Sfatata una tesi sul dimorfismo sessuale dei volti umani

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XII – 04 ottobre 2014.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La tesi antropologica, secondo cui la preferenza per i volti umani con tratti marcati di tipicità sessuale abbia una lunga storia evolutiva di selezione legata al sesso e all’ambiente sociale, è così estesamente accettata da costituire, per una vasta mole di pubblicazioni scientifiche, un riferimento certo, al pari di un dato sperimentale. Secondo questo assunto, fatti di frequente riscontro, ossia che quanto più è femminile l’aspetto di una donna tanto più risulta attraente per un uomo o che la mascolinità dei tratti di un uomo rifletta aggressività, sarebbero il portato di processi che hanno a lungo operato nelle popolazioni umane ancestrali, giungendo ad affermare questi criteri di giudizio attraverso una dinamica darwiniana che, dopo una fase di selezione naturale, sarebbe proseguita in ambito sociale.

Sono sufficienti le nozioni di scienze naturali e biologia evoluzionistica delle scuole medie superiori, per apprezzare la ragionevolezza di una tesi che applica al genere umano quanto è stato dimostrato in varie specie animali e, soprattutto, nei primati a noi più vicini, ovvero che i caratteri sessuali secondari e i tratti a questi collegati che maggiormente esprimono capacità riproduttiva e forza vitale, abbiano selezionato criteri di giudizio conformi alla sopravvivenza del più adatto. Tuttavia, è ragionevole anche esprimere qualche riserva circa una supposta irrilevanza di quella parte dell’elaborazione culturale che ha attribuito importanza a valori etici ed estetici lontani dagli istinti sessuali. Non sono poche le donne attratte da uomini che ricordano personaggi carismatici in ambito spirituale, culturale o politico, così come gli uomini attratti da donne che ricordano madonne rinascimentali o presentano il fascino di un ruolo professionale di successo.

D’altra parte, sarebbe superficiale e ingenuo, trascurare l’influenza che ha avuto nelle società del cosiddetto “mondo occidentale” il pensiero giudaico-cristiano che, nel corso dei secoli, ha promosso un modello di persona e di coppia rivolto alla spiritualità, in grado di dominare con la volontà e la preghiera gli istinti sessuali, ricondotti a mezzi per il fine procreativo[1].

In proposito notava Monica Lanfredini: “L’aspetto fotografato dalle indagini sociologiche e dalle immagini dei media delle società contemporanee non sembra restituirci figure di castità e modelli spirituali quali diffuse e prevalenti manifestazioni dell’identità collettiva, ma, sebbene i corpi tatuati e trafitti da piercing siano sempre più oggetti asserviti ad intenzioni neopagane, gli effetti della cultura cristiana intesa anche come pedagogia dei sentimenti ed educazione degli istinti per fini più elevati del piacere del singolo, continuano ad incidere sulle coscienze di minoranze spesso occulte, ma non sempre silenziose[2]”.

In altri termini, una visione non banalmente erotica dei rapporti umani avrebbe superato la “selezione sociale” ed esisterebbe, sia pure in forma minoritaria, nelle nostre società, verosimilmente influenzando i criteri di giudizio ed il “sistema delle preferenze”.

Isabel M. Scott, con Ian S. Penton-Voak e numerosi colleghi provenienti da sedici diversi istituti scientifici, hanno provato a verificare se la preferenza per tratti sessuali più marcati del viso abbia realmente una lunga storia evolutiva di selezione sessuale e sociale. I ricercatori hanno osservato che, se questo assunto è corretto, la preferenza dovrebbe essere transculturale e manifestarsi maggiormente nelle società e negli ambienti meno progrediti ed evoluti, in quanto più vicini ad una condizione naturale.

I risultati sembrano smentire del tutto l’interpretazione corrente (Scott I. M., et al. Human preferences for sexually dimorphic faces may be evolutionarily novel. Proceedings of the National Academy of Sciences USA – Epub ahead of print doi:10.1073/pnas.1409643111, 2014).

I principali istituti di provenienza degli autori dello studio sono i seguenti: Department of Anthropology, Washington State University, Pullman, Washington (USA); Department of Anthropology, University of Utah, Salt Lake City, Utah (USA); Department of Anthropology, University of Oregon, Eugene, Oregon (USA); Department of Anthropology, University of Nevada, Las Vegas, Nevada (USA); Department of Life Sciences – Psychology Division, Brunel University, Uxbridge (Regno Unito); Department of Psychology, University of Westminster, London (Regno Unito); School of Experimental Psychology, University of Bristol, Bristol (Regno Unito); State Key Laboratory of Genetic Resources and Evolution, Kunming Institute of Zoology, Kunming, Yunnan (Cina); Department of Psychology and Behavioral Science, Zejiang University, Hangzhou, Zejiang (Cina).

