Nuova misura per rilevare la coscienza nel cervello

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XV – 13 gennaio 2018.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

Molti ricorderanno, anche perché seguita da telegiornali e giornali italiani, la dolorosa vicenda di Terri Schiavo, una ventisettenne della Florida entrata nel 1990 in uno stato vegetativo persistente a seguito di un arresto cardiaco, per la quale il marito chiedeva la sospensione dell’alimentazione che la teneva in vita, contro la volontà dei genitori della giovane che la ritenevano cosciente e speravano che potesse uscire dal coma. Ne seguì una battaglia legale che terminò nel 2005, quando l’autorità giudiziaria statunitense autorizzò la sospensione delle cure palliative, determinando la morte della donna che aveva commosso milioni di persone e indotto il governo dello Stato della Florida e il governo federale degli USA a promulgare una legge che proteggesse le persone in quelle condizioni da decisioni affrettate o arbitrarie dei tutori legali.

Era realmente possibile che in Theresa Marie Schindler Schiavo vi fosse un residuo di attività cosciente, in quello stato definito UWS (unresponsive wakefulness syndrome) in cui si vive la ciclicità fra il sonno ed una veglia priva di reazione agli stimoli? Non lo sappiamo.

In quella condizione fisiopatologica, in cui sono conservati gli automatismi vitali del sistema nervoso vegetativo, il paziente ingoia, sbadiglia, apre gli occhi e li muove, presenta a volte movimenti del capo apparentemente non intenzionali, senza mostrare alcuna evidenza di coscienza. Ma, come si suole dire in neurologia, “assenza di evidenza” non vuol dire “evidenza dell’assenza”; pertanto, la possibilità di mettere a punto nuovi metodi per la rilevazione dell’attività cosciente cerebrale, impegna da anni neurologi e neuroscienziati.

Uno dei maggiori problemi, se non il problema principale degli ultimi decenni per questo genere di studi, è consistito nel disporre di una teoria scientifica della coscienza che consentisse di identificare con sufficiente approssimazione i correlati neurali misurabili. In proposito, qualche anno fa, presentando l’ultimo libro di Dehaene sull’argomento, abbiamo dedicato un aggiornamento all’esposizione della concezione neuroscientifica della coscienza e alle sue principali teorie; rimandando alla lettura dell’articolo, qui ci limitiamo a ricordare che la Integrated Information Theory (IIT), sostenuta fra gli altri da Giulio Tononi della Wisconsin-Madison University e Christof Koch dell’Allen Institute for Brain Science di Seattle, impiega un’espressione matematica per rappresentare l’esperienza cosciente e deriva previsioni circa quali circuiti cerebrali siano essenziali per produrre questa esperienza[1].

Un metodo per rilevare la presenza della coscienza nel coma, che rispetta i requisiti postulati dalla IIT (Integrated Information Theory), è stato sviluppato nei primi anni del 2000 da Marcello Massimini, ora all’Università di Milano, distinguendo in sei volontari sani lo stato di riposo ad occhi chiusi da quello di sonno profondo con l’invio di impulsi di stimolazione magnetica transcranica (TMS) e l’analisi dell’EEG mediante un algoritmo di compressione dei dati simile a quello che si impiega per ridurre le dimensioni di un file voluminoso da memorizzare sul computer[2].

La procedura ha preso il nome di zap and zip perché l’impulso inviato mediante TMS, che genera una cascata di eventi elettrici nel cervello paragonata al risuonare di una campana al colpo del batacchio, può considerarsi come una scossa (zap) e l’algoritmo di compressione dei dati è stato preso a prestito da quello comunemente presente sui computer (zip). In tal modo la risposta elettroencefalografica al quesito relativo alla coscienza può essere condensata in un solo numero: l’indice di complessità perturbativa (PCI, da perturbational complexity index).

Il PCI è stato definito, in termini di misura, come un parametro che ha un’estensione da 0 a 1. Se il cervello non reagisce alla stimolazione magnetica, perché l’attività della corteccia è soppressa o ridotta al minimo, il valore del PCI sarà prossimo allo zero; se, al contrario, una piena attività cerebrale esprime tutta la complessità della fisiologia encefalica, il valore del PCI sarà uno.

Negli anni seguenti, Marcello Massimini con Giulio Tononi, psichiatra e neuroscienziato ex-allievo di Gerald Edelman, e altri diciassette colleghi, fra neurologi e neuroscienziati, hanno verificato il valore della procedura zap and zip in un notevole numero di pazienti e volontari sani: i risultati sono esposti in un articolo pubblicato nel novembre del 2016[3].

Questo interessante lavoro è stato sviluppato secondo un protocollo semplice ed efficace in due fasi: 1) stabilire un valore critico di PCI per la presenza della coscienza in un campione della popolazione generale; 2) impiegare il valore ottenuto per cercare di rilevare la presenza di coscienza nei casi dubbi.

Lo studio, che ha incluso pazienti provenienti da reparti specialistici italiani e belgi, nella prima fase ha applicato il procedimento zap and zip, definendo un valore-soglia di PCI, indicato con PCI*, al di sopra del quale vi è la ragionevole certezza che sia presente la coscienza. In tutti i casi in cui la coscienza può essere riconosciuta con certezza in un soggetto, il valore di PCI dovrebbe essere sempre maggiore di PCI*; al contrario, in tutti i casi in cui la persona esaminata è incosciente, il suo valore di PCI dovrebbe sempre essere al di sotto della soglia costituita da PCI*. Dunque, questa procedura identifica il valore di PCI* quale soglia critica per la misura minima dell’attività cerebrale complessa necessaria perché si abbia coscienza.

