Scoperte e aggiornamenti sulle basi neurali della depressione

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIII – 11 aprile 2015.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

1. Ragioni e materiali per un aggiornamento. Una recente indagine epidemiologica ha rilevato, in un campione significativo della popolazione generale, il disturbo depressivo maggiore nel 32% dei casi e, nell’1,2%, depressione nel contesto di un disturbo bipolare[1]. Se a questa stima di oltre un terzo del totale aggiungiamo i periodi o gli episodi depressivi che, pur non soddisfacendo i criteri delle forme cliniche principali, interessano i rimanenti due terzi, possiamo renderci conto delle proporzioni di un problema che impegna da decenni la ricerca neuroscientifica nel riconoscimento delle basi neurali. Come è stato osservato: “La depressione non è una semplice questione di umore, ma un problema di fisiopatologia del sistema nervoso e di tutto l’organismo che, oltre a condizionare la vita sociale e affettiva, interessa i sistemi immunitario, endocrino, digerente, cardiovascolare e, probabilmente, ogni altro apparato, modificandone la fisiologia in vario modo, incrementando i processi infiammatori e la probabilità di insorgenza di un elevato numero di malattie”[2]. Pertanto, si comprende l’importanza della definizione delle basi neurali della depressione, sia per la conoscenza fisiologica sia per la psicopatologia e la terapia.

Seguire gli sviluppi della ricerca e il progredire delle conoscenze in questo campo è più che mai un obbligo per chiunque si occupi di neuroscienze, sia perché vi sono fatti realmente nuovi che potrebbero mutare la visione corrente della fisiopatologia depressiva[3], sia perché tali fatti interessano in generale le basi neurobiologiche della nostra mente.

Alcuni degli elementi emersi di recente sono, senza mezzi termini, sorprendenti. Ad esempio, da oltre quarant’anni le basi neurobiologiche della depressione si studiano prevalentemente al livello molecolare neurochimico: ipotesi di lavoro concepite in termini di anatomia macroscopica del cervello sarebbero state considerate ingenue ed anacronistiche dalla maggior parte dei ricercatori, fino alla scorsa estate, quando è stato pubblicato uno studio rivoluzionario in tal senso. Analizzando un’asimmetria del cervello, dei ricercatori di Melbourne, come vedremo più avanti in dettaglio, hanno messo in rapporto una particolare conformazione cerebrale con la tendenza a sviluppare sintomatologia depressiva.

Studi più convenzionalmente basati sugli equilibri definiti dai neurotrasmettitori, hanno rivelato l’esistenza nella depressione di una speciale attività cerebrale che sarebbe alla base del pessimismo e della tendenza alla elaborazione privilegiata di aspetti negativi della realtà, tipici del depresso. Altri studi, condotti mediante neuroimaging, hanno provato nel dettaglio di otto diverse regioni cerebrali lo stile funzionale tipico della depressione, con aree iperfunzionanti e parti ipofunzionanti rispetto agli standard normali.

Infine, gli studi di valutazione dell’efficacia della stimolazione magnetica, hanno dimostrato che la riduzione dell’iperconnessione nella rete di default – tipica della depressione – normalizza attività alterate, determinando benefici spesso evidenti.

 

2. Scoperte e progressi. Lo studio dell’anatomia macroscopica e microscopica è stato, per oltre un secolo, la principale fonte di conoscenza del cervello, dalla quale sono provenute, soprattutto attraverso le correlazioni anatomo-cliniche, le nozioni principali alla base del sapere neurologico e neuropsicologico, così come la disillusione di ogni aspettativa circa la possibilità di trovare facili evidenze morfologiche quali cause di malattie psichiatriche. Se si eccettuano rare malformazioni cerebrali fetali, da molto tempo non si registrano anomalie strutturali dell’encefalo degne di nota per le neuroscienze o rilevanti per le funzioni psichiche. Tale premessa giustifica tanto le resistenze quanto l’interesse suscitato dalla pubblicazione su Brain di uno studio, durato oltre nove anni e condotto da Jerome J. Maller e colleghi della Monash University e dell’Alfred Hospital di Melbourne in Australia, allo scopo di verificare l’esistenza di una relazione causale fra una grande atipia morfologica dei lobi occipitali e la depressione.

