Cenni di storia, verità e realtà sulla marijuana terapeutica

 

 

LUDOVICA R. POGGI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XII – 22 novembre 2014.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO/DISCUSSIONE]

 

Nel Paese che è al contempo la nazione leader nella ricerca biomedica mondiale e il principale mercato per la diffusione di novità e innovazioni in ogni campo, gli Stati Uniti d’America, l’offensiva mossa dai sostenitori della liberalizzazione dell’uso dei derivati della Cannabis sativa, ha assunto negli ultimi anni l’aspetto di una battaglia di legalizzazione per l’impiego terapeutico della sostanza. Gli stati in cui esiste un divieto legale sono 32, quelli in cui nessun limite è posto sono di recente diventati 20, con lo stato di Washington e il Colorado, ma sembra che presto saranno 21, con lo stato di New York.

L’influenza prevedibile e inevitabile sull’Europa ha già avuto i suoi effetti in Italia, ma al di là delle opinioni politiche sulla libertà d’uso, rimane il compito degli scienziati di trasmettere quanto è noto senza alcuna stortura indotta dalla propaganda a favore o contro. Sentiamo questo compito come un dovere e un servizio, a fronte del costituirsi e diffondersi di una sottocultura fondata su “luoghi comuni” erronei e su supposizioni mai provate sperimentalmente e spesso trasmesse come “verità di fede” dai consumatori.

 

Cenni storici. Si propone una sintetica cronologia delle principali tappe del rapporto, nel tempo, dell’uomo con i prodotti della Cannabis sativa nelle sue numerose varietà locali, prima fra tutte la Cannabis sativa indica.

Nel 2700 a.C., secondo una leggenda orientale, le proprietà medicamentose della pianta furono scoperte dal mitico imperatore cinese Shennong.

1500 a.C.: in un papiro medico egiziano risalente approssimativamente a mille e cinquecento anni prima della nascita di Cristo, è menzionato l’uso della pianta come cura empirica per il mal d’occhi e l’infiammazione.

600 a.C.: è documentato in India l’uso come analgesico/anestetico di una bevanda chiamata Bhang e verosimilmente realizzata mescolando al latte un estratto del vegetale.

79 d.C.: Plinio il Vecchio, naturalista ante litteram, cita fra i rimedi per il trattamento del dolore, della gotta e di immobilità articolari dovute a crampi, il liquido ottenuto bollendo le radici della pianta di canapa.

800: i medici islamici definiscono gli estratti della pianta di canapa un “veleno mortale”; tuttavia ne prescrivono quantità limitate per il trattamento di numerosi sintomi.

1542: il medico, naturalista e botanico tedesco Leonhart Fuchs classifica per primo la pianta di canapa attribuendole il nome di Cannabis sativa.

1842: sulla base di esperimenti terapeutici poco prudenti e privi di stime scientifiche per il dosaggio, il chirurgo militare dell’esercito britannico William Brooke O’Shaughnessy impiega derivati della Cannabis sativa per il trattamento di vari sintomi e sindromi, fra cui la nausea, le convulsioni epilettiche e il dolore.

1850: la Farmacopea degli Stati Uniti d’America, nel manuale che conteneva la lista ufficiale dei farmaci autorizzati per l’uso medico, include per la prima volta la marijuana fra i rimedi utilizzabili in terapia.

1925: verificati empiricamente gli effetti tossici e il potenziale tossicomanigeno dell’hashish, della marijuana e delle altre preparazioni realizzate con resina, foglie, infiorescenze e steli della pianta, una “Lega di Nazioni” sottoscrive un trattato per limitare l’uso della cannabis a soli fini medici o di studio scientifico. Intanto, la farmacologia scientifica e la chimica farmaceutica erano ormai divenute una realtà, e i salicilati come l’aspirina ed altri farmaci antidolorifici ottenuti da poco avevano sostituito l’impiego, definito dai medici americani dell’epoca “un po’ stregonesco”, dei derivati della pianta per trattare il dolore.

