“Donne di Cervello”: una proposta di incontro e partecipazione a distanza

 

 

MONICA LANFREDINI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 02 aprile 2016 (05 gennaio 2015).

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[ARTICOLO ORIGINALE CON IL QUALE È STATA LANCIATA L’INIZIATIVA]

 

Si riporta, qui di seguito, l’articolo redatto e diffuso a partire dal 5 di gennaio 2015, che ha presentato l’iniziativa ed ha avuto il merito di attrarre l’attenzione di tante donne durante lo scorso anno.

 

Un incontro fra donne. Al termine di una lunga ed estenuante riunione settimanale per la programmazione delle attività e la pubblicazione sul sito, un lunedì sera ci siamo ritrovate solo donne: un evento raro che non abbiamo tardato molto a rilevare, apprezzare e cogliere come occasione di riflessione su noi stesse e, più in generale, sulla transizione culturale che vivono le società più sviluppate ed influenti nella considerazione dell’identità e del ruolo sociale della donna. Dal tempo in cui non erano pochi gli stati in Europa e in America in cui le donne non avevano diritto di voto, all’attuale femminismo di maniera che, al pari di altre mode educative è diventato un luogo comune svuotato di molti dei suoi contenuti originari e capace solo di generare e dispensare nuovi stereotipi espressivi e “quote rosa” in  politica, sono passate poche generazioni, ma la realtà è profondamente mutata.

L’insistere mediatico su un lessico che presuppone una concezione ispirata ad un conflitto fra sessi e ad atteggiamenti di rivendicazione di una parte, quella delle donne, tutte intrinsecamente buone e vittime di una altra parte, quella degli uomini, tutti intrinsecamente cattivi e criminali, è ormai anacronistico. È il caso - notavamo concordemente - dell’orribile espressione “femminicidio” per indicare la triste tragedia dell’uccisione di una persona di sesso femminile da parte di una di sesso maschile. Allora si diceva, per restare alla cronaca, ci si dovrebbe attendere che un “maschio militante nel fronte opposto” cominci ad etichettare come “maschicidi” gli assassini dei figli maschi da parte delle madri. Tutto ciò, oltre ad essere estremamente penoso, è assolutamente fuorviante: l’uccisione delle donne non avviene come esito di uno scontro tra fazioni, ma per quei motivi che tutti conosciamo e che inchiodano i criminali alle proprie responsabilità individuali; cogliere l’occasione di vicende così tristi per ribadire un vecchio paradigma ideologizzato di divisione in due dell’umanità, sposta l’attenzione e l’intenzione dalle vere ragioni di quanto accade verso una dimensione di rappresentazione irrealistica, rischiando di ridurre le possibilità di incidere nella realtà per un cambiamento. Riteniamo, infatti, che sia necessario svolgere a tutti i livelli azioni educative per edificare nella mente del maggior numero di persone possibile un rispetto per la donna, così profondamente compreso e radicato da proteggerci anche dalle menti più perverse.

Con questo esempio non volevamo fare una questione di parole, ma rilevare un problema di sostanza che origina da una diversa sensibilità. È una questione di rispetto, e il rispetto non si ottiene riducendo una persona al suo sesso o al suo genere, ma comprendendone innanzitutto il valore assoluto, in quanto membro della famiglia umana, e riconoscendo la specificità delle sue caratteristiche, incluso l’essere biologicamente donna, uomo, bambino o anziano, come un valore aggiunto.

Se è necessario edificare rispetto, perché rinunciare ad un vocabolo che racconta col suo etimo una lunga ed antica storia di rispetto, come il termine donna?

Dal latino domina, padrona, per secoli è stato impiegato per rivolgersi con riguardo e deferenza anche a chi non si conosceva, fino a quando il logorarsi del senso con l’uso ha visto la sostituzione, nello stesso valore semantico, con il termine signora.

