Un mistero della sindrome di Rett sembra svelato

 

 

NICOLE CARDON

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIII – 18 aprile 2015.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La tenerezza e il dispiacere che si provano nel vedere le bambine affette dalla sindrome descritta da Andreas Rett, prima assolutamente sane e poi progressivamente sviluppare i sintomi, accresce l’ansia e l’urgenza di vedere risolti i problemi affrontati dalla ricerca sui suoi meccanismi molecolari.

In tutto il mondo sono numerose le scuole e i gruppi di ricerca che intensamente studiano i problemi connessi alla patologia molecolare del disturbo, soprattutto da quando Huda Zoghbi e colleghi identificarono la sua causa in una mutazione nel gene della proteina MeCP2 (methyl CpG binding protein 2)[1]. Ma, nonostante decadi di ricerca, non si è ancora riusciti a dare risposta a due domande fondamentali:

1) perché la sindrome di Rett si manifesta clinicamente uno o due anni dopo la nascita?

2) qual è il meccanismo mediante il quale MeCP2 regola la trascrizione?

Entrambe le domande sembra che abbiano trovato una risposta in uno studio condotto da Lin Chen e colleghi sotto la guida della stessa Huda Y. Zoghbi, seguendo l’ipotesi dell’importanza delle dinamiche temporali del legame di MeCP2.

In pratica, i ricercatori hanno sviluppato un ceppo di topi con un allele MeCP2 EGFP-tagged per identificare, con una elevata risoluzione, i profili di legame di MeCP2 nel cervello murino.

Usando profili di legame genomici, mappe di metilazione e dati di sequenziamento del messaggero (mRNA deep-sequencing data), Chen e colleghi hanno rilevato che MeCP2 si lega alla metilazione non-CG (mCH, non mCG) per regolare l’espressione di geni alterati in modelli murini dei disturbi legati a MeCP2. Questi dati, insieme con la parallela temporizzazione di mCH e l’accumulo post-natale di MeCP2, suggeriscono che MeCP2 si lega a mCH quando i neuroni maturano, per regolarne l’espressione genica. Tale interpretazione spiega l’insorgenza ritardata della sindrome (Chen L., et al., MeCP2 binds to non-CG methylated DNA as neurons mature, influencing transcription and timing of onset for Rett syndrome. Proceedings of the National Academy of Sciences USA – Epub ahead of print doi:10.1073/pnas.1505909112, 2015).

La provenienza degli autori dello studio è la seguente: Department of Molecular and Human Genetics, Division of Biostatistics, Dan L. Duncan Cancer Center, Department of Molecular and cellular Biology, and Howard Hughes Medical Institute, Baylor College of Medicine, Houston, Texas (USA); Jan and Dan Duncan Neurological Research Institute at Texas Children’s Hospital, Houston, Texas (USA).

La sindrome, descritta per la prima volta da Andreas Rett nel 1966, in neuropsichiatria infantile è considerata un grave disturbo neuroevolutivo associato al cromosoma X, che colpisce bambine apparentemente normali alla nascita, manifestandosi più spesso fra i 6 e i 18 mesi ma talvolta oltre i 2 anni, con una drammatica regressione evolutiva, caratterizzata dalla perdita delle abilità linguistiche e manuali già acquisite. Invariabilmente il quadro clinico va incontro ad un peggioramento progressivo e, ai sintomi della fase iniziale, segue un evidente deficit cognitivo (convenzionalmente definito “ritardo mentale”), una compromissione del controllo motorio e lo sviluppo di movimenti ripetitivi delle mani, che possono contribuire a suggerire erroneamente una diagnosi di disturbo autistico. La prevalenza è stimata all’incirca 1 a 15.000, e sono stati descritti numerosi casi di ragazze giunte all’età adulta.

Come ho già fatto lo scorso anno, nella recensione di un lavoro che ha sperimentato con un certo successo la mecasermina nel trattamento di questa sindrome[2], riporto una citazione per denunciare l’esclusione del “disturbo di Rett” dalle diagnosi del DSM-5, proprio ora che il suo profilo patologico è stato chiarito con l’individuazione della causa genetica.

 

La sindrome, descritta per la prima volta da Andreas Rett nel 1966, è una grave patologia neuroevolutiva caratterizzata da arresto dello sviluppo fisico, ritardo mentale, deficit del linguaggio e delle abilità sociali; legata al cromosoma X, è dovuta a mutazioni nel gene che codifica la proteina MECP2, spesso aberrante nell’autismo. Per inciso, ricordo che MECP2 è nota come proteina regolatrice della cromatina al pari della coesina, il cui fenotipo mutato è al’origine della sindrome di Cornelia De Lange. Oltre quarant’anni di studi sono stati necessari per giungere ad un test genetico che oggi consente di avere una diagnosi scientificamente certa. Ebbene, la diagnosi di “Disturbo di Rett”, indicata nel DSM-IV con il codice F84.2, è stata esclusa dal DSM-5. La scomparsa è giustificata dagli autori con un riassetto delle diagnosi relative ai disturbi pervasivi dello sviluppo, su cui mi soffermerò fra breve, tuttavia è evidente che non si tratta di una coincidenza, ma di una scelta di uniformità metodologica che definisce il manuale quasi esclusivamente come strumento di valutazione del comportamento.[3]

