Nuovi approcci al disturbo bipolare e al suo trattamento

 

 

LUDOVICA R. POGGI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 19 novembre 2016.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Harrison e colleghi dell’Università di Oxford, ricalcando i motivi di un adagio familiare da tredici anni ai membri della nostra società scientifica, introducono un loro utile ed interessante studio con una verità che raramente viene posta all’ordine del giorno nei convegni di psichiatria e psicofarmacologia: sessant’anni dopo l’introduzione del carbonato di litio nella terapia del disturbo bipolare o psicosi maniaco-depressiva - come la si chiamava allora - il litio, con tutti i limiti, i rischi e le delusioni dovute all’inefficacia in una notevole percentuale di casi, è ancora considerato l’unico riferimento certo nel trattamento farmacologico, per il fallimento o i gravi pericoli legati all’uso delle altre classi di farmaci nel tempo proposte quali “stabilizzatori dell’umore”.

In altri termini, da un punto di vista clinico, almeno per ciò che concerne le terapie farmacologiche, non si sono fatti reali progressi da quando per serendipità, ossia per puro caso, si scoprirono le proprietà dei sali di litio.

Se si eccettuano quei casi in cui la permanenza in una delle due fasi, ossia di eccitazione o di depressione, è tanto lunga da consentire il trattamento con neurolettici o con antidepressivi, non costituendo la fluttuazione di fase un problema, si deve ammettere che non sono stati introdotti in terapia nuovi presidi efficaci e sicuri per affrontare la sintomatologia bipolare, nonostante periodi di ipotizzate e propagandate svolte.

Eppure gli studi di osservazione, ma soprattutto le indagini sperimentali, oggi ci forniscono una messe di nuovi dati e nozioni sulla neurobiologia dei disturbi psicotici, e del disturbo bipolare in particolare, da consentirci di concepire nuovi metodi per approcciare il problema e nuove possibilità per tentarne il trattamento.

La lettura dell’articolo di Harrison e colleghi, di interesse generale per tutti coloro che studiano mente e cervello, dovrebbe aiutare gli psichiatri che si sono adagiati nell’esercizio di una pratica inerziale e quasi passiva di prescrizione di “stabilizzanti dell’umore”, a porsi domande sui propri pazienti bipolari e a cercare di conoscerli meglio per sostenerli e guidarli nella scelta dei modi migliori per la gestione di se stessi.

(Harrison P. J., et al., Innovative approaches to bipolar disorder and its treatment. Annals of the New York Academy of Sciences 1366 (1): 76-89, 2016).

La provenienza degli autori è la seguente: Departments of Psychiatry, University of Oxford, Oxford (Regno Unito); Oxford Health NHS Foundation Trust, Oxford (Regno Unito); Oxford Centre for Human Brain Activity, Warneford Hospital, Oxford (Regno Unito).

Gli autori dello studio affermano che la mancanza di progressi è la conseguenza di varie cause, fra cui emergono l’ignoranza dei processi che costituiscono la fisiopatologia del disturbo e la complessità non bene analizzata e interpretata del fenotipo clinico. Poi, dopo aver illustrato compiutamente lo stato attuale della clinica del disturbo bipolare secondo quanto prevalentemente si registra nel Regno Unito, propongono la discussione di nuovi orientamenti e prospettive, che qui di seguito si sintetizzano concettualmente in quattro punti.

1) Caratterizzazione del profilo clinico. Si avverte la necessità di una descrizione dettagliata dei caratteri e delle manifestazioni emergenti, a fronte di una tendenza a limitarsi al rilievo di quei tratti tradizionalmente considerati rilevanti in rapporto ai modelli classici di personalità e comportamento che hanno costituito i prototipi descrittivi della psicosi maniaco-depressiva, o in relazione alla lista di caratteristiche corrispondenti ai criteri del DSM, attualmente DSM-5. Al riguardo, si nota che l’impiego di criteri di diagnosi e diagnosi differenziale che consentono in medicina di far corrispondere il quadro clinico in esame ad una precisa categoria nosografica ha reale utilità in rapporto ad una specifica possibilità terapeutica.

Harrison e colleghi osservano che una più ricca caratterizzazione del profilo clinico è oggi facilitata dalla possibilità di impiegare nuovi dispositivi, nuove tecniche di raccolta dei dati e nuovi metodi di analisi. Gli psichiatri che già ne fanno uso stanno promuovendo una rivalutazione del fenotipo con una maggiore enfasi sull’instabilità dello stato psichico di base, espresso dalle variazioni dell’umore, piuttosto che sulla fenomenica comportamentale dei singoli episodi di depressione e di eccitazione.

2) Ruolo della medicina sperimentale. La medicina sperimentale può avere un’importanza notevole nel ridurre i tempi, i costi e, soprattutto, i rischi della valutazione nel singolo caso dell’efficacia di potenziali stabilizzatori dell’umore.

3) Utilizzo dei dati genomici. Questo aspetto assumerà un’importanza sempre maggiore con i progressi delle conoscenze genetiche. Harrison e colleghi suggeriscono che, sulla base dei dati genomici, si possono definire e convalidare gli obiettivi di studio e trattamento. Un esempio importante è costituito dalla crescente evidenza della partecipazione dei geni delle proteine dei canali del Ca2+, che sembrano avere un importante ruolo nella patogenesi delle manifestazioni sintomatologiche.

4) Nuovi metodi e modelli per lo studio del disturbo bipolare (incluse cellule staminali e riproduzioni artificiali delle alterazioni nell’animale). Sono stati proposti e, in parte, sono attualmente impiegati nuovi sistemi di studio delle alterazioni rilevate nelle persone affette, come quelli che fanno ricorso ai neuroni neoprodotti dai fibroblasti del paziente, e nuovi modelli animali, prevalentemente costituiti da topi geneticamente modificati che riproducono alcune delle caratteristiche salienti del disturbo. In genere questo tipo di studi è poco seguito dai clinici, ma è auspicabile un cambiamento, perché in tal modo sono state identificate vie metaboliche chiave nella fisiopatologia bipolare e su questi modelli sono sempre più spesso testate le nuove molecole sperimentate per verificarne le potenzialità terapeutiche.

Concludendo, Harrison e colleghi sostengono che la combinazione di questi quattro approcci potrà consentire il superamento dell’attuale fase di stallo.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-19 novembre 2016

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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