In Firenze, fino a qualche decennio fa, vi erano ancora molti che chiamavano madonna e messere, ossia “mia signora” e “mio signore”, le persone che incontravano per strada. Non era solo e sempre una forma esteriore di uso linguistico, ma era anche segno e conseguenza di un lavoro educativo condotto spesso con la spontaneità dell’amore in seno alle famiglie e con la serietà della missione nelle istituzioni scolastiche. Non si tratta di contrapporre tradizione a innovazione, ma di credere in un valore, come il rispetto, ed impiegarlo quale stella polare per scegliere cosa conservare e cosa gettare alle ortiche.

Si è osservato che la ricchezza, la molteplicità e la multiformità della cultura greca sono state una tentazione irresistibile per chi ha cercato di portare acqua al proprio mulino ideologico o preconcetto, estraendone ciò che conviene e dando alle frasi prescelte il rilievo e la solennità di un’epigrafe della più celebrata civiltà del mondo antico. Così qualcuno, approfittando dei personaggi di Euripide, ha attribuito al pensiero greco un giudizio deleterio sul genere femminile, che costituirebbe una minaccia per gli uomini: “La donna è il peggiore dei mali”. Ma in Euripide si trova anche chi dica, in una empatica considerazione del frequente ruolo di vittima: “Di tutto ciò che vive e ha intelligenza, noi donne siamo la creatura più infelice”.

Nel pensiero greco si trova di tutto, compresa un’esperienza di errore che dovrebbe guidarci nel presente, aiutandoci a non cadere negli inganni del passato. Fidarsi delle differenze sessuali per farne un paradigma di identità o di sostanza è pericoloso: il genere è proprio ciò che distingue la donna dall’uomo, ma la metonimia della sessualità, se presa alla lettera ed estesa alla personalità, può condurre anche una mente ingegnosa e raffinata, come era quella di Aristotele, a concepire solenni corbellerie. In un’analisi naturalistica basata sul corpo e sulle evidenze comportamentali, Aristotele definiva la donna fredda, umida, cava e l’uomo caldo, secco, pieno. Munita di utero che la rende cava e, poiché attende alle faccende domestiche invece di addestrarsi ed esercitarsi all’aperto per la battaglia, diventa anche fredda ed umida. Da questa suggestione il filosofo desume i tratti psicologici fondamentali, nelle triadi della sua celebre dicotomia: la donna è timida, paurosa, bugiarda; l’uomo franco, coraggioso, leale. Tutto ciò, derivando dal sesso, sarebbe appartenuto alla genuina natura degli esseri umani.

L’errore aristotelico avrebbe dovuto evidenziare il pericolo insito nel ridurre le persone al corpo e alla sua interpretazione corrente, ma ciò non è avvenuto, e l’errore è stato ripetuto, con accenti di segno opposto, dal femminismo militante. Le neuroscienze contemporanee, con buona pace dei deterministi più irriducibili, ci illuminano sullo straordinario potere che le reti neuroniche alla base del pensiero e della cognizione possono esercitare sulle strutture cerebrali esprimenti gli automatismi istintivi e maggiormente influenzate dagli ormoni sessuali. Ci dicono che, se lo vogliamo, le donne e gli uomini possono sempre prevalere sulle femmine e i maschi.

Se la questione principale consiste nell’edificare rispetto individuale e sociale, continuando a volgere lo sguardo a ritroso nella storia, possiamo considerare la concezione della donna in Dante e nella cultura fiorentina e italiana di quel periodo che Francesco Petrarca chiamò Medioevo, una luce di civiltà nel buio di un’epoca per il resto dipinta dagli storici con le tinte più fosche. A questo proposito, qualcuna di noi parlava di eccezione nel quadro generale di un oscurantismo che, rafforzato nei suoi effetti deleteri dall’assetto di una società in armi e costantemente belligerante, relegava la donna ad un ruolo marginale. Senza entrare nella discussione nata dalle documentate contestazioni di questa visione semplicistica, inclusa la lettura del Medioevo come di un insieme di piccoli ed isolati “rinascimenti”, riferisco l’osservazione secondo cui il rispetto per la donna nutrito dalla idealizzazione in forma angelicata non può considerarsi un’eccezione se si conosce la cultura cristiana nella sua reale natura e profondità, non nei termini di istituzioni e politiche che l’hanno tradita o male rappresentata, in quell’epoca come ai giorni nostri.