 

Dunque, in un’ottica genetica, la sindrome di Rett si considera una malattia ereditaria legata al cromosoma X e causata da mutazioni nel gene MeCP2, che in condizioni fisiologiche codifica il fattore di trascrizione MeCP2, che si lega al DNA in corrispondenza di basi di citosina metilate, regolando l’espressione genica e il rimodellamento della cromatina. L’interessamento del sesso femminile è spiegato in base al compenso che può esercitare uno dei due cromosomi X non portatore della mutazione, per effetto del fenomeno detto di lyonizzazione, in onore della scopritrice Mary Lyon, scomparsa di recente. È necessario, infatti, possedere almeno una copia del gene per la sopravvivenza. Le forme mutanti di MeCP2 nei maschi, che hanno un solo cromosoma X e quindi mancano dell’allele sull’altro cromosoma che potrebbe in parte compensare il difetto, determinano in genere lo sviluppo di una grave encefalopatia non compatibile con la vita e quindi causa di morte prenatale o neonatale. Nel sesso femminile i cromosomi X sono due ma, come è noto, uno dei due è inattivato, cellula per cellula, secondo un criterio apparentemente casuale. Per tale ragione, le bambine affette da sindrome di Rett sono mosaici genetici con cellule provviste della proteina MeCP2 normale che, solo in parte, compensano quelle portatrici della proteina mutata.

Come è noto, meccanismi epigenetici, quali la metilazione del DNA, regolano i programmi trascrizionali per garantire al genoma flessibilità di risposta agli stimoli evolutivi ed ambientali in condizioni fisiologiche e patologiche. Un esempio significativo del’importanza di questi meccanismi è dato proprio dalle mutazioni nel gene di MeCP2 che causano la sindrome di Rett.

Tornando al lavoro qui recensito, Lin Chen e i suoi colleghi texani riportano analisi integrate del legame genomico di MeCP2, dati sull’espressione genica e patterns di metilazione del DNA. Oltre al previsto legame di alta affinità alla citosina metilata nel contesto CG (mCG), hanno trovato un definito e distinto pattern epigenetico di legame sostanziale di MeCP2 a citosine metilate in un contesto non-CG (mCH, dove H = A, C o T) nel cervello adulto.

Con loro sorpresa, Chen e colleghi hanno scoperto che i geni che acquisivano elevata mCH dopo la nascita diventavano preferenzialmente misregolati nei modelli murini di malattie legate a MeCP2, suggerendo che il legame di MeCP2 ai loci mCH possa avere un ruolo chiave per la regolazione dell’espressione genica nei neuroni in vivo. Questo pattern è specifico del sistema nervoso adulto e in corso di maturazione, in quanto richiede l’aumento di mCH dopo la nascita per guidare il legame di MeCP2 differenziato fra mCG, mCH ed elementi non-metilati del DNA.

Da rilevare che MeCP2 lega mCH con una affinità maggiore di sequenze di DNA identiche ma non metilate, per influenzare i livelli di Bdnf (gene del brain derived nerve factor), un gene implicato nella fisiopatologia della sindrome di Rett.

Concludendo, questo studio contribuisce alla conoscenza dei meccanismi che governano l’azione di MeCP2 e fornisce una spiegazione dell’insorgenza ritardata della sindrome.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la collaborazione nell’estensione del testo e invita alla lettura delle numerose recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Nicole Cardon

BM&L-18 aprile 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Tenendo conto del fatto che la metilazione di specifiche sequenze CpG del DNA altera l’espressione dei geni più prossimi, si è ritenuto che MeCP2 si leghi al DNA metilato come parte di un processo che regola la trascrizione delle molecole di mRNA.

[2] Note e Notizie 22-03-14 La mecasermina nella sindrome di Rett.

[3] Note e Notizie 06-10-12 Viaggio nel DSM 5: interessanti cambiamenti, nuovi errori e vecchi limiti – sesta parte; la citazione è stata in precedenza riportata anche nella recensione di un altro interessante lavoro, della quale si suggerisce la lettura: Note e Notizie 29-06-13 Progressi nella biologia molecolare della sindrome di Rett. L’esclusione dal Manuale Diagnostico e Statistico dell’American Psychiatric Association, come è stato provato per numerosi disturbi, determina la mancata diagnosi dell’affezione in un elevato numero di casi, non solo negli Stati Uniti e nelle nazioni anglofone, ma anche in tutti quei paesi che hanno adottato il manuale americano come standard per la diagnostica.