I flavanoli del cioccolato migliorano la cognizione agendo sul giro dentato

 

 

DIANE RICHMOND & GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XII – 15 novembre 2014.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Per un lungo periodo, i mirtilli prima e i flavonoidi poi, nell’immaginario collettivo americano e  nell’informazione di massa internazionale, hanno assunto prodigiosi poteri contro il cancro, le malattie cardiocircolatorie, l’invecchiamento, il declino delle prestazioni psicomotorie e cognitive connesso con l’età. Fra il 2010 e il 2011 la nostra Società tenne una serie di incontri di aggiornamento sui rapporti fra cibo e cervello, ai quali furono presentati, fra vari dati e nozioni, i risultati di studi sull’assorbimento in vivo e sulle possibilità sperimentalmente provate di queste sostanze di incidere sui processi patologici e sulla fisiologia dell’invecchiamento[1]. Un notevole ridimensionamento delle aspettative, soprattutto per gli effetti anti-cancro ed anti-età, emergeva dalla rassegna dei dati sperimentali, tuttavia rimaneva un margine per nutrire speranze sulle possibilità di rinforzo cognitivo esercitato da alcune classi di queste molecole.

A fronte del crescente scetticismo dei medici circa la reale efficacia preventiva dei flavonoidi in molte condizioni internistiche, si sono andati accumulando dati sperimentali a sostegno di un’evidente azione di miglioramento dell’efficacia dei processi cognitivi negli animali, tanto da giustificare una verifica neurobiologica degli effetti di flavonoidi assunti con la dieta nell’uomo.

Non potendo effettuare analisi, saggi e misure dirette come nella sperimentazione animale, negli studi condotti sulla nostra specie si può tentare di aggirare questa limitazione impiegando una nuova tecnica di osservazione ad alta risoluzione basata sulla fMRI, per studiare funzione e cambiamenti di una regione cerebrale sensibile agli effetti di queste molecole. In tal modo hanno proceduto Adam M. Brickman e colleghi, studiando gli effetti di diete ad alto e basso contenuto di cacao - contenente flavanoli - sul giro dentato dell’ippocampo di adulti anziani, dei quali veniva valutata contemporaneamente la prestazione cognitiva.

I risultati dello studio sono di notevole interesse (Brickman A. M., et al. Enhancing dentate gyrus function with dietary flavanols improves cognition in older adults. Nature Neuroscience – Epub ahead of print doi: 10.1038/nn.3850, 2014).

La provenienza degli autori è la seguente: Taub Institute for Research on Alzheimer’s Disease and Aging Brain, Department of Neurology, Center for Neural Science, Department of Psychiatry, Department of Radiology, Columbia University, New York, NY (USA); Center for Neural Science, New York University, New York (USA); MARS Inc., Mac Lean, Virginia (USA); New York State Psychiatric Institute, New York, NY (USA).

Il principio attivo della dieta ricca di cacao impiegata da Brickman e colleghi è costituito dai flavanoli, un gruppo di composti che rientrano nella classe dei flavonoidi. Senza entrare nel dettaglio della chimica di questi composti, vediamo qualche elemento essenziale per comprenderne il valore biologico.

I flavonoidi o bioflavonoidi[2] o vitamine P sono composti polifenolici metaboliti secondari delle piante[3], caratterizzati dalla frequente funzione pigmentaria (flavus = biondo, giallo)[4] e da una struttura chimica simile a quella dei flavoni. Sono agenti riducenti in grado di contribuire alla neutralizzazione dei radicali liberi, responsabili dell’avvio della catena di reazioni che porta al danno ossidativo. Attualmente sono classificati in flavonoidi (propriamente detti), isoflavonoidi e neoflavonoidi, e si includono fra questi dei composti polidrossi-polifenolici non chetonici detti flavanoidi[5]. In particolare, i flavoni sono considerati come una sottoclasse dei flavonoidi e distinti in 12 sotto-gruppi[6], fra i quali vi è quello cui appartengono i flavanoli contenuti nel cacao e costituenti la ragione della ipotizzata efficacia del cioccolato fondente[7] a supporto di cognizione e memoria.

Cogliendo l’occasione di questa recensione di un lavoro che indirettamente affronta il problema del declino cognitivo legato all’età e non sempre distinguibile dagli effetti di stress cronico, stati depressivi o fasi precoci di processi neurodegenerativi, si propone una sintesi di alcune fra le nozioni più significative emerse dalla ricerca condotta in questo campo.