 

2.1. Curvatura occipitale e depressione. Maller e colleghi hanno deciso di avviare la loro indagine principalmente sulla base di studi che avevano documentato l’esistenza di un’asimmetria dei lobi occipitali, maggiore nei pazienti psichiatrici rispetto ai volontari sani fungenti da controllo, ma anche per evidenze riferite di una tale particolarità in pazienti depressi e per il rilievo di un particolare ingrandimento dei ventricoli laterali. Su questa base, l’osservazione dei ricercatori è giunta a definire un aspetto particolarmente evidente: alcuni cervelli, visti dalla faccia inferiore, non presentano in corrispondenza dei lobi occipitali una scissura interemisferica rettilinea, come quella che normalmente corrisponde al piano sagittale mediano, ma una curva con la convessità rivolta verso un lobo occipitale di maggiori dimensioni e la concavità verso un lobo occipitale minore che, nell’estremità posteriore, appare compreso, quasi avvolto, dal volume di quello più grande. Coloro che hanno osservato per primi questa asimmetria, con curvatura della falce cerebrale meningea nel terzo posteriore, l’hanno definita occipital bending (curvatura occipitale).

Jerome Maller e colleghi hanno indagato la possibilità che questa curvatura, che a volte presenta una configurazione tale da mostrare un vero e proprio avvolgimento di un lobo da parte di un altro, possa essere realmente associata alla depressione, e che non sia assimilabile ad una semplice asimmetria interemisferica. Studiando 51 pazienti con una forma di depressione che soddisfaceva i criteri del disturbo depressivo maggiore, in comparazione con 48 volontari sani ma equivalenti per sesso ed età, hanno rilevato che la prevalenza della curvatura occipitale nei depressi è 3 volte maggiore. Infatti, dei 51 pazienti affetti da disturbo depressivo maggiore, ben 18, ossia il 35,3%, presentava l’anomalia, a fronte di sole 6 persone (12,5%) in buona salute psichica. La differenza è rilevante, ma non così eclatante come quella che si nota se si considera solo la parte femminile del campione: il 45,8% delle donne affette da depressione maggiore presentava l’occipital bending, a fronte del 5,9% delle volontarie sane[4]. Siccome le cause di depressione sono varie e si ammette che anche la patogenesi segua vie distinte, rilevare che quasi la metà delle donne depresse di questo campione presenta la curvatura occipitale, vuol dire proporre questa particolarità anatomica come una delle principali ragioni dello sviluppo del disturbo.

Ricordando che l’accurato esame condotto dagli autori in precedenza e in occasione di questo studio ha consentito loro di concludere che asimmetria occipitale e curvatura occipitale sono fenomeni distinti e separati, è lecito chiedersi: quale può essere il rapporto fra una così evidente ma enigmatica particolarità morfologica e la depressione? E poi, perché tale anomalia incide in modo così marcato nel sesso femminile?

A queste domande hanno provato a rispondere gli stessi autori dello studio, fornendo due ipotesi non necessariamente alternative l’una all’altra.

La prima si basa sul processo di selezione delle connessioni che si accompagna alla maturazione cerebrale nel corso dello sviluppo: nel cervello delle persone che svilupperanno la curvatura occipitale, la “potatura” delle connessioni superflue avverrebbe in modo insufficiente, determinando un volume cerebrale maggiore di quello previsto dal rapporto fra encefalo e neurocranio in condizioni normali. Tale circostanza renderebbe l’astuccio osseo-meningeo troppo angusto per contenere la massa in crescita dei lobi occipitali che, così compressi, darebbero luogo alla configurazione tipica del bending.

La seconda ipotesi fa riferimento all’incostante reperto di ventricoli cerebrali laterali leggermente espansi rispetto alla norma, postulando che la forza meccanica determinante la curvatura della falce cerebrale avrebbe origine nell’abnorme pressione esercitata da ventricoli cerebrali di maggiori dimensioni. Anche in questo caso, si ritiene che un eccesso di pressione intracerebrale sia in grado di determinare la particolare conformazione.

L’ipotesi del difetto di selezione (“potatura incompleta”) troverebbe riscontro nel dato, più volte rilevato, di una iperconnettività come connotato tipico della funzione del cervello delle persone depresse. Anche se iperconnettività funzionale – ci piace ricordare – non vuol dire necessariamente presenza di un maggior numero di connessioni anatomiche ma solo eccesso di connessioni attive, l’accostamento appare molto suggestivo. L’espansione ventricolare, che se non dipende da ostruzione si verifica piuttosto per compensazione del difetto di volume neurogliale, sembra sollevare maggiori dubbi e obiezioni.

