Esercizio fisico contro il rischio genetico di Alzheimer
GIOVANNI ROSSI
NOTE
E NOTIZIE - Anno XII – 06 dicembre 2014.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo:
DISCUSSIONE/AGGIORNAMENTO ]
Sono sufficienti ragioni intuitive e di mero buon senso, congiunte con nozioni di biologia e fisiologia già consolidate mezzo secolo fa, per comprendere come l’esercizio motorio possa giovare al cervello senescente o indebolito da generici processi fisiopatologici che causano riduzione di risorse neurali necessarie alla prestazione cognitiva. Altra questione, ben più complessa e strettamente connessa con il progredire delle conoscenze, è la stima sperimentale della possibilità dell’esercizio fisico di evitare o ridurre l’espressione del potenziale patogenetico di alleli etichettati come “geni di alto rischio” per lo sviluppo della malattia di Alzheimer. Una breve discussione focalizzata su quanto si può dedurre e ricavare concettualmente dai principali studi recenti si impone, soprattutto alla luce di alcuni risultati sorprendenti, in contraddizione con una nozione che sembrava ormai consolidata.
Per partecipare alla riflessione in atto sul significato di quanto emerge dalle osservazioni sperimentali, è necessario aver presenti alcune possibilità che sono oggetto di discussione nelle riunioni di laboratorio e costituiscono tesi implicite per le ipotesi di lavoro che pongono in rapporto epidemiologia e genetica. Ne consideriamo tre.
1) Una prima possibilità è che l’esercizio motorio giovi indistintamente a tutti, attraverso i suoi effetti positivi che si esplicano sulla circolazione cerebrale, sul metabolismo e riducendo i processi infiammatori, l’azione dello stress e il danno ossidativo. Agendo in tal modo, l’attività fisica realizza una protezione generica che può costituire un beneficio anche per le persone con un elemento di predisposizione genetica legato ad un’alta probabilità di sviluppare la malattia.
2) Una seconda possibilità è che l’esercizio agisca specificamente sui processi patogenetici legati allo stato di portatore di un tratto genetico particolare (ad es.: Apo E4), fungendo da prevenzione e trattamento per quella condizione. In questo caso, gli effetti dell’esercizio fisico saranno maggiori nei portatori che nella popolazione generale e non dovrebbe essere difficile creare sperimentalmente una condizione di prova in cui gli effetti si manifestino solo nei portatori.
3) Una terza possibilità è che gli effetti positivi sul cervello vengano a mancare proprio nei portatori del tratto genetico di predisposizione alla malattia di Alzheimer o ad altre forme di malattia neurodegenerativa che causano demenza.
Alla luce di queste possibilità, leggiamo i risultati della ricerca, prendendo le mosse dai numerosi lavori dagli esiti concordanti che hanno suggerito le idee attualmente prevalenti nella comunità scientifica.
Le persone portatrici della variante allelica ε4
del gene APOE (dell’apolipoproteina E o apoE) presentano
un rischio più alto di deterioramento cognitivo e demenza nell’età avanzata.
Già tempo prima che si manifestino i sintomi denuncianti la riduzione
dell’efficienza cognitiva, il cervello dei portatori di questa variante genica
mostrano un ridotto metabolismo, alterazioni dei parametri fisiologici di
attività e deterioramento maggiore in età avanzata del cervello di coetanei
privi di questo “gene di alto rischio”.