Nella seconda fase, questa soglia è stata impiegata per poter dedurre la presenza di coscienza nei pazienti che vivono in quella condizione, detta zona grigia, in cui i metodi attualmente in uso per rilevare i processi cerebrali necessari alla coscienza risultano insufficienti.

La popolazione di riferimento usata per calibrare la procedura comprendeva due gruppi: uno costituito da persone sane e l’altro formato da persone con danno cerebrale, ma sveglie e consapevoli. I 102 volontari in buona salute sono stati studiati in stati funzionali del cervello diversi, sia coscienti che incoscienti: a) svegli in stato di quiete con gli occhi chiusi; b) durante i sogni nella fase REM; c) in anestesia mediante ketamina, che disconnette la mente dal mondo esterno ma non estingue la coscienza[4]; d) in condizioni di incoscienza durante un sonno profondo; e) in anestesia di livello chirurgico impiegando tre diversi farmaci (midazolam, xenon e propofol). Il secondo gruppo, ossia quello delle persone portatrici di danno cerebrale, era costituito da 48 persone con coscienza vigile e normale reattività agli stimoli, che sono state valutate da sveglie quale riferimento di controllo.

È emerso che la coscienza poteva essere rilevata con assoluta precisione in ogni soggetto usando lo stesso valore di PCI*: 0,31. In altre parole, nelle 540 condizioni studiate nei 150 soggetti, se la risposta elettrica era presso questa soglia o al di sotto, la persona era incosciente, se era sopra questo valore, la persona era cosciente.

Marcello Massimini, Silvia Casarotto e colleghi hanno allora applicato la procedura con il valore soglia per la coscienza di PCI*= 0,31 a un campione di pazienti affetti da gravi disturbi della coscienza, quali MCS (minimal conscious state) o UWS (unresponsive wakefulness syndrome). I risultati sono molto interessanti.

Nel gruppo MCS, per i pazienti con almeno qualche segno comportamentale al di là degli automatismi vegetativi quali il respirare, il metodo ha indicato correttamente la presenza di coscienza in 36 dei 38, sbagliando solo in due casi che risultavano non coscienti. Dei 43 pazienti UWS, privi di capacità di comunicare, 34 presentavano una risposta cerebrale paragonabile a quella dei soggetti sani quando non coscienti. Molto più problematico l’esito della procedura zap and zip negli altri nove pazienti UWS.

Infatti, il loro cervello rispondeva agli impulsi di TMS con un pattern complesso di attività superiore alla soglia; in altre parole, secondo l’indice PCI, il loro EEG denotava un’attività mentale corrispondente a quella della coscienza delle persone sane di riferimento. Questi pazienti con risposte corticali di alta complessità, pur incapaci di comunicare, potrebbero essere in grado di elaborare esperienze.

Se si fosse potuto disporre di questo metodo nei quindici anni di vita vegetativa di Terri Schiavo si sarebbe potuto sapere se i suoi genitori avessero ragione nel sostenere che la figlia fosse in parte cosciente.

Christof Koch, apprezzando questo studio perché apre “nuove vie di pensiero”, si pone delle domande che qui riportiamo in sintesi: come può essere migliorato il metodo zap and zip per raggiungere il 100% di precisione nei pazienti in stato di coscienza minimale? Potrebbe essere impiegato per valutare pazienti affetti da catatonia, da demenza in fase avanzata, o lattanti e bambini? Koch si chiede anche se possono essere sviluppati altri metodi di misura fisiologica o comportamentale a sostegno dell’inferenza che alcuni pazienti in UWS sono coscienti. Il metodo – si chiede ancora Koch – potrebbe essere convertito in uno strumento prognostico, in grado di inferire in che misura delle persone in UWS si possano ritenere in via di guarigione?[5]

Facciamo nostri gli interrogativi di Koch e ci associamo a lui nel celebrare il valore di questo studio, che dovrebbe essere conosciuto anche fuori del campo delle neuroscienze e della neurologia clinica.

 

L’autore della nota ringrazia il presidente Perrella per la collaborazione e la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza; inoltre, invita alla lettura delle numerose recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-13 gennaio 2018

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Note e Notizie 13-09-14 La coscienza e un interessante nuovo libro di Dehaene.

[2] Marcello Massimini et al. Breakdown of Cortical Effective Connectivity during Sleep. Science 309: 2228-2232, 2005.

[3] Silvia Casarotto et al. Stratification of Unresponsive Patients by an Independently Validated Index of Brain Complexity, Annals of Neurology 80 (5): 718-729, 2016.

[4] La ketamina, usata come sostanza allucinogena di abuso (droga), in passato era impiegata come anestetico di scelta per interventi chirurgici su aree dolorose per le sue proprietà analgesiche; poi dismessa per il rischio di allucinazioni. Si considera un anestetico incompleto perché non è in grado di portare il paziente al III stadio. È stata sperimentata e proposta come antidepressivo. Si veda in Note e Notizie 29-06-13 Discussione critica sulla ketamina come antidepressivo. Si veda anche Note e Notizie: 14-09-13 Psilocibina: miti e realtà sulle virtù terapeutiche di un allucinogeno.

[5] Christof Koch, How to make a consciousness meter. Scientific American 317 (5): 20-25, November 2017.