La soppressione come meccanismo di attenzione selettiva
GIOVANNI ROSSI
NOTE
E NOTIZIE - Anno XII – 01 novembre 2014.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli
oggetti di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo:
DISCUSSIONE/AGGIORNAMENTO]
Non si percepisce il fascino dello studio dell’attenzione se la si considera come una facoltà cognitiva ancillare, separata per necessità di metodo neuropsicologico e cognitivo da percezione, memoria, linguaggio e pensiero. Se invece la si considera nella realtà dei fenomeni psichici normali e patologici che ci è dato osservare, immediatamente riacquista il suo valore di dimensione fondamentale dell’agire mentale.
Pensiamo ai fenomeni e ai disturbi dell’attenzione che si verificano in corso di delirio, nella produzione comunicativa dell’eccitazione maniacale e della depressione profonda, e troveremo interessanti collegamenti col regime mentale e con la forma ideativa nel suo complesso. I rapporti fra l’attenzione e le altre funzioni cerebrali sono veramente interessanti in tesi generale per le neuroscienze, ma meritano di essere indagati ed approfonditi anche per necessità cliniche e fini di alto valore etico. Si pensi alla possibilità di migliorare l’intervento terapeutico sui bambini affetti da disturbo dell’attenzione con iperattività, prevenendo le sempre trascurate sequele; si pensi alla possibilità di trattare i disturbi dell’attenzione che si accompagnano ai numerosi deficit cognitivi dell’età evolutiva, da quelli dovuti a sindromi genetiche e citogenetiche, a quelli dovuti ad encefalopatie di varia origine; si pensi, infine, ad un più efficace intervento sui disturbi dell’attenzione di adulti, anziani e traumatizzati cranici[1].
La specializzazione settoriale ha di fatto creato esperti dell’attenzione, inizialmente nel campo della neuropsicologia sperimentale, clinica e riabilitativa, ed oggi quasi esclusivamente in quello delle scienze cognitive. Prima di discutere i risultati ottenuti di recente da due ricercatori dell’area delle neuroscienze cognitive, vorrei brevemente soffermarmi sull’esperienza dell’attenzione durante gli stati deliranti che, da sempre, mi ha suggerito l’opportunità di condurre studi interdisciplinari o, almeno, di collaborazione fra psichiatri e neuropsicologi.
In molti casi, in particolare negli stati di eccitazione, si nota che la persona in preda ad una produzione delirante appare attenta e concentrata, risultando efficiente nella sua prestazione cognitiva qualitativamente alterata. Durante il delirio, la scansione della realtà circostante e, in particolare, di ciò che accade e ciò che viene detto, è operata in perfetta coerenza con l’ottica e la logica dei processi che ispirano l’ideazione patologica. A volte, è facile notare che il delirante è selettivamente attento a percepire particolari tracce visive ed acustiche, come gesti o parole, che si prestano ad alimentare le tesi deliranti, ignorando aspetti molto evidenti e poco equivocabili dell’esperienza del momento. L’attenzione, in condizioni normali, acuisce la percezione, rendendola più efficiente; nel delirante, l’attenzione può facilitare l’errore percettivo, ovvero, invece di accrescere l’efficienza del rilievo, aumenta la probabilità di adeguare quanto percepito a ciò che la persona desidera o lo stato del suo sistema psichico “ha bisogno” di percepire.
Ad esempio, uno psicotico, nel pieno di un delirio in cui sosteneva che io stessi pagando dei militari perché lo deportassero e lo giustiziassero, credé di aver avuto la prova lampante e inconfutabile di quanto affermava, vedendomi dare qualche spicciolo a un ragazzo che mi aveva chiesto delle monete per telefonare da un telefono pubblico. Prese ad aggredirmi verbalmente, facendo sfoggio di efficienza percettiva e mnemonica, e rivendicando il possesso di un acume intellettivo che non avrebbe consentito ad alcuno di ingannarlo. Concluse: “Ti ho visto, stavi pagando un militare!”. Feci per rispondere: “Ho solo dato i soldi per una telefonata”, ma mi interruppe sulle parole “solo dato”, urlando con veemenza: “Hai detto «soldato»: ti sei tradito! L’ho sentito con le mie orecchie, non puoi più negare!”. E così di seguito.