La critica che bollava come “maschiliste” e da proscrivere tutte le grandi forme di idealizzazione della donna, fino a proporre un’interpretazione psicoanalitica della figura della Vergine Maria come un uomo, in quanto privata della sessualità che sola definirebbe la donna e concepita da un pensiero ipsisessuale maschile, ha lasciato una traccia in una implicita interdizione di ogni modello di elevata levatura morale che fosse sospetto di cristianesimo. In altri termini, la militanza che parlava in nome di metà del genere umano, implicitamente esigeva un rifiuto, con i ruoli e le forme della sottocultura che aveva penalizzato le donne, anche della sostanza spirituale e religiosa prevalente nel mondo occidentale reo di maschilismo.

A questo riguardo, abbiamo condiviso delle esperienze che ci hanno portato ad una posizione critica nei confronti di molti aspetti dell’associazionismo femminile. In altri termini, nello spazio culturale “riservato alle donne”, molte cose non ci appartengono e ci sembrano conseguenza di un atteggiamento reattivo, poco meditato, che non ha senso difendere a decenni di distanza, quando la conoscenza ce ne mostra i limiti. Cito un esempio per tutti.

La mitizzazione del pensiero orientale in blocco, come se un nemico maschio occidentale gli avesse fatto torto perenne e toccasse a noi donne, paladine delle realtà deboli ed oppresse, fare vendetta, ha portato non di rado a contraddizioni francamente grottesche. La grande civiltà dell’antica Cina, al pari di quella dell’Occidente, se non di più, ha coltivato per secoli una concezione di inferiorità della donna, che ritroviamo in un proverbio, purtroppo ancora oggi apprezzato dalle stesse donne cinesi: “Le donne hanno un piccolo cuore che trema al soffio del vento della gioia e al furore della tempesta”.

Siamo lontane dal rovesciare i termini, attribuendo la considerazione agli uomini, come in  una piccata risposta infantile ad una tale espressione di ignoranza. Preferiamo una considerazione pacata. Le donne, come gli uomini, hanno un cervello e un cuore: le dimensioni dell’uno e dell’altro, così come il modo in cui si esprimono, non dipendono dal sesso, ma dalla qualità di ciascun essere umano.

Accanto alla mitizzazione del pensiero orientale, semplicemente perché diverso da quello occidentale, così come facevano i rivoluzionari francesi mitizzando l’Islam perché cultura religiosa contrapposta al cristianesimo professato dai sovrani e i nobili che avevano decapitato, nello spazio riservato alle donne abbiamo anche trovato il sostegno preconcetto a tante pratiche e forme di “sapere alternativo”. Riteniamo che non sia più sostenibile questo atteggiamento, proprio della cultura prevalente negli anni Settanta ed Ottanta, e già analizzato e criticato da Franco Rella nel saggio Il Mito dell’Altro, nel quale si parla di una tendenza a fare “del ghetto un Partenone e del Partenone un ghetto”. Non abbiamo questa vocazione: ci piace valutare e scegliere con la nostra testa, senza escludere a priori alcuna pratica o sapere, ma senza dover aderire per obbligo come nell’obbedienza ad una disciplina di partito.

Riconosciamo, in questi “spazi riservati alle donne”, proprio i limiti di una distanza preconcetta e di una restrizione culturale che sono stati all’origine dell’incapacità degli uomini, per secoli, di rendersi conto che la massima parte di ciò che attribuivano alla nostra natura, e segnatamente gli aspetti negativi, era conseguenza di cultura e sottocultura, di tradizioni, abitudini, modi, forme di organizzazione della vita pubblica e privata.

