Modello umano di panico per esposizione a CO2

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 24 settembre 2016.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

L’esperienza vissuta da persone depresse, ansiose, soggette ad attacchi di panico o ad altre forme di sofferenza psichica strettamente associate a vicende traumatiche, di perdita o di disagio esistenziale, per me e per tanti altri medici, ha costituito la ragione principale, per immedesimazione ed empatia, della scelta di studiare le discipline psicopatologiche e diventare psichiatra. Implicita in questa scelta è l’attenzione immediata e diretta per i fattori posti in gioco dal mentale, cosciente e non cosciente della persona affetta, e desunto sia dall’osservazione che tende al rilievo oggettivo sia dalla comunicazione sviluppata nella relazione interpersonale. L’attrazione esercitata dall’approccio fenomenologico ed umanistico al disagio mentale, accresciuta anche da una psicopatologia ancora dominata fino ad una quindicina di anni fa dalle teorie psicologiche, ha favorito in molti di noi la conservazione di un atteggiamento di estrema prudenza e distanza, se non proprio di prevenzione e scetticismo, nei confronti dell’impegno della psichiatria biologica a tradurre in chiave umana[1] i modelli sperimentali sviluppati nella realtà animale. Ma oggi, a fronte di risultati interessanti e rilevanti prodotti col trasferimento alla sperimentazione umana di paradigmi animali, è necessario rompere gli indugi ed occuparsi di questi sviluppi della ricerca, per non rischiare un imperdonabile atteggiamento di negligenza preconcetta.

Credo siano comprensibili la diffidenza e la resistenza nei confronti dei modelli murini da parte di chi ha vissuto l’esperienza ed ha approfondito lo studio della dimensione umana della sofferenza, come è accaduto a me e a tanti colleghi che sono stati al contempo medici e pazienti di disturbi d’ansia o depressivi. È difficile accettare di porre sullo stesso piano di alterazioni artificialmente prodotte nel cervello murino le condizioni psichiche innescate da eventi traumatici, da stress cronico o da vissuti di lutto come la perdita di persone care, di relazioni importanti, del lavoro, della salute, di progetti nei quali si è compiuto un investimento identitario, e così via. O, più scientificamente, ridurre ad esempio a quello di un topo il nostro proencefalo che ha, fra i meccanismi intrinseci di adattamento funzionale, il linguaggio e il pensiero, con una gamma di processi che va dall’interpretazione rievocativa di eventi passati alla pianificazione e previsione di eventi della vita futura. Senza contare che alla sofferenza umana, in genere, prendono parte altri aspetti irriducibili alla realtà animale, quali la dimensione spirituale, quella socio-antropologica e quella ideologico-politica dell’identità di ciascuno, con proporzioni variabili, con valori diversi e consapevolezza differente da persona a persona, ma raramente configurando il caso di un’assenza completa di tutte e tre le dimensioni.

Se però impieghiamo il vecchio ma utile paradigma dei livelli, possiamo accettare l’idea che al di sotto del livello mentale e psicologico della persona vi siano dei meccanismi neurobiologici di traduzione degli stati di squilibrio e scompenso funzionale costituiti da una radice filogeneticamente conservata e comune a tutti i mammiferi.

D’altra parte, la reale esistenza di innumerevoli meccanismi comuni di fisiologia, patologia e tossicità cerebrale, è la base di tutta la sperimentazione di neurofarmacologia e psicofarmacologia condotta su animali.

Leibold e colleghi hanno condotto un interessante lavoro nel quale, prendendo le mosse da un collaudato modello murino di reazione indotta da CO2 ed equivalente ad una crisi umana di angoscia acuta, si è provato a realizzare un modello di panico trans-specifico e a sottoporlo a verifica tanto in volontari in apparente buona salute psicofisica quanto in pazienti con diagnosi di disturbo da attacchi di panico.

(Leibold N. K., et al. CO2 exposure as translational cross-species experimental model for panic. Translational Psychiatry  6 (9):e885. doi:10.1038/tp.2016.162, 2016).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Psychiatry and Neuropsychology, Maastricht University, Maastricht (Paesi Bassi); School of Mental Health and Neuroscience,  Maastricht University, Maastricht (Paesi Bassi); European Graduate School of Neuroscience, Maastricht (Paesi Bassi); Department of Neurology, Yale University, New Haven, CT (USA); Division of Molecular Psychiatry, Laboratory of Translational Neuroscience, Center of Mental Health, University of Wuerzburg, Wuerzburg (Germania); Department of Neurology, University of Iowa, Iowa City (USA); Center for the Psychology of Learning and Experimental Psychopathology, Department of Psychology, University of Leuven, Tiensestraat, Leuven (Belgio).