Le ipotesi evoluzionistiche sul valore dei tratti morfologici della nostra specie, come quelle avanzate dagli antropologi, sono centrate su modelli animali ed elaborate per similitudine. In particolare, l’osservazione comparata e lo studio etologico dei grandi primati non-umani (apes), inclusi scimpanzé, gorilla e oranghi, ha fornito la base per speculazioni in grado di colmare il gap fra scimmie ed ominidi protoumani.

Il prototipo di queste “facili interpretazioni” di cui si è nutrita la cultura di massa a partire dagli anni Settanta, è sicuramente rappresentato dal lavoro di Desmond Morris. Nel saggio divulgativo La scimmia nuda[3], Morris osservava che, nella nostra specie, i peli pubici e la posizione dei genitali maschili e femminili rispondono alle necessità della tipica posizione frontale comunemente assunta nei rapporti sessuali, e la prominenza del seno della donna, assente nelle scimmie, sarebbe collegata e sostituirebbe l’effetto di attrazione delle protuberanze anogenitali che si sviluppano nella fase recettiva estrale. Secondo Morris gli uomini sarebbero attratti da un seno di grandi dimensioni perché nel cervello dei maschi della nostra specie sarebbe rimasta traccia del significato di recettività sessuale espresso dai rigonfiamenti perineali delle scimmie, ben evidenti nella loro posizione deambulatoria[4]. I capezzoli e le labbra delle donne formerebbero un sola unità espressa dal colore comune, che deriverebbe da quello della vulva in calore delle loro progenitrici ancestrali.

Nello stesso ambito culturale, le idee di Desmond Morris sono state criticate, avversate ed addirittura ridicolizzate; tuttavia la grande diffusione, l’attrattiva esercitata da un modo nuovo e trasgressivo di leggere la realtà umana e il presunto “valore darwiniano”, ne ha garantito un’affermazione che è rimasta nella pop culture e nella sottocultura di molti paesi, anche perché è mancata un’alternativa scientificamente autorevole o che facesse presa sui “non addetti ai lavori”. Ad esempio, l’assoluta severità nei confronti di queste congetture espressa da Marvin Harris[5], antropologo esponente di una corrente definita “materialismo culturale”, non è stata poi seguita da proposte interpretative fondate ed efficaci, ovvero basate su verifiche  sperimentali[6]. Harris, infatti, non è andato molto oltre la spiegazione del successo evoluzionistico del seno delle donne sulla base di una funzione di “deposito di grasso”, utile riserva energetica per le aumentate richieste della gravidanza e dell’allattamento.

Una questione di grande attualità contemporanea, tanto evidente quanto apparentemente ignorata, è rappresentata dallo sviluppo culturale di prototipi e modelli di gusto basati su riferimenti erotici e rinforzati attraverso la diffusione mediatica legata alla propaganda commerciale. Subendo l’influenza di tali modelli, si rischia di considerare “naturali” tendenze e preferenze che certamente si collegano ad una parte istintiva originaria, ma notevolmente amplificata attraverso esperienze di apprendimento mediatico che generano ulteriori espansioni nel mondo reale, attraverso il crearsi di mode diffusamente seguite.

Ma ritorniamo all’ipotesi sottoposta a verifica dagli autori del lavoro qui recensito: sostanzialmente si basa sull’assunto che il dimorfismo sessuale era importante per i giudizi di desiderabilità (attrazione) e, presumibilmente, di personalità (giudizio basato su qualità tipiche del genere di appartenenza) negli ambienti ancestrali. Non potendo tornare indietro nel tempo, si è seguito il classico espediente antropologico di cercare popolazioni poco evolute con caratteristiche accostabili a quelle delle società arcaiche. A queste sono stati affiancati gruppi sociali più evoluti. I dati attualmente a disposizione provengono tutti da studi di vasta scala, condotti su membri di comunità sociali urbane con un alto grado di industrializzazione e sviluppo economico.

L’apprezzabile tentativo di sottoporre a vaglio sperimentale l’ipotesi della lunga storia evolutiva della preferenza per tratti sessuali marcati, è stato compiuto da Scott e altri ventuno colleghi, sottoponendo a test basati sull’osservazione di volti umani dei due sessi, un grande numero di partecipanti, appartenenti a 12 popolazioni notevolmente diverse fra loro per grado di evoluzione culturale, sviluppo socio-economico e progresso civile.

