Esporsi al sole per abbronzarsi produce effetti stupefacenti sul cervello
LORENZO L. BORGIA
NOTE
E NOTIZIE - Anno XIII – 17 gennaio 2015.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo:
DISCUSSIONE/AGGIORNAMENTO]
Parlare di esposizione al sole per abbronzarsi in pieno inverno può sembrare inappropriato, eppure, proprio le numerose partenze invernali dal nostro emisfero per il Brasile ed altre mete che consentano di proseguire il trattamento abbronzante naturale durante la “cattiva stagione”, hanno attratto l’attenzione dei ricercatori. Un altro rilievo si è poi aggiunto a questa osservazione: molte signore, ed anche una quota di uomini per lo più del mondo dello spettacolo, si sottopongono a frequenti trattamenti con lampade UV in centri estetici, pur sapendo che una dose eccessiva di radiazione abbronzante aumenta il rischio di cancerogenesi cutanea. È solo “forza della vanità” o, come nel caso dei fumatori che sfidano il cancro del polmone, intervengono processi cerebrali alla base di quella che i benparlanti di un tempo definivano voluttà?
Non è semplice, intervistando persone dedite all’esposizione al sole tutto l’anno, distinguere tra il desiderio di abbronzarsi e i fattori generici che portano alla ripetizione dell’esperienza, quali l’effetto rilassante della vasodilatazione causata dal sole, il respirare ossigeno all’aria aperta e il prodursi di uno stato d’animo positivo, favorito dal liberarsi dalle costrizioni di abbigliamento e dai vincoli sociali. Gli amanti dell’abbronzatura forniscono una serie di motivazioni del proprio comportamento che vanno da ragioni salutistiche ad evidenti razionalizzazioni, come quelle adottate da chi giustifica con argomentazioni socialmente apprezzate qualcosa che fa per puro piacere. Colpisce il numero di persone non benestanti che affronta sacrifici economici pur di accrescere la pigmentazione della propria cute.
La possibilità che siano in gioco effetti che attivano i sistemi dopaminergici dell’area tegmentale ventrale[1] è stata presa in considerazione da David Fisher, direttore presso la Harvard Medical School di Boston del “Programma Melanoma”[2], un articolato progetto di ricerca che include lo studio dei meccanismi molecolari delle modificazioni indotte nei tessuti dalla luce solare e, in particolare, dai raggi ultravioletti (UV). Fisher, con ricercatori di ambito neuroscientifico[3], ha condotto uno studio di grande interesse, pubblicato sulla rivista Cell, partendo dall’ipotesi di un’azione diretta della luce solare sul “sistema edonico” del cervello[4]. Una nozione relativamente recente ha agito da suggestiva provocazione: la melanina, il pigmento cutaneo la cui biosintesi aumenta vertiginosamente con l’esposizione al sole, e la β-endorfina, che si lega ai recettori degli oppiati nel sistema analgesico ed edonico dell’encefalo, originano nei cheratinociti cutanei da un processo comune.
L’esposizione alla luce UV, un riconosciuto carcinogeno, induce nei cheratinociti epidermici la sintesi della pro-oppiomelanocortina (POMC), il precursore dal quale deriva l’ormone stimolante i melanociti (MSH) che determina la pigmentazione.
Ricordiamo che la proteina POMC, un precursore peptidico di 241 aminoacidi[5], contiene nella sua sequenza, dopo un tratto peptidico “segnale” ed uno libero, la successione dei peptidi: γMSH, peptide di unione, ACTH (contenente αMSH e CLIP) e βLPH (contenente γLPH e β-endorfina)[6]. La scissione di POMC nei sette siti specifici di unione dei peptidi menzionati, avviene secondo un definito ordine temporale e con alcuni tagli molecolari specifici per tessuto.
