Probing the
Mysteries of the Human Mind. William Morrow,
[8] Lanfredini M., et al., op. cit., p. 4.
[9] Come vedremo più avanti, lo studio della neurofisiologia dello spirito è l’oggetto delle ricerche più recenti. Si può osservare che la posizione di Persinger sembra gravata dal fardello del pregiudizio della psichiatria ottocentesca, che considerava espressione di patologia ogni stato o fenomeno mentale ricondotto al soprannaturale.
[10] Michael Persinger, Neuropsychological Bases of God Beliefs. Praeger Publishers 1987.
[11] Si fa menzione di questo
lavoro alla p. 41 di David Biello, Searching for God in the Brain. Scientific American MIND 18 (5), 38-45, 2007.
[12] Lanfredini M., et al., op. cit., p. 5.