Con grande sorpresa dei ricercatori, le preferenze per i tratti sesso-specifici estremamente marcati sono state manifestate esclusivamente da cittadini provenienti da ambienti con elevato livello di innovazione ed alto grado di sviluppo. Similmente, il giudizio di aspetto aggressivo attribuito a uomini con tratti marcatamente mascolini, andava notevolmente crescendo con il grado di sviluppo della popolazione di appartenenza e, in particolare, con il grado di urbanizzazione.

Questi risultati sono in aperto contrasto con l’ipotesi che il dimorfismo sessuale facciale sia stato un importante segno ancestrale ereditabile di valore per l’accoppiamento.

Un tale esito fa pensare ad un’influenza culturale sulle preferenze proprio di quelle interpretazioni di sapore neodarwiniano di cui si è discusso in precedenza, e che tanto si sono diffuse nelle società più evolute del mondo occidentale.

Gli autori propongono, invece, la seguente interpretazione per l’esito dello studio. Gli ambienti altamente sviluppati fornirebbero nuove opportunità di discernere rapporti fra tratti facciali e comportamento, esponendo gli individui ad un grande numero di volti non familiari, in tal modo rivelando patterns troppo sottili per essere rilevati in campioni di minori dimensioni.

Mi sembra appropriata questa riflessione di Marvin Harris quale commento conclusivo:

“Una volta che la selezione naturale ebbe fatto pervenire il corpo, il cervello e il comportamento dei nostri progenitori al decollo culturale, la cultura cominciò ad evolvere autonomamente, seguendo propri principi di selezione e propri modelli di ordine e disordine, di caso e necessità. Durante i successivi 35.000 anni, la selezione naturale ha continuato a formare e adattare il corpo umano ai livelli della radiazione solare, del caldo, del freddo, dell’altitudine e dello stress nutritivo incontrati nei vari habitat. Ma queste trasformazioni non possono probabilmente spiegare le immense differenze tra il repertorio culturale delle moderne società industriali e quello dei tempi preistorici. Per capire la relazione esistente […] le teorie basate sulla selezione naturale sono inutilizzabili e fuorvianti”[7].

 

L’autore della nota ringrazia la professoressa Monica Lanfredini per la collaborazione e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-04 ottobre 2014

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] La cultura cristiana ha promosso l’interesse per le virtù morali, ha trasmesso una lettura del corpo come “tempio dello spirito” ed ha proposto un modello di unione sacramentale nel matrimonio, quale patto dei due coniugi con Dio per la partecipazione all’opera creatrice divina, che ha escluso l’eros come pratica di piacere, in quanto edonistica disobbedienza alla legge dell’amore oblativo.

[2] Monica Lanfredini, Considerazioni sulle influenze del sapere diffuso sui modelli culturali e scientifici dell’uomo e della mente umana, p.2 (manoscritto non pubblicato), 2014.

[3] Cfr. Desmond Morris, La scimmia nuda, Milano 1969; Desmond Morris, Zoo umano, Milano 1970.

[4] Nello stesso periodo l’interpretazione corrente più diffusa in ambito scientifico era di tipo neurobiologico e psicologico: il valore attribuito dai sistemi troncoencefalico-limbici alla percezione dei caratteri secondari del sesso opposto sarebbe basato sulla mancanza nel proprio sesso di quel tratto e proporzionale all’entità dell’evidenza. Tale tendenza neurobiologica sarebbe poi elaborata in chiave psicologica e culturale: in tal modo, si tendeva a spiegare la frequente preferenza degli uomini per i capelli lunghi nelle donne e di molte donne per gli uomini pelosi e barbuti. Tuttavia, la sessuologia e la psicopatologia avevano dimostrato da tempo che l’attribuzione di valore erotico nella nostra specie è soggetta a grandi variazioni, che vanno dalla raffinata percezione artistica di dettagli estetici alle perversioni feticistiche.

[5] Cfr. Marvin Harris, La nostra specie. Natura e cultura nell’evoluzione umana, pp. 142-144, Rizzoli, Milano 1991.

[6] Naturalmente, in questi casi le verifiche sono indirette e non decisive, tuttavia possono fornire fondati elementi di giudizio, se non altro in negativo, legati alla probabilità.

[7] Marvin Harris, op. cit., p. 101.