Probabilmente la conservazione e lo sviluppo di quell’atteggiamento di distanza preconcetta già presente al tempo di Euripide e rafforzato ad ogni accentuazione storica di dimorfismo psicologico e sociale, è all’origine di una quantità di luoghi comuni che oggi ci appaiono assurdi, ma che hanno avuto la massima espressione proprio negli ultimi due secoli. Per parlare di noi si sono usate e si usano definizioni quali “l’altra metà del cielo”, “un universo inconoscibile” e simili, che esprimono l’impenetrabilità della psiche femminile alla ragione del soggetto maschile con diritto di tribuna, attraverso un’implicita ammissione di incapacità a comprendere. Ammissione che può diventare esplicita ed accompagnarsi ad una infastidita intolleranza, brutalmente esemplificata nel celebre anacoluto di Fëdor Dostoevskij: “La donna solo il diavolo sa cos’è; io non ci capisco niente”; oppure manifestarsi con i toni accondiscendenti e quasi compiaciuti di un vezzo da salotto, come nel Freud delle conferenze londinesi.

La distanza preconcetta ha generato anche la tendenza a sentenziare, generalizzando qualità negative riscontrate in qualche esperienza personale, come appare evidente nel giudizio senza appello di Alberto Moravia: “Le donne sono come i camaleonti che dove si posano prendono il colore”.

 È evidente l’errore degli errori: attribuire un tratto psicologico o una tendenza di personalità a tutte le persone appartenenti a un sesso, facendole in qualche modo tutte uguali.

Gli errori che hanno commesso soprattutto le persone di sesso maschile nel considerare persone appartenenti al sesso femminile non giustificano, allo stato attuale di progresso culturale e civile, errori di segno opposto da parte delle donne. Dico “soprattutto” perché, ad essere sincera, nella mia esperienza le persone più maschiliste che ho conosciuto sono state delle anziane e granitiche donne dell’estremo sud, di quelle che ancora vestivano rigorosamente di nero. Per loro, che trasmettevano a figli e figlie i termini rigorosi di un maschilismo sciovinista e retrogrado, le donne dovevano essere sottomesse ad un uomo “capace di farsi rispettare”, ossia imporsi agli altri, spesso con prepotente prevaricazione, indipendentemente dalle ragioni e dai torti, lontano dal fine del bene comune e prossimo all’efficacia di un piccolo capo che estende la forza di un ego ipertrofico alla protezione delle persone legate da vincoli di sangue o di sodalizio.

Riprendendo la questione delle tracce impresse nelle parole dei protagonisti della cultura dei secoli recenti, e nelle loro opere che sono ancora oggetto di studio scolastico - ho citato Dostoevskij e Moravia perché ci sono venuti in mente discutendo, ma l’elenco potrebbe essere lunghissimo - riteniamo che si debba andare oltre. Siamo convinte che si sia accumulata conoscenza sufficiente perché la comprensione di quanto fossero infondati quei giudizi e quegli atteggiamenti mentali possa diventare patrimonio di tutti, superando la tentazione di rispondere specularmente e reagire a torti storici ed attuali con errori uguali e contrari. Ed anche, riteniamo che non sia più il caso di insistere sulle forme espressive, al lodevole scopo di accrescere la consapevolezza della discriminazione, ma con il risultato di aver creato un politically correct femminista, che sembra assorbire tutta l’attenzione distraendo dalla realtà dei contenuti.

Per questo ci siamo dette: perché rassegnarsi alla consuetudine di essere rappresentate da una concezione e da uno stile che hanno avuto ragioni e meriti trenta-quaranta anni fa, ma che oggi riteniamo debbano cedere il passo ad uno sguardo nuovo, fresco, attuale sulla realtà presente, ed anche, ci sia consentito, a sensibilità nuove o diverse, anche se eterogenee e fra loro poco conciliabili?

 

Cosa fare? Aprire un cantiere. Ci siamo dette che avremmo dovuto fare qualcosa, qualcosa di pratico e concreto, come quando, con la sezione “Life” della nostra società, abbiamo partecipato alla raccolta di firme contro le mutilazioni genitali femminili. Tuttavia, alcune hanno osservato che qualunque cosa avremmo fatto sarebbe stata come “una goccia nel mare” ed avrebbe rischiato di apparire più come una “tardiva opposizione al femminismo ideologico” che come un’apertura di orizzonti nuovi, tendente allo sviluppo di nuovi contenuti.