Lo studio di Leibold e colleghi non nasce quale iniziativa isolata di un gruppo di ricerca, ma è conseguenza di un importante evento che segna una positiva evoluzione culturale in uno dei più prestigiosi ed influenti istituti per lo studio dei disturbi mentali: lo US National Institute of Mental Health (NIMH). Le nostre intransigenti critiche al DSM[2] e alla cultura promossa da anni dalla commissione dell’APA[3] hanno trovato riscontro nelle analisi di molti ricercatori afferenti alla maggiore organizzazione scientifica pubblica degli Stati Uniti d’America per lo studio delle basi neurali della psicopatologia. La deriva dei criteri diagnostici[4], sempre più lontani dall’impostazione medico-scientifica e sempre più psicologistici, socio-comportamentali, forensici ed autoreferenziali, era giunta ad un punto di non ritorno nell’escludere una sindrome dal novero delle diagnosi psichiatriche quando si è giunti alla possibilità di diagnosticarla con assoluta certezza biomedica: un paradosso per lo strumento più impiegato al mondo dai medici specialisti in psichiatria. I responsabili della ricerca dell’NIMH, prendendo le distanze da APA e DSM, hanno deciso di investire su progetti finalizzati alla ricerca sull’eziopatogenesi e la fisiopatologia dei disturbi mentali, secondo rigorosi criteri neuroscientifici ed ipotesi di lavoro formulate sulla base di evidenze sperimentali. A questi progetti appartiene il lavoro qui recensito. Lo scopo più immediato dell’NIMH è la realizzazione di una nosografia psichiatrica maggiormente basata su criteri eziologici.

La neurobiologia di base dei disturbi psicopatologici umani è spesso studiata mediante modelli sperimentali realizzati nei roditori ma, anche sorvolando sull’annosa questione dell’impiego degli animali in questi studi, peraltro non accettato da chi scrive, le differenze nei dati di misura dei risultati impediscono un’immediata traduzione delle conoscenze acquisite. Per questo motivo, Leibold e colleghi hanno provato a realizzare un modello di panico “translational”, impiegando lo stesso stimolo e confrontando quantitativamente le stesse misure dei risultati nei roditori, in volontari in apparente buona salute psichica e in pazienti affetti da disturbo di panico[5] nell’ambito di un progetto di studio di grandi proporzioni.

I ricercatori hanno misurato le risposte corporee e comportamentali-emotive all’esposizione alla CO2 in tutti e tre i campioni, realizzando tutte le condizioni per un’affidabile comparazione fra specie o, come si suol dire con un mezzo anglicismo, cross-specifica.

L’esposizione a CO2 causava un’intensa reazione di paura, manifestata dai topi nei modi del comportamento tipico per questa emozione, ed espressa da parte dei volontari umani nei termini di sintomi del disturbo d’ansia con attacchi di panico, sia nei volontari in buona salute psichica sia nei pazienti già sofferenti del disturbo. Di passaggio, si nota che l’induzione di crisi di panico in persone non affette o tendenti a presentare questa forma sintomatica di angoscia acuta, suggerisce l’esistenza di una potenzialità fisiologica comune, con variazioni individuali di soglia per il suo manifestarsi. La CO2 di questa esposizione sperimentale ha evidentemente agito da “stimolo adeguato” in grado di superare la maggiore resistenza individuale di alcuni, legata al fenotipo e allo stato funzionale del momento.

Per migliorare la comparabilità, i ricercatori hanno poi valutato formalmente le risposte respiratorie e cardiovascolari alla CO2, dimostrando effetti respiratori e cardiovascolari corrispondenti fra la specie murina e quella umana.

Il modello nel suo insieme, per il cui dettaglio si invita alla lettura del testo integrale del lavoro originale, sembra efficacemente assolvere al compito per il quale è stato concepito, ossia dissipare i dubbi su differenze sostanziali fra la reazione del cervello degli animali ed il nostro alla CO2, consentendo di estendere alla realtà clinica quanto viene conosciuto e provato mediante l’impiego di questo paradigma nei roditori.

Gli autori dello studio sostengono che questo modello di “traduzione” consentirà significativi progressi nel difficile cammino che porterà a comprendere le basi biologiche dei disturbi d’ansia con attacchi di panico e sarà di grande beneficio per una ridefinizione delle strategie diagnostiche e di trattamento.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza ed invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-24 settembre 2016

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Con l’espressione alla moda di translational psychiatry si indica uno dei tanti utilissimi ponti che tendono a collegare lo studio diretto sull’uomo con la ricerca neurochimica, neurogenetica, biomolecolare e cellulare svolta su animali o su sistemi separati dall’unità complessiva del nostro organismo.

[2] Manuale Diagnostico Statistico dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association (APA).

[3] Si veda “Viaggio nel DSM-5” nelle “Note e Notizie” a partire dal 30 giugno 2012.

[4] Da noi denunciata fin dal nascere di questa società scientifica e, negli anni precedenti, indipendentemente da molti che sono poi diventati nostri soci.

[5] È la definizione impiegata in Italia quale effetto della traduzione di panic disorder che costituisce la categoria del DSM.