I processi all’origine della riduzione delle prestazioni di memoria nella depressione, nei disturbi da stress e nell’invecchiamento fisiologico hanno numerosi punti di contatto ed almeno due importanti elementi comuni: 1) la riduzione di volume dell’ippocampo con ridotta funzione del giro dentato; 2) gli alti livelli di cortisolo.

Gli alti tassi di cortisolo[8] nelle sindromi da stress e in varie forme di disturbi depressivi sono ben noti, ma forse non tutti hanno presente l’aumento dei tassi di cortisolo che segue il climaterio maschile e femminile, e che in passato è stato interpretato come un fenomeno di compenso per la fisiologica riduzione degli ormoni steroidi sessuali. Fin dagli studi di Sapolsky[9], il nesso fra elevati livelli di cortisolo e riduzione volumetrica dell’ippocampo è stato interpretato come azione tossica, ma l’esatto meccanismo del danno non è stato ancora stabilito. Sono state proposte due ipotesi: secondo la prima gli elevati livelli di cortisolo possono danneggiare i neuroni maturi dell’ippocampo, rendendoli più vulnerabili all’eccitotossicità da glutammato; la seconda ipotesi ritiene invece che gli elevati livelli di cortisolo o altri aspetti connessi con lo stress cronico sopprimano il fisiologico processo di neurogenesi nel giro dentato dell’ippocampo, conducendo ad un numero di cellule minore con una conseguente riduzione di volume di tutta la struttura ippocampale.

In molti animali, come nella nostra specie, nuove cellule nervose dette granuli sono costantemente prodotte nella vita adulta all’interno di quella circonvoluzione ippocampale che prende il nome di giro dentato. Nei roditori questi nuovi neuroni sono rapidamente incorporati nei circuiti in attività. Esperienze stressanti o inducenti risposte avversive, così come gli alti livelli di glucocorticoidi, inibiscono la proliferazione dei precursori dei granuli sopprimendo, in tal modo, la quota fisiologica di cellule neoprodotte nell’ippocampo adulto. In contrasto gli antidepressivi, inclusi gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, incrementano il tasso di neurogenesi.

Su questa base si ritiene verosimile che la depressione e i disturbi cronici da stress possano causare atrofia dell’ippocampo inibendo la neurogenesi, e una parte dell’azione terapeutica degli antidepressivi potrebbe consistere nella loro dimostrata capacità di stimolare la neurogenesi[10].

Ricordiamo che, nell’insieme, le alterazioni funzionali che riguardano l’ipotalamo e l’ippocampo nella depressione da stress cronico, possono spiegare tutta la sintomatologia, incluse le ridotte prestazioni di memoria e cognitive in genere che, nell’età avanzata, si confondono con quelle della depressione involutiva e della senescenza fisiologica.

La secrezione ipotalamica di CRH, della massima importanza perché attraverso l’ACTH determina gli alti livelli di cortisolo potenzialmente tossici, è sotto il controllo eccitatorio di vie dell’amigdala ed inibitorio di vie dell’ippocampo. È noto, ad esempio, che nella percezione di stimoli che incutono paura, l’amigdala accresce la quantità di CRH rilasciato, direttamente e indirettamente attraverso l’ipotalamo. Ma ancora più interessante è il controllo inibitorio del CRH ipotalamico da parte dell’ippocampo. Infatti, ogni danno dell’ippocampo, da stress, depressione o processi dell’età involutiva, si può tradurre in una riduzione o perdita dell’inibizione ippocampale del CRH ipotalamico, determinando un circolo vizioso per l’aumento di cortisolo che peggiora l’atrofia dell’ippocampo.

I sintomi che rivelano ridotte prestazioni o piccoli ma costanti disturbi della memoria, possono essere causati da questa disfunzione ippocampale, da sola o in associazione con disturbi nella funzione esecutiva mediata dalla corteccia prefrontale, quali ad esempio un deficit di attenzione durante il processo di codifica mnemonica.

La possibilità di fornire un sostegno trofico per via alimentare all’ippocampo è oggi una prospettiva molto seducente, anche alla luce delle nuove conoscenze che stanno conferendo a questa formazione un’importanza sempre maggiore nella fisiologia cerebrale e nell’economia dei rapporti mente/corpo. L’evoluzione è stata progressiva negli ultimi decenni: dalla semplice qualità di sede delle lesioni in grado di provocare amnesia anterograda, cioè la capacità di formare nuove memorie (caso di H. M.), a sede di forme di epilessia focale, di quotidiana produzione di nuovi neuroni (neurogenesi dell’adulto), di processi associati all’elaborazione visiva, ecc.

