Le basi cerebrali delle abitudini

 

 

LORENZO L. BORGIA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XII – 11 ottobre 2014.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

 

(Quinta ed Ultima Parte)

 

Una questione da approfondire è costituita dal ruolo della corteccia infralimbica e, più in generale, dal potere della neocorteccia sui processi che consentono il formarsi degli automatismi che chiamiamo abitudine.

Se riflettiamo sugli esperimenti che sono stati condotti e sulle evidenze relative al funzionamento dello striato e della corteccia, è lecito nutrire qualche dubbio sulle interpretazioni proposte man mano dai ricercatori. Ad esempio, siamo sicuri che la formazione di un’abitudine dipenda solo dalle ripetute interazioni fra corteccia senso-motoria e striato con l’influenza del mesencefalo? Siamo certi che la corteccia infralimbica, come abbiamo indicato nello schema riassuntivo delle tre fasi, intervenga dopo che l’abitudine si sia formata per un eventuale consolidamento in attività cerebrale semipermanente?

Una risposta negativa, che apre interessanti prospettive sulle basi e sull’efficacia del controllo volontario anche nei roditori, viene da nuovi esperimenti, anche questi condotti presso il MIT, come quelli che avevano suggerito, per la corteccia infralimbica, la metafora della persona saggia che aspetta gli eventi prima di agire.

I ratti sono stati addestrati abbastanza da poter raggiungere la parte giusta del labirinto a “T”, ma non tanto da determinare il formarsi di un’abitudine. A questo punto, i ricercatori hanno proseguito l’addestramento, ma ad ogni corsa inibivano la corteccia infralimbica dei ratti mediante la tecnica optogenetica. I roditori continuavano ad eseguire correttamente ed efficientemente il compito, ma l’abitudine non si formava mai. Anche dopo l’esecuzione del programma completo di superapprendimento, che richiede molti giorni e termina invariabilmente nella formazione di una memoria comportamentale permanente, non si produceva abitudine. Il risultato è apparso ancora più evidente nel contrasto con il gruppo di roditori di controllo che, sottoposto allo stesso regime ma senza l’inibizione optogenetica della corteccia infralimbica, formava normalmente l’abitudine e la consolidava come memoria permanente.

Questi esperimenti sembrano definire un profilo funzionale per la corteccia infralimbica, che va ben oltre il controllo in tempo reale dell’espressione di un’abitudine: senza l’intervento di questa parte della neocorteccia, infatti, l’abitudine non può formarsi.

 

Considerazioni conclusive. Cominciando le considerazioni conclusive proprio da questi esiti sperimentali che dimostrano l’importanza della corteccia cerebrale nella modulazione e nella stessa formazione delle routines, possiamo affermare che, sebbene l’abitudine sia una delle principali forze che influenzano il comportamento, “non può considerarsi un’inevitabile conseguenza della ripetizione ed un incoercibile automatismo che sfugge al controllo della volontà”[1].

In particolare, possiamo osservare che, se in mammiferi quali i roditori il monitoraggio corticale garantisce che l’intervento di un processo decisionale sviluppato ad un livello superiore di un automatismo meso-striatale sia sempre possibile, indubbiamente nella nostra specie vi sono basi neurali sufficienti per affrancarsi dalla schiavitù dell’abitudine, soprattutto quando indesiderata o dannosa.

L’enorme potere della mente umana, come è noto, è posto in relazione evoluzionistica con lo straordinario sviluppo delle regioni dell’encefalo ritenute filogeneticamente più recenti e, in particolare, di quelle appartenenti alla corteccia cerebrale (neocorteccia). Sebbene gli studi più recenti abbiano portato ad un superamento dello schematismo di neo- paleo- e archi-corteccia, rimane il fatto che lo sviluppo della nostra corteccia cerebrale costituisce l’evento più rapido che si conosca in biologia evoluzionistica. Le strumentalità cognitive e la maggior parte delle abilità psichiche che sono in rapporto con coscienza, intenzione e volontà, sono state messe in relazione con la corteccia cerebrale e, in particolare, con la corteccia prefrontale, che nell’uomo, rispetto agli altri primati, è molto più estesa ed enormemente più complessa per reti cerebrali, popolazioni neuroniche e sinapsi.

Su questa base, il dominio dell’abitudine con risorse mentali assicurate dai circuiti corticali ed appartenenti al novero delle proprietà psichiche riportabili al concetto di volontà, dovrebbe essere facile per la nostra specie, sennonché l’esercizio della volizione è un’opzione libera che, se non esercitata, nonostante l’enorme potenzialità, non produce effetto.

La volontà, che ha storicamente rappresentato una sfida per la filosofia, ha creato molti problemi di definizione anche alla psicologia[2] che, nella tradizione delle migliori scuole, l’ha considerata una regolazione del comportamento per mezzo di simboli interni, evitando di precisarne la natura. In termini neuroscientifici il problema è ancora più grande, perché si dovrebbero definire le basi neurali di qualcosa che ancora non trova accordo nella delimitazione del concetto che la esprime, rimanendo “volontà” un termine di intesa che fa riferimento all’esperienza che ciascuno di noi ha del deliberato rivolgere la mente o agire secondo le proprie intenzioni. Tuttavia, che la forza di volontà esiste e che il suo impiego può consentirci di ottenere risultati e raggiungere traguardi insperati, è esperienza comune. E proprio questa forza dovremmo imparare ad usare per vincere le cattive abitudini e istaurarne di nuove.

Se, come abbiamo accennato prima, non riteniamo che tutti i comportamenti ripetitivi possano essere considerati abitudini e possano essere ricondotti, in tutto e per tutto, alla stessa base neurale, è ragionevole ipotizzare che ciascun tipo di routine indesiderata richieda un approccio diverso. Anche su questo punto non condividiamo la tesi di Ann Graybiel e Kyle Smith che, citando Mark Twain, propongono un unico metodo per tutti i casi, dai rituali ossessivi alla compulsione del tossicodipendente: il procedere un passo alla volta[3].

Riteniamo, invece, che vi siano comportamenti rinforzati come abitudini che vadano analizzati e smontati, pezzo per pezzo, magari con un supporto per la propria volontà di continuare ad agire nel tempo; comportamenti che hanno attivato i circuiti della VTA e sono associati ad effetti tossici esercitati da una sostanza psicotropa di abuso, che richiedono una decisa interruzione associata ad un massiccio intervento sostitutivo e diversivo; comportamenti che sono talmente fusi e collegati con le dinamiche psichiche e le funzioni su cui si basa l’adattamento alla realtà, che richiedono uno studio paziente perché si possa trovare il modo più idoneo per intervenire. In conclusione, come abbiamo imparato al “Seminario sull’Arte del Vivere”, le strategie sono numerose e varie, ma tutte hanno nella volontà del soggetto il loro punto di partenza e di arrivo.

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-11 ottobre 2014

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] G. Perrella, op. cit., p. 4.

[2] Il padre della psicologia americana, William James, tentò di definirla in funzione del conflitto, esemplificandola nell’atto decisionale di scelta fra due esigenze contrastanti: “Ci sentiamo, nel decidere, come se noi stessi col nostro atto intenzionale facessimo pendere la bilancia” (Cfr. W. James, The Principles of Psychology, Holt, New York 1890).

[3] Cfr. Graybiel A. M. & Kyle S. Smith, Good habits, bad habits, p. 27, Scientific American 310 (6): 23-27, 2014.