Rimane il fatto di una prevalenza netta nelle donne, che viene spiegata con un rapporto cranio/encefalo naturalmente sfavorevole. Sappiamo che le dimensioni dell’encefalo risentono di quelle complessive dell’organismo, che negli uomini sono maggiori. Le dimensioni assolute del cervello, dipendendo dall’evoluzione della base neurale per le funzioni psichiche, non sono così diverse come il resto del corpo fra uomo e donna, e pertanto nella donna risulterebbero in proporzione maggiori delle dimensioni del contenitore osseo[5].

Concludendo, Maller e colleghi ritengono che la curvatura occipitale sia dovuta ad un adattamento meccanico dei lobi occipitali ad uno spazio relativo troppo angusto, tuttavia non spiegano come questo generi depressione. In tesi generale, si può ammettere che le cause ancora da determinare dell’occipital bending siano anche fattori predisponenti alla depressione.

Questo sorprendente reperto suggerisce la possibilità di un futuro impiego della diagnostica per immagini per la diagnosi e la prevenzione dei disturbi depressivi. Intanto, anche se imprevisto, il rilievo di questo particolare pattern anatomico è ormai al centro dell’interesse neuroscientifico e non può essere ignorato, nemmeno da coloro che tendono ad escludere riferimenti neurobiologici in materia di teorie della depressione[6].

La questione del rapporto della curvatura occipitale con il funzionamento di reti e sistemi, sicuramente terrà impegnati a lungo i ricercatori, come è facile prevedere se si tiene conto che, pur senza aver avuto risultati così netti e percentualmente significativi, studi precedenti hanno messo in relazione questa anomalia con la schizofrenia.

 

2.2. Una base neurobiologica del pessimismo depressivo. Passiamo ora a considerare i risultati della ricerca che indaga le basi del funzionamento mentale che caratterizza la psicologia delle persone affette da depressione.

È forse superfluo ricordare che il ritorno di interesse per l’anatomia del cervello in rapporto alle funzioni psichiche si deve alle metodiche di neuroimmagine basate sulla risonanza magnetica nucleare e alle tecniche, come la DTI, che ne sfruttano la base per evidenziare le vie di connessione. Convenzionalmente, infatti, si tende a pensare allo stato depressivo come ad una conseguenza della riduzione di attività dei sistemi serotoninergici, noradrenergici e dopaminergici, con varie alterazioni associate degli altri sistemi di trasmettitori e recettori. A questo nucleo principale si aggiungono i processi e i meccanismi dello stress che si ritiene possano avere un ruolo causale e una responsabilità nel mantenimento del funzionamento depressivo. Sulla base di tali processi fisiopatologici, tuttavia, non è possibile interpretare in termini biologici i tratti peculiari dello stile mentale delle persone depresse. Un nuovo studio, combinando il criterio di individuazione delle basi delle funzioni psichiche mediante le reti di aree attive durante un compito con i criteri neurochimici e farmacologici basati su neurotrasmettitori e recettori, sembra avere individuato la ragione di alcune tendenze negative.

Le persone depresse, come ha dimostrato una notevole mole di prove sperimentali, elaborano l’informazione emozionale secondo una tendenza negativa, evidente anche ai banalissimi test della reazione a disegni schematici di volti umani rappresentanti facce tristi (aumentata sensibilità) e facce allegre (risposta debole). Perché ciò accade? Perché il loro cervello funziona così?

Roberto Malinow e colleghi dell’Università della California a San Diego hanno individuato come responsabile un’alterazione neurotrasmettitoriale nell’abenula laterale, una formazione filogeneticamente antica che si ritiene appartenga al cosiddetto “circuito della delusione” (disappointment circuit).

I neuroni di questa area abenulare si attivano quando si verifica un evento negativo inaspettato, come un incidente imprevedibile, una punizione improvvisa e immeritata, oppure viene delusa l’aspettativa di una ricompensa, un premio o una gratificazione. Ad esempio, scimmie addestrate a ricevere una ricompensa, quale una banana o un succo di frutta, dopo aver rilevato una traccia visiva del premio in arrivo, se questo viene improvvisamente revocato, ritirato o negato, presentano un’accentuata attività nell’abenula laterale. Sulla base di studi simili, si è riconosciuto nel cervello un “circuito della delusione o del disappunto” nel quale sembrano avere una parte importante i neuroni di quest’area abenulare.