Al di là degli elementi comuni con condizioni lesive, la senescenza dell’ippocampo ha una sua identità fisiologica particolarmente studiata al livello cellulare.

Durante l’invecchiamento cerebrale umano si verificano numerose alterazioni nei neuroni ippocampali. Una riduzione correlata all’età del volume e del numero delle cellule nervose, soprattutto nella regione CA1 e nel subiculum, è stata ampiamente documentata e confermata con assoluta precisione da tecniche di tipo sierologico. È interessante notare che studi di vecchia data condotti prima della scoperta della neurogenesi nel cervello adulto, avevano già accertato la riduzione del 15%, nell’ippocampo degli anziani, dei neuroni granulari, e i ricercatori avevano compreso che queste piccole cellule nervose costituiscono un eccellente modello di studio per le modificazioni legate all’invecchiamento. La ramificazione dendritica aumenta nelle persone di età compresa fra i 50 e i 70 anni e diminuisce nei “grandi vecchi” (età superiore ai 90 anni) e nella malattia di Alzheimer. Questa proliferazione è stata interpretata come una risposta di compensazione alla perdita di neuroni; risposta che fallisce nella neurodegenerazione alzheimeriana e nell’età estrema della vita. La lunghezza dei dendriti rimane in CA1 pressoché costante nell’invecchiamento fisiologico, mentre si riduce nella malattia di Alzheimer. In CA1 il compenso assonico è molto evidente.

Nelle regioni limitrofe, CA3 e CA2, l’estensione dei dendriti non presenta cambiamenti apprezzabili con l’invecchiamento, sebbene dai 50 ai 90 anni, ogni 10 anni si abbia una perdita di neuroni pari al 5,4%. Tale scomparsa di cellule nervose può causare gliosi, con notevole proliferazione astrocitaria.

La vulnerabilità dei neuroni ippocampali ad ipossia, ipoglicemia e danno eccitotossico, associata all’elevata espressione di recettori per gli ormoni corticosteroidi (cortisolo) può determinare danni anche per stati patologici temporanei e clinicamente irrilevanti; danni che si possono sommare nel tempo[11].

Il giro dentato è una struttura della formazione ippocampale la cui funzione, nella nostra specie, declina parallelamente all’invecchiamento, ed è perciò considerato un’importante sede dei fenomeni responsabili delle ridotte prestazioni di memoria e apprendimento che caratterizzano la senescenza. Mancano ancora le prove di un rapporto causale diretto, per questo Brickman e colleghi hanno inteso, con il loro studio basato su un ipotetico rinforzo della funzione del giro dentato, verificare proprio l’esistenza di questo nesso.

Il primo passo dello studio si è avvalso di una variante ad alta risoluzione della fMRI, per realizzare una precisa mappa dei siti del giro dentato all’interno dei quali si verificano le modificazioni connesse con la disfunzione legata all’età. Il secondo passo è consistito nello sviluppo di compiti sperimentali la cui soluzione richiedesse un’attività cerebrale co-localizzata con i siti individuati mediante la realizzazione della mappa del giro dentato.

A questo punto è stata organizzata una tipica sessione di studio controllato con assegnazione casuale (controlled random trial) in cui la tecnica di neuroimaging ad alta risoluzione e il compito sperimentale che impegna i siti sensibili del giro dentato sono stati impiegati su adulti di età compresa fra i 50 e i 69 anni. I volontari sono stati divisi in due gruppi rispetto alla dieta osservata per 3 mesi: il primo ha assunto alti livelli di flavanoli con il cioccolato; il secondo bassi livelli.

Il risultato non ha lasciato adito a dubbi, risultando molto netto: gli alti livelli di flavanoli hanno determinato allo stesso tempo una maggiore attività del giro dentato ed un miglioramento nel compito cognitivo; al contrario i bassi livelli non si sono mostrati in grado di produrre questi effetti.

Secondo quanto emerso da questo studio, la disfunzione del giro dentato può considerarsi un driver del declino cognitivo legato all’età, e un agente non farmacologico che non presenta controindicazioni a queste dosi sembra straordinariamente efficace. Possiamo solo augurarci che altri studi confermino questi confortanti risultati.