1930: il Federal Bureau of Narcotics degli USA commissiona studi accurati e rigorosi sugli effetti dei derivati della Cannabis sativa. Le conclusioni del commissario incaricato di sovrintendere l’elaborazione del dossier, Harry J. Anslinger, sono molto severe, soprattutto perché erano stati verificati gli effetti di dosi in grado di provocare gravi forme allucinatorie con conseguenze postume sulla cognizione. Sostenne perciò la pericolosità del potere di “corruzione” psichica della marijuana, dal quale ritenne fosse giusto proteggere i cittadini[1].

 

Proprietà terapeutiche: quanto realmente è stato verificato in sei categorie patologiche. In estrema sintesi si riferisce, qui di seguito, quanto realmente è emerso dalla verifica scientifica dell’uso terapeutico della cannabis nelle sei categorie patologiche maggiormente studiate[2].

 

Dolore e processi infiammatori. La reclamata azione antidolorifica ed anti-infiammatoria della marijuana terapeutica non ha retto alla verifica sperimentale controllata. Vari studi hanno rilevato che la sua efficacia sarebbe solo lievemente maggiore di quella del placebo nella riduzione dell’infiammazione, e per quanto riguarda gli effetti sul dolore il bilancio è ancora più negativo: una parte dei pazienti volontari nella sperimentazione clinica[3] presenta un peggioramento, percependo un accentuarsi o un acuirsi della sintomatologia algica.

 

Sclerosi Multipla (SM). Considerato il numero limitato di farmaci e strategie terapeutiche per i sintomi delle fasi avanzate della sclerosi multipla, gli autori di una review pubblicata nel 2011 concludevano che la marijuana terapeutica poteva costituire un’opzione valida per la riduzione di alcuni sintomi, probabilmente tenendo conto anche degli effetti positivi sul tono dell’umore riferiti da molti, anche se non da tutti gli assuntori. Per inciso, ricordiamo che reazioni negative (nausea, vomito, iperattivazione del simpatico, ecc.) alla prima assunzione non sono rare, e sembrano essere più frequenti in persone sottoposte per anni a trattamenti farmacologici. Per verificare l’effettiva opportunità di indicare la marijuana terapeutica o uno specifico trattamento a dosi controllate di principio attivo nei pazienti affetti da sclerosi multipla, è stato condotto un vasto studio clinico, pubblicato nel 2012. È risultato che l’estratto di cannabis riduceva effettivamente la rigidità muscolare e, in parte, altri sintomi della sclerosi a placche, anche se non in modo particolarmente rilevante. Un altro studio di minori proporzioni è stato condotto consentendo di fumare derivati della cannabis a pazienti resistenti a terapie standard: al di là delle valutazioni soggettive, l’efficacia rilevata oggettivamente non andava molto oltre quella del placebo.

Con i nuovi farmaci introdotti in terapia o in fase finale di sperimentazione, ci sembra che per una efficacia lievemente superiore al placebo non valga la pena di assumere marijuana col rischio dell’istaurarsi di una dipendenza e con la certezza di danni alle funzioni cognitive per assunzioni croniche protratte. Deficit, sia pure non gravi, di memoria, attenzione ed apprendimento, potrebbero sommarsi ai sintomi dovuti alle localizzazioni cerebrali delle placche, peggiorando la qualità della vita in una condizione in cui, peraltro, sarebbe difficile distinguere la responsabilità della cannabis da quella della malattia.

 

Malattie oncologiche. Numerosi trials avevano dimostrato la capacità dei derivati della cannabis di aumentare l’appetito e ridurre la nausea da chemioterapia nel breve termine. Questa indicazione, però, è venuta meno con l’introduzione dei nuovi farmaci per il trattamento di questi sintomi, che si sono mostrati di gran lunga più efficaci.

 

Sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS) per infezione da HIV. Sono attualmente prescritte, come medicamenti per indurre l’appetito, preparazioni farmaceutiche di dronabinolo (THC) da solo o in associazione con il cannabidiolo (CBD). In uno studio controllato (randomized controlled trial) pazienti affetti da AIDS sono stati trattati con un composto ad effetto sui recettori degli endocannabinoidi ottenendo un acquisizione di peso due volte maggiore di quella dei pazienti in pari condizioni trattati con placebo. L’efficacia del trattamento per un tempo più protratto e i problemi per un trattamento di lungo termine dovranno essere verificati e studiati.