Gli effetti della radiazione ultravioletta sono stati sperimentati da David Fisher e colleghi sui roditori. Un gruppo di topi privi di pelo è stato sottoposto all’irradiazione della cute glabra con una dose quotidiana di raggi UV equivalente a quella che penetra, in un tipo medio di pelle umana per caratteri istofisiologici, per effetto di un’esposizione della durata di 20-30 minuti al sole di mezzogiorno su una spiaggia della Florida; corrispondente, alla nostra latitudine, ad un 40-45 minuti di sole estivo. La dose di luce UV erogata in questo esperimento si considera tecnicamente una “bassa dose”, lontana da intensità e durata necessarie a produrre effetti nocivi. I topi in trattamento abbronzante erano posti a confronto con un gruppo in tutto equivalente di roditori non esposti. Dopo pochi giorni, i topi trattati con i raggi ultravioletti, insieme con l’abbronzatura, hanno presentato tassi di β-endorfina notevolmente più elevati del gruppo di controllo. L’incremento della produzione del peptide endogeno da parte della pelle era coerente con l’innalzamento dei suoi livelli plasmatici, oltre che con l’aumento di melanina. Per verificare le modificazioni fisiologiche indotte da un incremento così rilevante delle endorfine, i ricercatori hanno studiato la reazione al dolore di questi animali. In proposito, si ricorda che la tolleranza del dolore è un marker della dipendenza da oppioidi: i tossicodipendenti da diacetilmorfina (eroina) possono sopportare o ignorare stimoli dolorifici di alta intensità.
Gli esprimenti si sono basati su risposte termotattili dei topi: sfruttando la possibilità di determinare con precisione l’intensità dello stimolo sulla base dei gradi termici, i ricercatori hanno cimentato i roditori con temperature in grado di superare la soglia del dolore secondo le precedenti valutazioni che hanno stabilito gli standard della specie. I topi sottoposti al trattamento abbronzante, rispetto a quelli di controllo, presentavano una soglia del dolore fino a tre volte più elevata, con una capacità di resistenza o insensibilità agli stimoli dolorifici impressionante. Adoperando antagonisti recettoriali degli oppioidi, e perciò della β-endorfina, gli autori hanno ottenuto un netto ed efficace recupero della sensibilità dolorifica naturale, con il ripristino delle soglie fisiologiche. La neutralizzazione dell’azione oppioide da parte degli antagonisti ha però generato, dopo l’esposizione protratta alla luce, sintomi quali scosse delle zampe e battere dei denti, che ordinariamente si interpretano come manifestazioni di una sindrome da astinenza.
Questi risultati costituiscono un’eloquente conferma di un marcato effetto edonico mediato dalla segnalazione endorfinica e causato dall’esposizione alla luce UV. Fisher e colleghi hanno allora voluto verificare se l’esperienza aveva dato luogo ad un apprendimento specifico.
I roditori, che per tendenza genetica preferiscono il buio alla luce, dopo il trattamento abbronzante preferivano invece camere bianche e rilucenti a camere oscure. In altre parole, quale conseguenza dell’istintivo evitamento della sindrome da astinenza, i topi hanno manifestato una scelta comportamentale appresa come condizionamento operante, e riferita nello studio con la definizione paradigmatica di avversione di luogo condizionata.
A questo punto, i ricercatori hanno cercato di determinare con precisione la dipendenza di tutti gli effetti osservati dalla β-endorfina prodotta nei cheratinociti epidermici per scissione del precursore POMC. A tale scopo, hanno ripetuto gli esperimenti con topi privati geneticamente di β-endorfina (β-endorphin knockout mice) e roditori privati dell’induzione di POMC mediata da p-53 nei cheratinociti dell’epidermide. In entrambe le circostanze sperimentali non si è prodotto l’innalzamento della soglia del dolore e lo sviluppo di sindrome di astinenza e, pertanto, si è avuta conferma della mediazione della via di segnalazione della β-endorfina per tutti gli effetti comportamentali indotti dall’esposizione alla luce UV.
Considerata l’evidenza di questi risultati, è lecito chiedersi perché nel corso dell’evoluzione biologica l’esposizione al sole sia stata selettivamente “premiata” con l’attivazione di un sistema neurofunzionale edonico che assicura la tendenza alla ripetizione dell’esperienza.
Il valore positivo della luce per il sistema nervoso centrale degli animali è così noto e definito in neurobiologia, da essere stato impiegato come paradigma di funzionamento negli automi di Edelman che simulano la dicotomia fra sistema cognitivo-percettivo corticale e sistema dei valori troncoencefalico-limbico. Tale visione si basa su un lungo elenco di effetti positivi della luce solare sugli organismi biologici e, in particolare, sull’influenza esercitata grazie alla mediazione del sistema nervoso. Ma Fisher e colleghi, esperti di fisiologia della pelle, hanno privilegiato per la loro ipotesi evoluzionistica il notissimo processo di biosintesi nella cute di una forma di vitamina D (colecalciferolo), per effetto dei raggi ultravioletti (fra i 290 e 315 nm) che convertono il 7-deidrocolesterolo, e creano una riserva vitaminica importante soprattutto per la mineralizzazione dell’osso[7]. La radiazione ultravioletta solare attiverebbe meccanismi di piacere per conservare il contributo della vitamina D cutanea alla fisiologia dell’organismo. Su questa base, i ricercatori di Boston concludono che il vantaggio evolutivo rappresentato dagli effetti della vitamina D ha per rovescio della medaglia un aumentato rischio di tumori maligni della pelle[8].