 

Gli autori della nota ringraziano il dottor Lorenzo Borgia per la cooperazione nella stesura del testo e invitano alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Diane Richmond & Giovanni Rossi

BM&L-15 novembre 2014

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Nel presente testo si è attinto alla sezione dedicata ai flavonoidi di una relazione non pubblicata, tenuta dal nostro presidente giovedì 10 febbraio 2011, dal titolo: “Cibo e cervello: realtà e miti”. I flavonoidi hanno proprietà antiossidanti: le reazioni di ossidazione possono produrre radicali liberi responsabili dell’avvio di reazioni a catena che danneggiano la cellula. Gli antiossidanti intervengono sui prodotti intermedi ossidando se stessi ed impedendo così il prosieguo della catena ossidativa tossica. I flavonoidi in vitro hanno mostrato un potere antiossidante superiore a vitamina C ed E, ma tali concentrazioni sperimentali non sembrano essere possibili in vivo.

[2] Per sottolineare la loro qualità di composti naturali, i flavonoidi sono anche definiti bioflavonoidi, termine adoperato spesso dai nutrizionisti.

[3] Sono principalmente idrosolubili, presenti nella pianta come glicosidi e, nella stessa pianta, si può avere un aglicone in combinazione con glicidi diversi. Sono stati identificati più di 4000 glicosidi dei flavonoidi e più di 1800 agliconi appartenenti a questa classe.

[4] I flavonoidi sono una delle classi di composti più caratteristiche delle piante superiori, costituendo i pigmenti fiorali della maggior parte delle angiosperme, ma danno colore anche ai frutti e alle foglie. Il colore dipende dal pH: il blu si forma per chelazione con ioni metallici quali quelli di ferro e alluminio; le antocianine conferiscono il colore rosso, blu e violetto a frutti e fiori.

[5] Sono anche detti flavan-3-oli o catechine, anche se le catechine devono considerarsi chimicamente come un sotto-gruppo dei flavanoidi. Le tre classi principali di flavonoidi contengono gruppi chetonici, mentre i flavanoidi non ne contengono.

[6] Antocianine (conferiscono i colori rosso, blu e violetto a fiori e frutta), Auroni, Calconi, Diidrocalconi, Flavani, Flavan-3-oli, Flavan-4-oli, Flavan-3-4-dioli, Flavanoni, Flavanoli, Flavoroli, Peltoginoidi.

[7] Il 30% di cacao contenuto nel cioccolato al latte ha una proporzione già bassa di flavanoli, ma la quota che potrebbe raggiungere il cervello è pari allo zero, perché la mescolanza con il latte preclude l’assorbimento dei polifenoli. Il cioccolato fondente deve il suo gusto amaro a questi composti che, talvolta, le case produttrici colpevolmente inattivano a fini commerciali, per rendere più gradevole il prodotto (Cfr. in G. Perrella, op. cit., The devil in the dark chocolate. The Lancet 370: 2070, Dec. 2007).

[8] Il cortisolo della nostra specie, come è noto, ha il suo equivalente in vari corticosteroidi (glucocorticoidi) negli animali da esperimento, in particolare nei roditori. In realtà, studi recenti hanno evidenziato nell’invecchiamento e nella risposta allo stress l’aumentata espressione del recettore per i glucocorticoidi nelle cellule ippocampali e, probabilmente, in molti casi questo meccanismo ha un’importanza maggiore dell’aumento dei livelli di cortisolo.

[9] Sapolsky et al. Glucocorticoids toxicity in the hippocampus: In vitro demonstration. Brain Research 453, 367-371, 1998; Sapolsky et al. Hippocampal damage associated with prolonged exposure to glucocorticoids in primates. Journal of Neuroscience 10, 2897-2902, 1990.

[10] Cfr. Steven E. Hyman & Jonathan D. Cohen, Disorders of Mood and Anxiety, cap. 63, pp. 1402-1024, in “Principles of Neural Sciences” (Kandel, et al., editors), McGraw Hill, 2013. L’ipotesi, avanzata da tempo dal nostro presidente, è stata menzionata nella sua intervista del 2003 consultabile su questo sito. I meccanismi non sono ancora stati definiti, anche se vari studi hanno identificato diversi mediatori molecolari come candidati.

[11] Per ulteriori dati, inclusi quelli di neurobiologia molecolare dell’invecchiamento, si rimanda a trattazioni specialistiche aggiornate e alle rassegne più recenti.