Studi precedenti hanno rilevato che l’iperattività dell’abenula laterale è associata a comportamenti di tipo depressivo nei roditori; per intenderci: sono stati osservati i tratti comportamentali ritenuti equivalenti ai sintomi clinici di depressione umana dalla ricerca psicofarmacologica. Tali osservazioni hanno promosso verifiche sperimentali nell’uomo. Nei pazienti depressi non in trattamento con farmaci antidepressivi inibitori selettivi della ricaptazione di serotonina, i bassi livelli di 5-HT, generalmente corrispondenti al grado di depressione, sono associati all’innalzamento nell’attività dell’abenula laterale.

Ricordiamo che l’abenula, costituita da due nuclei, laterale e mediale, è parte dell’epitalamo ed è posta nell’angolo dorso-mediale del talamo, immediatamente al di sotto dell’ependima del terzo ventricolo. Il nucleo laterale dell’abenula manda fibre ai nuclei del rafe, alla formazione reticolare del mesencefalo, alla parte compatta della substantia nigra, all’area tegmentale ventrale (VTA), all’ipotalamo e al proencefalo basale. Si è ipotizzato un intervento dell’abenula nella regolazione del sonno e le sue lesioni hanno fatto rilevare alterazioni neuroendocrine e viscerali. L’ablazione dell’abenula causa cambiamenti metabolici ed alterazioni nella regolazione termica ed endocrina. Un aspetto anatomofisiologico distingue l’abenula laterale dalla maggior parte delle altre regioni cerebrali: la mancanza della regolazione basata sui due classici sistemi antagonisti, quello eccitatorio che rilascia glutammato e quello inibitorio che rilascia GABA. In questa parte dell’abenula, dove le cellule nervose sono molto più disperse e poco colorabili, vi sono pochi neuroni in grado di ridurre l’attività. Malinow e colleghi hanno perciò condotto un’indagine per scoprire il modo in cui il cervello modera la funzione eccitatoria in questo distretto.

Il risultato è veramente rilevante: alcuni terminali sinaptici dell’abenula laterale possono rilasciare sia il neuromediatore eccitatorio glutammato sia, all’occorrenza, il mediatore inibitorio GABA. Un meccanismo rarissimo, finora osservato solo in due altre regioni cerebrali e, in generale, solo durante lo sviluppo. Gli esperimenti condotti da questi ricercatori su ratti con comportamento equivalente a quello depressivo umano, hanno fatto rilevare che tali animali sintetizzano e rilasciano molto meno GABA nell’abenula laterale, col risultato di una iperattività cronica. Il trattamento con antidepressivi, che non dovrebbero agire sul GABA ma selettivamente sulla ricaptazione di 5-HT, determina un aumento di rilascio del GABA dai terminali sinaptici bivalenti dell’abenula laterale.

Questi risultati suggeriscono che il sistema glutammato/GABA delle stesse sinapsi regola l’elaborazione di eventi negativi, e che la perdita dell’equilibrio intraneuronico che porta all’ipereccitazione può essere favorevolmente influenzata dai farmaci. L’identificazione di questo meccanismo sembra essere coerente con quanto emerso dagli studi del gruppo di Catherine Harmer dell’Università di Oxford: gli antidepressivi più prescritti sono in grado di modificare le tendenze psicologiche ed ideative negative nel giro di ore, a dispetto del fatto che per migliorare il tono dell’umore e la sensazione soggettiva di sofferenza sono in genere necessarie varie settimane.

Secondo Steven Shabel, che ha guidato il gruppo di ricerca, lo studio sempre più analitico delle vie cerebrali implicate nell’elaborazione della ricompensa, di cui fa parte anche il circuito dell’abenula laterale iperattivo nei depressi, potrà portare alla sintesi di farmaci molto più selettivi e specifici di quelli attualmente impiegati.

 

2.3. La stimolazione magnetica fornisce risposte importanti. Un trattamento introdotto di recente nella terapia della depressione, per lo più in alternativa alla terapia farmacologica o nei casi resistenti ai farmaci, è quello basato sulla stimolazione magnetica transcranica. L’impiego di questa tecnica, associato a metodiche di neuroimmagine funzionale, ha consentito rilievi di straordinario interesse. Giovanna Rezzoni ha esposto, in un’efficace sintesi che qui di seguito riproduciamo, i risultati di uno studio che sarà certamente considerato sia in ambito sperimentale che terapeutico[7].