Per superare il problema di essere “goccia nel mare” si è pensato di chiedere la partecipazione “a distanza” del maggior numero di donne possibile. Per non rischiare di apparire ed essere impegnate in una disputa filosofica sul femminismo, si è deciso di prendere esempio da quanto accade nel procedere scientifico: come nell’esperienza dell’osservazione scientifica l’evidenza della realtà supera/dissolve preconcetti e vecchie teorie, così la realtà della vita, attraverso la dimensione narrativa, potrà assicurarci un oggetto degno di conoscenza e riflessione, che ci consenta di prendere il largo e ci tenga lontane dalle secche di dispute sterili ed estranee ai nostri scopi.

Non abbiamo ancora definito e formalizzato un progetto: d’altra parte la vita della maggior parte di noi è già piena di progetti di studio o di lavoro per aggiungerne un altro. Abbiamo, per il momento, individuato uno spazio ideale per aprire un cantiere nel quale far convergere il desiderio e, se volete, l’entusiasmo continuamente rinnovato del dar vita a qualcosa.

Si tratta di aprire un cantiere nella nostra mente, nella dimensione telematica delle comunicazioni e nella nostra realtà quotidiana, come un cantuccio nel quale rifugiare i nostri pensieri e noi stesse per pochi minuti o qualche ora, secondo la disponibilità di tempo di ciascuna, e coltivare una piccola pianta che, con tutte le altre, dovrebbe costituire una serra da visitare con piacere e nella quale ospitare con gioia le persone interessate.

Qualcuna si è chiesta se questo cantiere avrà un nome.

Ho immaginato, su un ipotetico ingresso a quest’area di esperienza, un cartello con su scritto: “DONNE DI CERVELLO”.

Chi sono? Sono le donne delle quali parliamo e - perché no? - noi stesse. Perché, si è detto, se non riteniamo di esserlo ancora, potremmo diventarlo proprio grazie a questa esperienza, proprio frequentando questo spazio culturale.

Si sono individuati tre momenti che ci piacerebbe fossero contemporaneamente presenti e parallelamente sviluppati nel nostro cantiere: conoscenza, riflessione e discussione.

 

Conoscenza. Articolata nelle due dimensioni del conoscere e del conoscersi. Per la prima abbiamo pensato ad una raccolta di brevi profili biografici di donne del passato, sconosciute o misconosciute, che vogliamo porre all’attenzione comune. In tal modo, si potrà realizzare un nostro elenco nella forma di un dizionario in ordine alfabetico di Piccole/Grandi donne, che potrebbe crescere nel tempo come una nostra minuscola wikipedia monotematica. Ad esempio, la lettera “A” potrebbe cominciare con Abella (chi la conosce?), un’erudita del 1300 che scrisse un trattato scientifico in versi latini: De atrabile et de natura seminis humani.

Si sono proposti tre ambiti nei quali riconoscere le “donne di cervello”:

-          SCIENZA,

-          ARTE,

-          SPIRITO,

me se ne possono aggiungere altri.

Per la dimensione del conoscersi si è pensato ad un invio di brevi brani autobiografici in cui ciascuna presenta ciò che vuole condividere della propria vita e, se lo desidera, qualunque osservazione o contributo che ritiene utile ad una crescita comune.

 

Riflessione. Ciascuna può proporre uno spunto su qualsiasi argomento, preferibilmente attinente al valore esemplare, informativo e formativo delle biografie di “donne di cervello”, o alle tematiche affrontate in questo scritto.

 

Discussione. Si intende comprendere in questo momento di elaborazione, sia la dissertazione su un soggetto di interesse comune, sia dialoghi e dibattiti su argomenti concordati.

 

Congedandomi e rimanendo a disposizione per ogni chiarimento all’indirizzo brain@brainmindlife.org, voglio rivolgere a tutte il mio più sincero e sentito augurio di buon inizio e buon lavoro!

 

Monica Lanfredini

BM&L-05 gennaio 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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