 

Glaucoma. L’indicazione nelle malattie da ipertensione endo-oculare è in cima agli elenchi che da un paio di decenni gli attivisti della marijuana terapeutica propongono nelle loro conferenze. Vari studi hanno verificato che fumare derivati della cannabis può ridurre la pressione all’interno dell’occhio, sollevando i pazienti con glaucoma in fase avanzata dal disagio causato dal sintomo per due o tre ore. Questa osservazione però non è più attuale, perché numerosi farmaci registrati, in uso già da vari anni, sono di gran lunga più efficaci già a basse dosi, sia nel ridurre la pressione che nell’eliminare per un tempo molto più lungo le sensazioni negative.

 

Epilessia. Vari studi su animali hanno suggerito che il Δ9-tetraidrocannabinolo (THC), il principale principio attivo contenuto nella cannabis, possa contribuire all’inibizione dei processi che causano le convulsioni. Non sono stati ancora condotti studi di alta qualità, significatività e rigore scientifico sull’uomo, pertanto l’ipotesi che viene dalla ricerca di base va verificata, mediante studi che diano risposte ai molti interrogativi suscitati anche dalle differenze fra i modelli sperimentali e le sindromi epilettiche della realtà clinica.

 

È giustificata una battaglia per la marijuana terapeutica? Alcune ragioni scientifiche sono fondate, e noi sosteniamo che nessun limite debba essere posto alla ricerca: proprio studiando i veleni, dal tempo di Teofrasto Bombasto Paracelso, la farmacologia si è evoluta giungendo, negli ultimi due secoli, a purificare e sintetizzare una straordinaria quantità di farmaci efficacemente impiegati nelle terapie mediche. Ma, come abbiamo più volte ricordato e ribadito, la ricerca non ha patito di queste restrizioni, visto che il principale principio attivo della cannabis, ossia il Δ9-tetraidrocannabinolo (THC), da molto tempo è stato brevettato e introdotto in terapia (dronabinolo). Altro discorso è invece quello relativo al libero uso, cosiddetto “ricreativo” dei prodotti interi - contenenti centinaia di composti non studiati singolarmente - come vegetali o resine che, alle dosi in grado di generare effetti piacevoli, causano, in una percentuale elevata di casi, assuefazione, dipendenza e danni alle funzioni cognitive.

L’uso della marijuana terapeutica viene presentato da molte associazioni come una svolta del moderno verso il futuro e al contempo, così come avveniva per il ritorno a partorire in casa, per l’automedicazione che esclude il rivolgersi al medico, per il ricorso ai “rimedi naturali” e alle medicine alternative, un riappropriarsi degli interventi sul proprio corpo quale etica del post-moderno contrapposta alla disumanizzante gestione del corpo da parte dei “saperi specialistici e tecnologici” propria delle società industrializzate. Si comprendono queste ragioni, e si rispetta chi le sostiene, ma si condanna duramente chi, per sostenerle, afferma il falso propagandandone l’assoluta innocuità o, sostenuto da lobbies che intendono gestire il business internazionale della vendita al posto dei trafficanti, gonfia in modo truffaldino le reali virtù del vegetale.

 È innegabile che notevoli interessi economici, gli stessi tutelati da chi può finanziare una costosa rivista patinata sulla cannabis che nessuna società scientifica italiana si può attualmente permettere, premano per incanalare in un mercato legalmente gestito dai detentori di questi interessi l’enorme fiume di denaro che scorre nei territori dell’illecito.

In tutto il mondo si vendono milioni di magliette con su scritto “cannabis”; chi viaggia ha modo di vederne in Oriente e in Occidente, come nelle nostre città, dove questa parola si vede anche scritta sui muri di strade e piazze. “Che c’è di strano -  mi ha detto una turista a Firenze - nel portare sul petto il nome di una pianta con grandi proprietà curative?”. Sarà, ma io non ho mai visto nessuno con una maglietta con su scritto “acerola”: il frutto ingiustamente trascurato e a molti sconosciuto che contiene vitamina C in una concentrazione di molte volte superiore a quella dell’arancia. Visto che i sostenitori della marijuana terapeutica propagandano l’uso del vegetale con alto tasso di composti psicotropi come una panacea, allora è d’obbligo l’accostamento alle vitamine che, in epoca di medicina scientifica, sono state l’ultimo spunto per tornare alla mitica illusione dell’esistenza di un rimedio per ogni male[4].