Aveva sentito ciò che voleva sentire, e l’aumento di attenzione aveva reso più efficace il processo automatico di manipolazione discorsiva della percezione, invece di migliorare la fedeltà del rilievo oggettivo.
Un’introduzione al significato del termine attenzione, agli studi pionieristici di neuropsicologia e alla moderna ricerca neurocognitiva, è stata fornita in passato in vari nostri incontri, e un aspetto particolare è stato trattato in una serie di note del 2012[2], qui vorrei solo ricordare che il minimo comun denominatore delle definizioni tecniche del termine è costituito dal significato di focalizzazione di processi mentali. In pratica, nelle neuroscienze cognitive, si considerano due tipologie principali di funzioni o due profili funzionali distinti, cui si attribuisce ugualmente il nome di attenzione: 1) la focalizzazione su un compito con l’esclusione di altri (concentrazione); 2) la focalizzazione su una specifica fonte di impulsi sensoriali con l’esclusione delle altre (attenzione selettiva o selezione).
1) Focalizzazione su un compito (concentrazione). Un buon esempio è il “Compito di Stroop”: una prova in cui si deve eseguire una richiesta relativamente poco praticata, come denominare un colore, mentre si inibisce un’attività estremamente esercitata, come leggere una parola. In pratica: si vede un dischetto giallo, sotto il quale è scritta la parola “ROSSO”, e alla richiesta di denominare il colore, se si è attenti, si risponde: “Giallo”.
2) Focalizzazione su una specifica fonte di impulsi sensoriali (selezione). Tipico esempio è la prova di ricerca visiva in cui un oggetto che costituisce l’obiettivo deve essere riconosciuto fra elementi simili ed elementi che distraggono. In pratica, in una serie di gettoni di colore verde scuro si deve riconoscere quello verde chiaro, senza farsi distrarre da gettoni gialli.
Questo secondo tipo di attenzione è attualmente oggetto del maggior numero di studi e, sebbene l’attenzione selettiva giochi un ruolo importante in varie modalità sensoriali, la stragrande maggioranza dei lavori eseguiti e dei progetti di ricerca in corso, riguarda la percezione visiva, soprattutto perché abbiamo una dettagliata conoscenza dell’anatomia e della fisiologia del sistema visivo, ma anche perché i suoi rapporti con la cognizione sono più analitici e definiti.
Nella ricerca sull’attenzione si può operare una distinzione fondamentale fra gli studi che indagano i processi di controllo dell’attenzione e quelli che analizzano l’attuazione dei meccanismi attentivi. Per una visione complessiva dell’argomento, sia in termini teorici sia di rassegna dei principali risultati sperimentali, si consiglia l’ottima introduzione di Anne Treisman dell’Università di Princeton[3].
Tanto premesso, consideriamo il dato di attualità di un lavoro che ha indagato con successo il meccanismo che consente all’attenzione selettiva di facilitare la specifica rilevazione dell’obiettivo prescelto. John Gaspar e John McDonald, neuroscienziati cognitivi della Fraser University nella British Columbia, hanno studiato la capacità di focalizzazione che usa la vista come uno scandaglio per trovare qualcosa, in 48 studenti di college. Questa abilità, di cui facciamo uso quando, ad esempio, cerchiamo un articolo o un autore in lunghe liste di titoli ricche di elementi di distrazione, è stata studiata ponendola in relazione con la sua base elettrofunzionale. Gli autori, infatti, monitorando l’attività elettrica cerebrale rispetto ai parametri cognitivi più significativi, hanno sottoposto gli studenti ad un compito consistente nel rilevare rapidamente un dischetto giallo fra numerosi dischetti verdi, senza farsi distrarre da un dischetto rosso in grado di attrarre notevolmente l’attenzione. Registrando ed analizzando i patterns elettrici cerebrali, Gaspar e McDonald hanno documentato direttamente, per la prima volta, il fenomeno ipotizzato della soppressione.