Prima
di proseguire, riprendiamo da una recensione di Diane Richmond qualche nozione
introduttiva sull’apoE: “L’apolipoproteina
E4 è considerata il maggior fattore di rischio conosciuto per la malattia di
Alzheimer. Un ruolo nella patogenesi della più grave demenza neurodegenerativa
di una particolare forma genetica dell’apolipoproteina,
nota per essere implicata in disturbi dislipidemici e
quadri connessi con l’invecchiamento cerebrale, è stato a lungo negato dai
maggiori studiosi del campo, quali Dennis Selkoe,
caposcuola ad Harvard della teoria della β-amiloide, e Rudolph Tanzi,
genetista a lungo dedicatosi allo studio delle alterazioni della proteina
tau.”[…] “L’apolipoproteina E (apoE)
è secreta dagli astrociti ed è la più importante apolipoproteina del sistema nervoso centrale; nelle colture
astrocitarie appare nel medium sotto forma di particelle ricche di colesterolo
di dimensioni simili a quelle di HDL che si vedono alla periferia (5-12 nm).Si
ritiene che ogni particella discoidale, costituita da un bilayer fosfolipidico, sia
circondata da quattro molecole di apoE avvolte
intorno alla circonferenza con l’asse delle strutture ad elica perpendicolare
all’asse maggiore dei fosfolipidi, in modo da formare una sorta di cintura.
L’apoE è implicata
nel trasporto dei lipidi e del colesterolo e, nell’uomo, il possesso
dell’allele ε4 costituisce un
fattore di rischio molto elevato per lo sviluppo della malattia di Alzheimer:
gli omozigoti per ε4, rispetto a
coloro che hanno le varianti alleliche ε2
ed ε3, presentano un rischio 12
volte maggiore di sviluppare la malattia neurodegenerativa.”[1].
Dati concordanti, accumulati nell’ultimo
decennio, indicano che lo stato di portatore della variante ε4 dell’apoE
non equivale ad una ineluttabile condanna alla perdita della memoria e
dell’orientamento nel tempo e nello spazio alle soglie dell’età avanzata,
perché una pratica costante di esercizio fisico negli anni sembra in grado di
prevenire l’espressione delle potenzialità neurolesive
del genotipo.
Durante il decennio appena trascorso,
numerose evidenze sperimentali hanno indicato che i noti benefici sul cervello
e sul declino cognitivo dovuti all’esercizio motorio, sono di gran lunga
maggiori nei portatori di geni di alto rischio per la malattia di Alzheimer. In
altri termini, la massima parte degli studi dello scorso decennio che ha
affrontato il tema dell’efficacia dell’attività fisica nella prevenzione e nel
trattamento del declino cognitivo, ha documentato un’efficacia maggiore e
specifica nelle persone ad alto rischio di demenza neurodegenerativa, fornendo,
in tal modo, elementi a supporto del caso proposto più sopra al numero “2” come
seconda possibilità.
In particolare, si citano spesso due studi,
condotti da un team di ricercatori in
Finlandia e in Svezia, nei quali è stato documentato che un regime di esercizio
motorio di media intensità due volte la settimana, in persone di mezza età,
riduceva significativamente la possibilità di sviluppare demenza 20 anni dopo,
e questo effetto protettivo appariva più marcato nei portatori del gene APOE ε4.
La convinzione di un’efficacia maggiore nelle persone a rischio è stata
rafforzata da numerosi altri studi; in alcuni è stato valutato l’effetto di
almeno tre sedute di allenamento la settimana, in altri si è verificato
l’impatto di un regime di esercizio quotidiano di almeno un’ora, fino a oltre
le due ore. Tali studi hanno mostrato un’efficacia selettiva dell’esercizio
muscolare nel rallentare il declino cognitivo solo nei volontari ad alto
rischio.
Di passaggio, senza voler entrare nel merito
della fisiopatologia, che esulerebbe dai limiti di questa discussione, si
ricorda che nei portatori di questi alleli di alto rischio la maggiore tendenza
all’accumulo di peptidi β-amiloidi insolubili, che precipitano formando le
placche responsabili di una parte rilevante della patogenesi del danno nella
malattia di Alzheimer, si accentua ulteriormente con la sedentarietà,
presentando dei quadri di accumulo preoccupanti già prima dell’emergere di
manifestazioni cliniche. L’esercizio motorio costante e di una certa intensità,
associato ad uno stile di vita non sedentario, sembra in grado di ridurre in
modo drastico l’accumulo di β-amiloide in queste persone.