“L’impiego di elettrodi impiantati nel cervello per il trattamento della depressione grave e resistente ai farmaci, non solo è rifiutato dai pazienti, ma è anche avversato dai neuroscienziati per la mancanza di elementi certi di conoscenza sui meccanismi dell’azione che sembra determinare effetti positivi. Al contrario, la stimolazione magnetica transcranica (TMS), per la sua natura di procedura incruenta ed indolore, è generalmente accettata dai pazienti, anche se deve fare i conti con le riserve dei neuroscienziati e di una parte dei medici psichiatri per la mancanza di prove sperimentali soddisfacenti circa il modo in cui il campo magnetico riduce l’attività disfunzionale della depressione grave. Ora, un nuovo studio condotto da Marc Dubin e colleghi presso il Weill Cornell Medical College, sembra fornire un contributo significativo alla raccolta di prove relative al modo in cui la TMS agisce.

È stato rilevato che nella depressione i sistemi neuronici attivi nella fase di riposo (“rete di default”) sono iperfunzionanti. Nelle persone affette da depressione, vari studi hanno dimostrato una iperconnessione funzionale nella “rete di default” e, poiché tale rete è implicata nella regolazione della focalizzazione del pensiero, si è ipotizzato che l’iperattività rifletta la tendenza alla rielaborazione “ruminativa” tipica dell’ideazione del depresso. Lo studio di Dubin e colleghi” ha esplorato mediante risonanza magnetica funzionale (fMRI) il  cervello di 17 persone depresse e 35 sane, rilevando conferme dell’iperconnettività funzionale nella “rete di default” dei depressi. Dopo questo studio morfo-funzionale, i ricercatori hanno sottoposto le persone affette da sindrome depressiva ad un trattamento con TMS secondo un protocollo standard della durata di 5 settimane.

Al termine del periodo di terapia hanno effettuato un esame di verifica: non tutti i pazienti hanno tratto beneficio dalla TMS, ma coloro che erano sensibilmente migliorati hanno mostrato alle scansioni della fMRI una riduzione dell’iperconnettività funzionale, con immagini della “rete di default” indistinguibili da quelle delle persone sane. Questo studio, oltre a fornire una prova sul tipo di azione svolta dalla TMS, suggerisce un protocollo di intervento con studio dei pazienti mediante fMRI in fase diagnostica e successiva verifica degli effetti della TMS su una parte delle persone affette da depressione.”[8] [Giovanna Rezzoni].

La TMS, oltre che in qualità di mezzo terapeutico per i disturbi depressivi, può essere impiegata, all’opposto, come è stato di recente dimostrato, per generare effetti di inibizione tipici della depressione. Sfruttando questa possibilità, si è cercato di individuare le basi della sintomatologia inibitoria che caratterizza i disturbi depressivi. Un interessante studio, condotto da Hurlemann e colleghi del’Università di Bonn, impiegando la TMS, ha dimostrato un ruolo protettivo fisiologico nei confronti del funzionamento depressivo, svolto dalla corteccia prefrontale dorsolaterale e dorsomediale dell’emisfero sinistro. Ripercorriamo in breve gli aspetti salienti di questa ricerca, anche per l’interesse che suscita la strategia sperimentale impiegata.

Da un punto di vista evoluzionistico, la risposta riflessa caratterizzata dal sobbalzare e battere le palpebre è parte del repertorio comportamentale umano di evitamento, ed è tipicamente ridotta negli stati affettivi di piacere. Nel disturbo depressivo maggiore, la forte diminuzione della motivazione appetitiva riduce la capacità di interferenza di emozioni ed affetti positivi sul sobbalzare e battere le palpebre, ad esempio, per un rumore forte ed improvviso. Considerato il ruolo guida del circuito fronto-striatale nell’orchestrare la motivazione appetitiva, Hurlemann e colleghi del Dipartimento di Psichiatria, hanno ipotizzato che, impiegando la TMS per indebolire l’attività dei sistemi che dalla corteccia prefrontale vanno ai nuclei della base encefalica, avrebbero potuto riprodurre gli effetti inibitori della depressione, causando una riduzione dell’interferenza appetitiva sulle reazioni di evitamento, come accade per effetto della fisiopatologia depressiva. Basandosi su un esperimento TMS-fMRI condotto in precedenza, i ricercatori hanno selezionato le due regioni dorsolaterale e dorsomediale della corteccia prefrontale sinistra come regioni bersaglio, per sperimentare in 40 volontari in buona saluta psichica, l’effetto di scariche di onde teta, posto a confronto con gli esiti di una procedura fittizia, perché mancante dell’erogazione di stimolo magnetico. Coerentemente con l’ipotesi di lavoro, Hurlemann e colleghi hanno rilevato una notevole inibizione della neuromodulazione appetitiva nei volontari che avevano ricevuto l’erogazione mirata di onde magnetiche, resa evidente dalla netta diminuzione del potere di soppressione della risposta riflessa da parte degli stimoli edonici.