Il risultato di questo lavoro suggerisce molti spunti per ulteriori studi: uno di questi è già in cantiere.
Il disturbo affettivo stagionale (seasonal affective disorder) è stato studiato in ottiche diverse: quale processo psicodinamico legato alla rievocazione, sul tipo delle “nevrosi dell’anniversario” della vecchia nosografia, quale sindrome depressiva conseguente alla regolazione circannuale delle funzioni nervose e neuroendocrine, quale carenza dei sistemi serotoninergici o dell’increzione di melatonina rivelata da circostanze ambientali che si ripetono stagionalmente, e così via. Ora, Fisher e colleghi hanno deciso di avviare uno studio per seguire la nuova traccia del basso livello di β-endorfina conseguente alla scarsa esposizione al sole nei mesi invernali: il disturbo affettivo stagionale potrebbe essere una sorta di sindrome da astinenza di luce solare. Staremo a vedere.
L’autore della nota ringrazia la
dottoressa Isabella Floriani per la collaborazione e
invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella
sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina
“CERCA”).
[1] Gli oppioidi nella VTA si legano ai recettori “μ” dei neuroni GABA inibendoli, col risultato di attivare i neuroni dopaminergici mesocorticolimbici dell’addiction. L’effetto di rinforzo è determinato anche dall’azione diretta sui recettori nel nucleo accumbens e dalle interazioni con il sistema degli endocannabinoidi. Si indaga su altri meccanismi.
[2] La sede è presso il Cutaneous Biology Research Center, Department of Dermatology and MGH Cancer Center, Massachusetts General Hospital, Harvard Medical School, Boston (dfisher@partners.org).
[3] Provenienti
dal Department of Neurobiology della Harvard Medical
School di Boston, dal Neurobiology Center (FM Kirby) del Children’s Hospital di
Boston e dal Department of Anesthesia, Critical Care and Pain Medicine del Massachusetts
General Hospital.
[4] Fell G. L., et al., Skin β-endorphin mediates addiction to UV light. Cell 157 (7): 1527-34, 2014.
[5] Il precursore di questi importanti peptidi neuroattivi deriva a sua volta da un pre-precursore: la pre-pro-oppiomelanocortina (pre-POMC), un peptide di 285 aminoacidi che si trasforma in POMC durante il processo di traduzione, mediante la scissione di una sequenza di 44 aminoacidi che costituisce un “peptide segnale”. I principali precursori di peptidi bioattivi, oltre quelli di prolattina, somatostatina peptide Y, dinorfina ed encefaline, sono POMC, ELH, αMF e FMRF-NH2.
[6] Si ricorda che la β-endorfina, il migliore ligando endogeno del recettore μ, è un oppioide di straordinaria potenza, così come secreta nel cervello dalle cellule del nucleo arcuato dell’ipotalamo; perde invece la sua attività oppioide nei neuroni dell’ipofisi intermedia, dove viene acetilata. L’αMSH del nucleo arcuato ha importanza nel comportamento sessuale e nell’appetito alimentare, mentre l’αMSH dell’ipofisi intermedia regola la produzione di melanina.
[7] La vitamina D, oltre a favorire il riassorbimento di calcio al livello renale e l’assorbimento intestinale di calcio e fosforo, i processi di mineralizzazione dell’osso (regolati da calcitonina e paratormone) e la differenziazione di alcune linee cellulari, interviene anche in alcune funzioni neuromuscolari.
[8] In proposito si deve tener conto della prospettiva genetica. Dal complesso dei risultati finora ottenuti si evince una importanza notevole dei fattori genetici, pertanto esiste una gamma di vulnerabilità ampia, da persone estremamente suscettibili a persone che possono permettersi dosi di radiazione UV molto elevate senza correre rischi.