Una spiegazione delle ragioni di tale
efficacia sembra collegabile al metabolismo neuronico, secondo vari studi
recenti. Fra questi, sono stati spesso citati un lavoro pubblicato sulla
rivista NeuroImage
nel 2011 ed un altro studio pubblicato su Alzheimer’s & Dementia nel 2012; entrambi gli
articoli riportano nei volontari ad alto rischio sottoposti a un regolare
programma di esercizio motorio, una maggiore attività cerebrale e una più
elevata captazione cellulare di glucosio durante l’esecuzione di un compito di
memoria, sia rispetto a persone a basso regime di attività fisica sia nel confronto
con persone a basso rischio genetico. L’accresciuta attività metabolica che
induce un incremento funzionale delle popolazioni neuroniche potrebbe spiegare
l’azione protettiva dell’allele ε4
del gene APOE.
Un’intuitiva lettura di questo dato in chiave
evoluzionistica, basata su un presumibile vantaggio selettivo, ha ricevuto una
precisa formalizzazione teorica nel maggio di quest’anno da parte
dell’antropologo David Raichlen e dello psicologo
Gene Alexander, entrambi dell’Università dell’Arizona. La tesi sostenuta dai
due studiosi si basa sulla più remota origine della variante allelica ε4: all’incirca due milioni di anni
fa, quando i nostri progenitori ancestrali percorrevano quotidianamente lunghe
distanze a caccia di prede animali necessarie per l’assunzione di proteine e,
in generale, basavano gran parte della vita sulla corsa, sul movimento e su
attività manuali di notevole impegno muscolare, esisteva solo la variante oggi
considerata ad alto rischio. Quel gene assicurava un efficiente metabolismo
durante l’attività intensa, e il rovescio della medaglia, costituito
dall’induzione di un più rapido declino cognitivo, era controbilanciato dallo
stile di vita. Le abitudini di vita sono poi andate mutando, con il progressivo
passaggio dell’uomo dallo stadio di cacciatore-raccoglitore nomade alla
stanzialità. All’incirca 12.000 anni fa, con la nascita dell’agricoltura,
seguita dall’allevamento e, mano a mano, nelle epoche successive, con lo
sviluppo di tecniche per il lavoro, con la creazione di classi sociali e
l’accumulo di ricchezze, si è poco per volta creato uno stile di vita
sedentario. Il movimento ridotto in percentuali elevate di persone nell’ambito
di una popolazione, avrebbe favorito l’apparire delle altre varianti alleliche
che, al giorno d’oggi, rappresentano i geni con il migliore vantaggio
adattativo, facendo risultare il gene predecessore come allele di alto rischio.
In attesa di verifiche e riscontri per questa
ipotesi, la ricerca è proseguita e, come annunciato nelle considerazioni introduttive,
ha fornito dati in contrasto con quelli prevalenti nell’ultimo decennio. In
particolare, il primo di questi lavori, e certamente il più significativo, ha
riportato che un alto livello di attività fisica aerobica determinava una
riduzione del rischio di demenza, ma soltanto in coloro che non erano portatori
dell’allele APOE ε4. Vediamo più in dettaglio questo studio.
L’obiettivo principale consisteva nel
verificare l’ipotesi che l’attività fisica di tipo aerobico del tempo libero
fosse associata con prestazioni cognitive migliori e che l’effetto dell’esercizio
motorio fosse diverso nei diversi gruppi genotipici dell’APOE. Il valore dei
rilievi condotti da Obisesan e colleghi[2]
consiste nel fatto che sono stati ottenuti su un campione numeroso di persone
non istituzionalizzate e attentamente studiate in precedenza, dal 1988 al 1994,
nel principale progetto nazionale degli USA al riguardo: Third National Health and Nutrition
Examination Survey
(NHANES-III). Da un campione di 7159 volontari di età ≥ 60 anni, sono
stati presi in esame 1799 uomini e donne, per i quali si disponeva di
un’affidabile documentazione dell’attività fisica costantemente svolta nel
tempo libero. Le persone selezionate, ripartite in due gruppi (60 ≤ età
≤ 69; età ≥ 70), sono state sottoposte ad un test convalidato per
l’esame globale delle abilità cognitive (SMSE, short mental status examination)
e ad analisi del genotipo al locus
del gene per l’apolipoproteina E, per stabilire la
variante allelica di cui erano portatori.
