In che modo la curiosità migliora apprendimento e memoria
NICOLE CARDON
NOTE
E NOTIZIE - Anno XII – 11 ottobre 2014.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli
oggetti di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
La curiosità, intesa come il desiderio di sapere, rimane il più grande motore della scienza. È interessante notare che, quando il termine curiosity compare nella lingua inglese, nel XIV secolo, in Europa si andavano affermando correnti di pensiero che, non separando la cultura scientifica da quella umanistica, ponevano il desiderio di conoscenza al centro di un processo che avrebbe portato all’Umanesimo e al Rinascimento. “Il mondo antico esprimeva nel termine latino indicante la curiosità, curiositas, l’emozione e l’affetto di chi desidera intensamente conoscere; infatti, curiosus viene da cura che vuol dire affanno, ed indicava colui che aveva una bramosia di sapere che andava oltre un semplice ed occasionale interrogarsi su una questione”[1].
La cultura scientifica americana ha tradizionalmente avuto nel concetto di curiosity, inteso in un senso molto prossimo a quello etimologico latino, un implicito riferimento ad uno stato funzionale della psiche umana ed animale, che i neurofisiologi battezzarono motivation. Del concetto di “motivazione” oggi non si può più fare a meno in psicologia, ma spesso si dimentica che la prima forma spontanea di questo stato ad essere riconosciuta è quella legata alla curiosità.
È nozione comune che la curiosità facilita l’apprendimento e, per tale ragione, lo stimolo volto a suscitare curiosità si adopera nella didattica, come in alcuni metodi cognitivi per il training della memoria e per il trattamento dei suoi deficit. Ad esempio, il metodo chiamato PQRST (acronimo di preview, question, read, state and test) comincia con una presentazione (preview) del materiale da apprendere, durante la quale si cerca di suscitare interesse e curiosità per l’argomento che sarà successivamente oggetto di lettura e apprendimento.
È anche nota l’importanza della curiosità quale indice di salute mentale, perché la sua perdita spesso precede gli stati di apatia ed indifferenza tipici dei disturbi depressivi, oppure indica un turbamento ansioso, uno squilibrio emotivo o una qualsiasi altra condizione di risposta allo stress. Tali condizioni interferiscono con l’equilibrio che genera quella serenità necessaria all’emergere di una “sana curiosità” per i più vari aspetti della cultura e della vita.
Eppure, non si sa quasi nulla sulle basi neurobiologiche della curiosità, in particolare sui meccanismi mediante i quali gli stati motivazionali intrinseci agiscono sull’apprendimento. Per cercare di definire vie e nuclei del sistema nervoso centrale implicati in questi processi fisiologici, Matthias J. Gruber, con Bernard D. Gelman e Charan Ranganath dell’Università della California a Davis, hanno condotto un interessante studio sull’uomo, che sarà pubblicato su Neuron.
Il lavoro ha
fornito elementi nuovi e molto significativi, che con ogni probabilità
costituiranno una traccia per ulteriori indagini (Murakami M., et al. States of Curiosity Modulate Hippocampus-Dependent Learning via the
Dopaminergic Circuit. Neuron – Epub
ahead of print doi.org/10.1016/j.neuron.2014.08.060, 2014).
La provenienza degli autori è la
seguente: Center for Neuroscience, University of California at Davis, Davis,
California (USA); Department of Psychology, University of California at Davis,
Davis, California (USA).
Nella tradizione accademica della psicologia americana, la curiosità era intesa secondo due definizioni principali: 1) Tendenza ad indagare tutto ciò che si osservi; 2) Tendenza a voler conoscere ogni cosa[2]. Pertanto, la definizione operativa attuale di curiosità quale motivazione intrinseca all’apprendimento, può ritenersi una brillante sintesi descrittiva del fenomeno psichico principale connesso con l’atteggiamento di chi è curioso; una tale sintesi concettuale si può considerare appartenente all’area semantica della seconda delle due definizioni accademiche o classiche.