Chi non ha mai letto i volumi specialistici di farmacologia delle vitamine, che fino a non molto tempo fa venivano pubblicati con un’alta frequenza di aggiornamenti ed una capillare diffusione fra i medici in tutto il mondo occidentale, non ha idea di quanti effetti benefici in quante condizioni patologiche sono stati provati con elevata certezza sperimentale.

Ciò che noi dovremmo riuscire ad insegnare nelle università e trasmettere anche all’opinione pubblica, è la distinzione fra la qualità di produrre generici effetti benefici e la qualità specifica che definisce un agente quale mezzo terapeutico per una data malattia. Anche l’esercizio fisico migliora molti parametri negli ammalati di cancro, malattie cardiovascolari e neurodegenerative, ma nessuno si sognerebbe mai di considerare una piacevole corsa tra i campi o una passeggiata di salute in riva al mare come un’alternativa alla chirurgia e alla farmacoterapia che realmente riescono, in molti casi, a salvare la vita in imminente pericolo per una specifica ragione patologica. Nella maggior parte dei casi i derivati della cannabis producono o effetti generici che si possono ottenere con mezzi realmente naturali e, in ogni caso, senza l’assunzione di alcuna sostanza[5], o effetti specifici che sono eguagliati o superati da farmaci-medicamenti già brevettati e in uso.

In conclusione, chi scrive sostiene che ormai non vi sono più tante ragioni per cercare a tutti i costi soluzioni terapeutiche nei derivati della Cannabis sativa e, soprattutto, la ricerca medica in questo campo non può e non deve essere impiegata come una scusa o un pretesto per giustificare una diffusione ancora maggiore di un uso che rimane gravato da una potenzialità nociva ormai accertata e definita.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani e invita alla lettura dei numerosi scritti di argomento connesso che appaiono sul sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-22 novembre 2014

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 



[1] Per una dettagliata introduzione sulla Cannabis sativa e sulla storia recente che include lo “studio Bromberg” (1934) e gli atti della “Commissione La Guardia” (organismo medico-giuridico istituito dal sindaco di New York Fiorello La Guardia) si veda nella sezione “AGGIORNAMENTI”: “BM&L SULLA CANNABIS - Cannabinoidi e abuso di cannabis” (scheda introduttiva); si vedano poi i numerosi scritti che trattano l’argomento cannabis direttamente o indirettamente (recensioni di lavori sul sistema degli endocannabinoidi, cioè sulla segnalazione CB1 e CB2-mediata). Si vedano anche: “Note e Notizie 05-09-09 La cannabis è cancerogena oltre che lesiva per il cervello”; “Note e Notizie 18-09-05 L’abuso di cannabis in gravidanza altera il cervello fetale”. L’impegno informativo della nostra società sull’argomento è anche testimoniato dalle recenti “Notule”.

[2] La compilazione di una bibliografia dettagliata delle fonti di quanto qui riferito avrebbe richiesto un tempo e uno spazio che esulano dai limiti imposti a questo scritto, pertanto si rimandano gli interessati ad una diretta richiesta a chi scrive o a Roni Jacobson che di recente ha passato in rassegna questi studi.

[3] Si tratta sempre di trials condotti col metodo del doppio cieco, ossia né il paziente né chi somministra sa cosa si stia impiegando nella singola somministrazione (farmaco o placebo).

[4] Le vitamine, però, non sono prodotti interi contenenti centinaia di composti come il vegetale che si fuma, ma singole molecole bene studiate, di cui l’organismo che non le biosintetizza ha bisogno; e soprattutto non sono sostanze psicotrope che generano dipendenza, e anche a dosi elevate non producono effetti collaterali indesiderati e tossici.

[5] Metodi di rilassamento con ginnastica dolce associata all’ascolto di musica; tecniche avanzate derivate dal training autogeno; metodi di rilassamento associati al sogno da svegli guidato; gioco psicoterapeutico di gruppo finalizzato ad accrescere il tono dell’umore; programmi di esercizio di gruppo per sollecitare la risata e l’atteggiamento umoristico; approccio mente/corpo mediante forme di meditazione occidentale o orientale; yoga; tai-chi; teatro terapeutico; ecc.