Si è infatti rilevato che la risposta potenziale a tutti gli altri dischetti, diversi da quello costituente l’obiettivo già presente alla mente come scopo del compito, risultava inibita. La soppressione concepita dai neuroscienziati come processo elementare in molte funzioni psichiche, a conoscenza di chi scrive, non era mai stata dimostrata come meccanismo a supporto dell’attenzione.
Al termine di questa esposizione ci sia consentita una riflessione applicativa o, se si vuole, un tantino speculativa di quanto accertato studiando un compito cognitivo elementare.
Ad un livello più complesso, ossia quello delle categorie concettuali del discorso e del giudizio sul pensiero altrui, si potrebbe applicare quanto emerso da questo studio in chiave psicopatologica, ipotizzando un meccanismo di soppressione a supporto dell’inferenza delirante, in casi come quello descritto nella parte iniziale. Infatti il delirante, oltre ad avere nella mente un proprio senso precostituito che ha escluso possibilità alternative ed è impenetrabile al ragionamento, tende ad applicare, spesso con urgenza e forza rivendicativa, il suo schema soggettivo all’interpretazione di quanto ascolta o legge, sopprimendo quanto non vi si conforma e, spesso, impedendo in ogni modo ad un contraddittore di esprimersi.
Mi chiedo, allora, allo stato attuale delle conoscenze è ancora presto per indagare le basi neurocognitive dei meccanismi di negazione e diniego psicotico che proteggono il delirio?
L’autore della nota ringrazia la
dottoressa Isabella Floriani per la collaborazione nella stesura del testo e
invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella
sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina
“CERCA”).
[1] I disturbi dell’attenzione e della concentrazione possono manifestarsi in varie encefalopatie, come già si leggeva nella Psichiatria organica di Lishman (1978) e nel capitolo di Griffith del manuale di riabilitazione di Rosenthal del 1984. Il comportamento patologicamente iperattivo dei bambini cerebrolesi, già descritto dal Kolb nel 1977; le difficoltà di apprendimento e i deficit della memoria a breve termine degli adulti traumatizzati cranici esaminati per la prima volta sistematicamente da Filskov e Thomas nel Manuale di neuropsicologia clinica (1981); la memoria instabile e confusa dell’anziano, sono tutti fenomeni che si associano in maniera più o meno marcata e più o meno evidente a un disturbo dell’attenzione. Nei tre decenni successivi a questa “presa di coscienza” vi è stato un progresso nell’avvicinare la ricerca sull’attenzione al trattamento (Programmi Gianutsos: 1981-anni ’90) ma anche molti passi indietro.
[2] “Note e Notizie, dal 19-05-12 al 2-06-12 Compiti simultanei rivelano caratteristiche della cognizione e del cervello umano”. La nostra scuola distingue fra attenzione selettiva esterna o attenzione scopica, mediante la quale facciamo scansioni o ricognizioni in un ambiente anche di vaste proporzioni ed occupato ad esempio da vari gruppi di persone, scegliendo a quali di questi rivolgere la percezione; ed attenzione selettiva interna o concentrazione, in riferimento al processo che rivolge e circoscrive in forma esclusiva le risorse cognitive intenzionali ad un ambito o soggetto presente alla coscienza dichiarativa. È stata anche proposta un’ulteriore distinzione fra attenzione selettiva interna e concentrazione: nella concentrazione vi sarebbe un innalzamento della soglia per la percezione degli stimoli esterni ancora maggiore. D’altra parte, almeno concettualmente, la concentrazione sia pure prevalentemente intrapsichica può avere il suo oggetto all’esterno, come nel caso di un atleta di uno sport di squadra che si concentra sul ruolo che deve svolgere, seguendo le azioni di gioco, anche a grande distanza, e decidendo man mano se e come intervenire.
[3] Anne Treisman, Attention: Theoretical and Psychological Perspectives [in M. S.
Gazzaniga (editor-in-chief) The Cognitive Neurosciences, pp.
189-204, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts 2009].