Nell’analisi iniziale, nel gruppo delle
persone dai 60 ai 69 anni, coloro che non erano portatori di APOE ε4
o erano eterozigoti per l’ε4,
hanno fatto registrare prestazioni cognitive decisamente migliori degli APOE ε4
omozigoti. Dopo aver introdotto il controllo per molteplici elementi di
disturbo (confounders)
incluse le limitazioni del movimento, i ricercatori hanno rilevato la
correlazione fra l’attività fisica e i punteggi più elevati al test SMSE nei
non portatori di APOE ε4 (P = 0.014), ma non nei
portatori di APOE ε4 (P = 0.887). Per ciò che
concerne il gruppo di età ≥ 70 anni, l’attività fisica ugualmente era
correlata ai punteggi più alti all’SMSE solo in coloro che non erano portatori
dell’allele ε4 (P = 0.02), anche
se l’associazione perdeva significatività dopo l’introduzione del controllo per
le limitazioni del movimento (P = 0.12).
In altri termini, l’esatto contrario di
quanto emerso dalla maggioranza delle indagini e considerato elemento a
sostegno per l’opinione ancora attualmente prevalente nella comunità
scientifica.
I dati ottenuti dai 1799 volontari del NHANES
sembrano far cadere il castello interpretativo evoluzionistico costruito da Raichlen e Alexander. In proposito, Emilie Reas di Scientific American Mind ha chiesto proprio l’opinione di David Raichlen, che ha enfaticamente ribadito: “Per gli individui
che sono portatori di APOE ε4, gli studi certamente
sottolineano l’importanza di mantenere l’attività fisica durante tutta la vita”;
e poi: “Una migliore comprensione delle origini evolutive delle interazioni
genotipo-stile di vita aiuterà ad identificare le popolazioni che possono
particolarmente beneficiare di cambiamenti comportamentali”[3].
Naturalmente, i risultati contraddittori
depongono a favore di un’interazione complessa fra stile di vita ed alleli di
rischio identificati; una complessità che potrebbe voler dire l’entrata in
gioco di altri elementi genetici ed epigenetici di regolazione o di
interferenza attualmente sconosciuti, o della presenza di fattori non genetici
relativi all’organismo che fanno variare gli effetti dell’esercizio motorio.
A modesto avviso di chi scrive, la parola ritorna alla ricerca e, in particolare, a quella sulla genetica della malattia di Alzheimer e sui fattori che determinano il passaggio dal rischio genetico alla realtà patologica.
L’autore della nota ringrazia la
dottoressa Isabella Floriani per la collaborazione e
invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella
sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina
“CERCA”).
[1] Note e Notizie 23-10-10 Apo E4 causa
alterazioni dei neuroni GABA che inducono deficit di memoria e apprendimento
[cfr. Andrews-Zwilling Y., et al. Apolipoprotein E (apoE) Causes Age- and Tau-Dependent
Impairment of GABAergic Interneurons, Leading to
Learning and Memory Deficits in Mice. The
Journal of Neuroscience 30 (41), 13707-13717,
2010].
[2] Obisesan
T. O., Umar N., Paluvoi N., Gillum
R. F., Association of leisure-time physical activity with cognition by apolipoprotein-E genotype in persons aged 60 years and
over: the National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES-III). Clin Interv Aging
7: 35-43, 2012.
[3] Reas E.,
Exercise Counteracts Genetic Risk for Alzheimer’s. Sci. Am. Mind 25 (6): 12, Nov/December 2014 (TdA
delle parole citate).