Tale studio ha evidenziato l’importanza dell’integrità funzionale della corteccia prefrontale dorsolaterale e dorsomediale dell’emisfero sinistro nel mediare gli effetti psico-adattativi del piacere, che si manifestano nella riduzione delle risposte di allarme, con il blocco dell’innesco di uno dei circoli viziosi fisiopatologici attivi nella depressione e nei disturbi da stress.

 

3. Considerazioni conclusive. Volutamente non si è fatto alcun cenno alle nozioni acquisite di neurobiologia, fisiopatologia e fisiofarmacologia della depressione, dedicando esclusivamente questo scritto alle principali novità rilevate e dimostrate dalla ricerca recente ed ancora in atto. Si invita tuttavia il lettore non specialista dell’argomento alla lettura da manuali, trattati e rassegne, di quanto è stabilito e definito da tempo sulle basi neurali della depressione, perché quella base conoscitiva potrà consentire una valutazione relativa ed un miglior giudizio critico di quanto di nuovo è emerso e, imponendosi all’attenzione, richiede cambiamenti almeno parziali della visione classica. Avendo sempre presente che l’approfondimento di ciò che accade nel cervello non deve farci dimenticare il ruolo di fattori, eventi e circostanze che possono condizionare la vita affettiva ed emotiva, l’adattamento psicologico alla realtà e, in particolare, alla rete di relazioni umane di cui si compone il mondo di ciascuno, non si possono trascurare gli elementi emersi dalla ricerca neuroscientifica più recente. Tali nuove evidenze, a nostro avviso, andrebbero poste in relazione da un canto con le nozioni acquisite dalla ricerca genetica sulla depressione e, dall’altro, con gli studi più avanzati in psichiatria, psicologia e scienze umane, per migliorare sia la comprensione delle basi neurali di una delle forme di psicopatologia più frequenti, sia lo stato della nostra vita psichica, prevenendo le condizioni che facilitano lo sviluppo dei disturbi depressivi.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-11 aprile 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Angst J., et al. The epidemiology of common mental disorders from age 20 to 50: results from the prospective Zurich cohort Study. Epidemiol Psichiatr Sci 2015 Mar 24: 1-9 [Epub ahead of print]. Lo studio è stato realizzato mediante una collaborazione del Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Zurigo con la Branca di Ricerca in Epidemiologia Genetica dei National Institutes of Health (NIH) di Bethesda (Maryland, USA).

[2] G. Perrella, Appunti sui disturbi d’ansia e depressivi, p. 2, BM&L-Italia, Firenze 2006 (relazione per gli incontri del gruppo di studio sulle basi neurobiologiche della felicità, tenuti presso il Caffè Storico Gilli in Firenze dall’autunno del 2006 alla primavera del 2007).

[3] Si ricorda, di passaggio perché non sarà oggetto di questo scritto, che è stato perfino proposto, sulla base di dati sperimentali, lo studio della depressione come malattia infiammatoria.

[4] Maller J. J., et al. Occipital bending in depression. Brain 137 (Pt 6): 1830-1837, 2014. A parte il commento riportato contestualmente alla pubblicazione cartacea dello studio (Brain 137 (Pt 6): 1576-1578), la discussione è proseguita ed è ancora in corso in epub ahead of print: Brain 138 (Pt 1): e317, 2015; Brain 138 (Pt 1): e318, 2015.

[5] Noi osserviamo che, in alternativa, si dovrebbe prendere in considerazione un fattore genetico importante nel processo di potatura delle connessioni, che sarebbe legato al cromosoma X.

[6] L’interesse nel campo delle neuroscienze è esteso anche a coloro che non indagano specificamente questi problemi. William Hopkins, professore di neuroscienze presso la Georgia State University, così si è espresso al riguardo: “Realmente suggerisce qualche significativa base biologica per almeno qualche forma di depressione” (Tori Rodriguez, Depression’s Bad Wrap. Sci Am Mind 26 (1):13, 2015).

[7] Il breve testo, inviato nell’alert settimanale riservato ai soci, per le “Note e Notizie” del 7 marzo scorso, è riportato nelle “Notule” pubblicate questa settimana (11-04-15).

[8] Giovanna Rezzoni, Breve per l’Alert del 7 marzo 2015, v. nota 7.