Per maggior chiarezza, visto che il termine, dopo l’epoca di uso quasi esclusivo da parte dei neurofisiologi è entrato nel gergo di molte discipline psicologiche e nel linguaggio comune, consideriamo anche la definizione accademica di motivazione: “Termine generico per indicare il fatto che gli atti dell’individuo sono in parte determinati dalla sua propria natura o struttura interna”[3]. Attualmente, invece, in ambito neuroscientifico si intende per motivazione: “Un particolare stato neurofunzionale che attiva e sostiene i processi psichici e fisici necessari a perseguire un determinato scopo”[4].
Gruber e i suoi due colleghi, pensando a quanto accade nella vita di tutti i giorni, cioè che l’apprendimento o la semplice ritenzione mnemonica di nozioni e fatti che si verificano o ci riguardano direttamente può spesso beneficiare di una motivazione generata da curiosità, hanno cercato di riprodurne i tratti salienti in condizioni sperimentali. A tal fine hanno adottato due strategie: 1) hanno impiegato materiale che incuriosiva i volontari che dovevano conoscerlo e memorizzarlo; 2) hanno indotto stati di elevata curiosità.
Il fine principale dello studio consisteva nell’esplorare mediante risonanza magnetica funzionale (fMRI, da functional magnetic resonance imaging) come la curiosità, intesa quale motivazione intrinseca all’apprendimento, avrebbe influenzato la memoria.
Sono stati impiegati test di memoria a rievocazione immediata e con rievocazione a distanza di un giorno; in entrambi i tipi di compito i volontari partecipanti all’esperimento hanno mostrato una migliore memoria per le informazioni di cui erano curiosi. Prestazioni mnemoniche superiori all’ordinario si sono avute anche per il materiale “incidentale”, appreso durante gli stati di elevata curiosità indotti dai ricercatori.
Le immagini tomografiche ottenute mediante risonanza magnetica funzionale hanno fornito un preciso correlato neurofunzionale: durante gli stati di elevata curiosità si determinava un netto ed evidente incremento dell’attività neuronica nel mesencefalo e nel nucleo accumbens.
Un aspetto di interesse ancora maggiore è emerso dalle prove di memorizzazione di materiale “incidentale”. In questi casi, la variabilità individuale nei benefici per la memoria indotti dalla curiosità, era supportata dall’attività anticipatoria nel mesencefalo e nell’ippocampo e dalla connettività funzionale fra queste due regioni.
Nel complesso, i risultati di questo studio, per i cui dettagli si raccomanda la lettura del testo integrale del lavoro originale, suggeriscono l’esistenza di un legame neurofunzionale fra i meccanismi che supportano la motivazione per una ricompensa estrinseca, e quelli che intervengono nella mediazione della curiosità quale stato motivazionale intrinseco.
Infine, l’evidenza dei correlati neurofunzionali è tale da costituire un elemento di grande evidenza a supporto dell’importanza di stimolare la curiosità per accrescere, soprattutto nelle occasioni didattiche e terapeutiche, l’efficacia delle esperienze di apprendimento.
L’autrice della nota ringrazia la
dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura
delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E
NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
[1] Monica Lanfredini, La curiosità scientifica e la volontà di sapere, p. 1, BM&L, Firenze 2003.
[2] Cfr. Gardner Murphy, An Introduction to Psychology. Harper & Brothers, New York 1951; Ed. It.: Gardner Murphy, Sommario di Psicologia, p. 684 (glossario) e p. 98, Paolo Boringhieri, Torino 1957.
[3] Gardner Murphy, op. cit. (Ed. It.), p. 694 (glossario).
[4] Giuseppe Perrella, Appunti di Neurofisiologia, p. 76, BM&L, Firenze 2004. Questa definizione spiega l’influenza della motivazione sull’ideazione, sulla propensione ad agire, sullo stato umorale, così come sulle risorse psiconeuromotorie. Un’intensa motivazione si accompagna all’attivazione di sistemi che rilasciano ossitocina, aumentando la fiducia e l’ottimismo, e di sistemi neuronici che rilasciano endorfine, riducendo la fatica e la percezione del dolore.